SULLA MALATTIA E SULLA SOFFERNZA - SOMMARIO
Convegno Associazione Ticinese Terza Età (ATTE), Lugano 3.10.94
"Sulla malattia e sulla sofferenza" Incontro a Trevano 27.11.1994
Il Vescovo Eugenio Corecco intervistato da Michele Fazioli durante l’emissione televisiva “Controluce” il 23 gennaio 1994 alla TSI, ha commosso il Ticino parlando della sua malattia. Riportiamo parte di quell’intervista perché la si possa rileggere come una testimonianza di grande umanità e un aiuto per affrontare in modo diverso il tema della sofferenza, della malattia e della morte.
Fazioli: …
adesso è di nuovo ammalato e si sta curando, lo ha detto in una lettere
7 giorni fa a tutti i parroci e dunque a tutti i cattolici ticinesi. Mons. Corecco
lei ha scritto in pratica alle donne e agli uomini del Ticino dicendo “sono
ammalato, mi sto curando, rafforziamo la comunione tra noi”. Perché
ha scritto questo? Perché ha manifestato pubblicamente questo?
Corecco: perché
ho intuito che fosse giusto farlo perché ho una funzione pubblica. Non
ho una privata anzi, da quando sono diventato Vescovo l’aspetto privato
della vita è quasi totalmente scomparso; ho una responsabilità
nei confronti di tante persone, non ci sono ragioni per nascondere una malattia,
anzi rivelare la presenza di una malattia può essere di aiuto a tante
persone che soffrono, che sono malate anch’esse. Me ne accorgo del resto
perché quanto vado a Bellinzona al San Giovanni a fare la radioterapia
incontro tante persone, e sento che si allarga loro il cuore a vedere che anche
il Vescovo è lì in mezzo a loro e che fa le stesse terapie che
devono fare loro. E poi ho pensato che fosse un modo di dare una testimonianza,
sul come affrontare la malattia che è un momento serio, e forse il più
serio della vita. (…)
Fazioli: …
nella sua lettera che è stata letta nelle chiese del Cantone Ticino sabato
e domenica scorsi lei dice che questa sua malattia dovrebbe accentuare la comunione
con i fedeli, con i membri, i cattolici che fanno parte della Diocesi, della
Chiesa che è in Lugano, che è nel Ticino. Cosa significa per lei
questo rapporto fra la malattia e la comunione?
Corecco: ma,
la malattia è un valore a condizione di saperla vivere nel suo vero significato.
Dicevo prima che la malattia fa emergere un momento estremamente serio della
vita, tanto più quando la prospettiva potrebbe essere anche quella della
morte, per cui la malattia pone l’uomo di fronte a se stesso, lo ridimensiona;
l’uomo sente di aver dentro una “finitezza” che però
scopre nella sua verità solo quando questa finitezza esistenziale, diciamo
metafisica, che ha dentro di lui, si rivela attraverso la malattia del corpo,
e la malattia del corpo gli fa capire che il tempo è contato, è
più breve di quello che uno può pensare quando è sano.
Dunque pone l’uomo nella necessità o nell’urgenza di pensare
al suo destino, alle ragioni del suo vivere ed anche alle ragioni del suo morire
o del suo scomparire. Ecco in questo senso la malattia ha dentro un valore,
se ha dentro un valore che è comune a tutti; dunque vivere la malattia
bene e annunciare agli altri, dire agli altri, testimoniare agli altri come
si deve vivere una malattia fa crescere le altre persone nella stessa esperienza,
e del resto quando due persone fanno una esperienza uguale si sentono più
amiche fra di loro, così è anche nell’ambito dell’esperienza
religiosa e spirituale.
Fazioli: in un articolo
di lunedì, il Direttore del Corriere del Ticino, Sergio Caratti, diceva
che il testo della lettera del Vescovo non è fatto per infondere tristezza,
al contrario invita alla serenità, alla preghiera, ed è infondo
una piccola lettera pastorale che vale da insegnamento circa l’atteggiamento
che occorre cristianamente assumere di fronte alla malattia. Può essere
letta così, quasi come un’indicazione pastorale?
Corecco: sì certo, ha perfettamente ragione Caratti,
ha colto nel segno aldilà forse della mia intenzione; non avevo intenzione
di scrivere una lettera pastorale, né prevedevo infondo che questo piccolo
testo avesse una risonanza così grande, ma in realtà questo testo
ha avuto una grande risonanza, tant’è che io ricevo un mare di
corrispondenza in questi giorni.
Fazioli: e non può
rispondere a tutti beninteso.
Corecco: non posso rispondere a tutti, cercherò, se
ce la faccio quando sarò in Terra Santa di mandare una cartolina, comunque
ringrazio tutte le persone che mi scrivono e si rifanno molto spesso a quello
che ho detto nella lettera; arrivano dei testi che sono meravigliosi, questo
fa capire che tanta gente aldilà delle apparenze vive una vita profondamente
spirituale e ha il senso di queste cose. Per me non è la prima volta
perché già in occasione della prima operazione ho ricevuto una
montagna di corrispondenza e ho capito che, sì oserei quasi dire che
sono più utile alla gente quando sono ammalato di quando sono sano.
Fazioli: questo
farebbe dire che in qualche modo la malattia, il dolore, la croce si può
dire, siano quasi augurabili, ma questo però è un modo un po’
pessimistico, perché il volontarismo alla sofferenza è anche sbagliato.
Corecco: non, non sono augurabili a nessuno, neppure a un Vescovo,
perché la Chiesa ci insegna a pregare per rimanere nella salute; possono
diventare una grazia dopo che sono capitate, ecco allora sì, bisogna
riuscire a trasformare questo fatto, in sé negativo, trasformarlo in
un momento di ricostruzione della persona e di instaurazione di rapporti con
gli altri. Del resto il cristiano ha sempre, aldilà delle sue capacità
di vivere queste cose, ha sempre una via di uscita perché può
sempre dare senso alla sua malattia sapendo di essere accompagnato da Cristo
che è morto sulla croce.
Fazioli: lei ha
detto in un’intervista parlando di questo “la malattia mette tutto
in discussione si può guarire, si può morire,può cambiare
il resto della vita, mette a nudo il fatto che esiste un destino presente e
futuro della nostra persona” e ancora in questa intervista che era ancora
un’intervista del direttore del Corriere del Ticino dice “l’ammalato
anche se non dovesse esprimersi interiormente attraverso la preghiera, intuisce,
registra pensieri profondi, prova sentimenti di ribellione contro il proprio
destino, ama Dio o lo odia, gli dice di sì o grida l’ingiustizia,
insomma uno in ultima analisi o prega o bestemmia ma sul letto dell’ospedale
vive sempre qualcosa di più profondo e perciò di più spirituale”.
Corecco: questo
è vero non perché l’ho pensato, ma perché l’ho
vissuto; anch’io sono stato assalito dalla ribellione, dal fantasma, dalla
incomprensione, dalla paura, non tanto questa volta, quanto l’altra volta,
dalla paura di scomparire nel nulla, perché la fede non elimina l’emotività,
non elimina le paure della gente, almeno non a tutti, perché poi ci sono
tanti modi anche di morire, c’è chi muore nella gioia, c’è
chi muore invece nella paura, ha avuto profondamente paura di fronte alla morte,
perché ha avuto l’impressione di scomparire nel nulla. E queste
cose io le ho vissute, le ho scoperte, non sapendo che la gente potesse vivere
così, mi ha arricchito. La fede è un giudizio che sostiene, che
permette di non abbandonarsi a queste cose, ma un conto è provarle e
sentirle come tentazioni e un conto è abbracciare questa soluzione della
vita.
Fazioli: nella lettera
ai cattolici lei chiede la preghiera, dice “voi mi potete dare un aiuto
con la preghiera con il vostro rinnovato impegno”, dice ai parroci, e
si dice certo, che “anche questa volta la preghiera vicendevole e quella
profonda delle comunità avrà la potenza di creare fra noi un vincolo
di unità più profonda”. Allora lei che cosa chiede alla
preghiera dei cattolici ticinesi?
Corecco: ma chiedo due cose, contemporaneamente una più importante
dell’altra ma umanamente l’importanza è rovesciata. Chiedo
di guarire, ma chiedo soprattutto di saper vivere bene la malattia, perché
questo è più importante della guarigioni. Del resto io ho citato
un salmo che ho letto per 50 anni e non avevo mai scoperto, perché si
leggono e si ripetono le preghiere, poi improvvisamente scatta come una lampadina
dentro la mente e uno scopre una frase sulla quale era passato mille volte;
“la Tua grazia è più importante della vita”, chissà
io quante volte ho letto questa frase, chissà quante volte l’han
detta i preti, le suore e i laici che pregano le lodi della domenica. Poi improvvisamente
ho capito la verità profonda che è contenuta in questa frase.
Fazioli: forse perché
la fede per essere viva deve incarnarsi nella vita vera.
Corecco: certo l’esperienza umana fa sentire e sperimentare
la verità della fede perché la fede ci è data per capire
meglio la nostra umanità e il nostro destino umano, non per sostituirlo,
ma per capirlo meglio perché la fede non è un’alternativa
alla vita, ma è la rivelazione della verità sull’uomo e
su Dio dunque per vivere meglio quello che stiamo facendo. Ecco, per dire che
la Fede è adesione al proprio destino. (…)
Ho quindi una preghiera che mi ha mandato una signora. Tra le molte cose che
mi mandano, mi mandano delle preghiere estremamente significative e belle. Questa
è la preghiera di un prete del IV secolo, che poi era filosofo e poeta,
San Gregorio di Nazanzio che si è ammalato; immaginative cosa voleva
dire ammalarsi nel IV secolo, voleva dire morire, dice “dammi forza Signore,
perché ora sono annientato”. Ha visto la morte e lo strazio “la
mia bocca parlava forte di Te, adesso tace” e poi prega “Signore,
dammi la forza, non abbandonarmi perché voglio di nuovo ritornare in
salute per gridare il tuo nome a tutti”. Io avevo quasi paura di domandare
al Signore di guarire perché dicevo, perché deve privilegiare
me e tanta gente muore, ma quando ho letto questa frase ho cominciato a pregare
di più perché anch’io ho voglia di continuare ad annunciare.
“Signore mia forza, non lasciarmi solo”. Queste sono preghiere che
rivelano il cuore dell’uomo.
Fazioli: il fatto
che le mandino queste preghiere significa che, come dice lei, da ammalato è
riuscito a creare un filo di collegamento magari più intenso, più
a nudo, nel senso più vero che non in veste ufficiale, il Vescovo istituzione.
Corecco: per quello dico che può darsi che la malattia
mi renda più utile della salute.
Fazioli: forse la
malattia pone anche il problema del tempo, perché c’è il
tempo della sofferenza, della cura, della guarigione, c’è anche
la percezione che può essere il tempo ultimo, insomma, ogni minuto diventa
prezioso per l’impegno proprio della vita.
Corecco: può essere il tempo più favorevole e
questo basta. (…)
Fazioli: …
tra l’altro lei incontra la gente alle terapie radianti di Bellinzona?
Corecco: certo c’è gente che vuole assolutamente salutarmi.
Una signora che mi ha salutato,poi è entrata prima di me dalla stessa
squadra di infermieri che mi han detto che era felice, “finalmente sono
arrivata a toccare la mano del Vescovo”. (…)
Fazioli: Mons. Corecco,
quindi lei vivrà anche condividendo le cure, la malattia, i possibili
dolori, la sofferenza, tutto insieme in una sorta di vita più intensa,
anche se certo c’è da augurarsi che la sofferenza non ci sia e
che le cure abbiano effetto.
Corecco: ma, non è la sofferenza fisica, perché
oggi è facilmente controllabile, anche se non la si può eliminare
del tutto, però non è quello. La malattia è un fatto spirituale
oggi, che può essere duro da vivere oppure può avere un significato.
Fazioli: lei sa
che con queste parole ha parlato anche a molti ammalati adesso in televisione.
Corecco: sono contento di avere questa occasione perché
forse li trascuro, perché per quello che è il mio apostolato diretto,
quello che faccio io in prima persona, mi sono buttato sui giovani a partire
da un’esperienza, a partire da una storia personale, a partire da una
mia genialità in queste cose. Ma tante volte mi sono detto, perché
non vado una volta al mese, una giornata intera in un ospedale a trovare la
gente, adesso ho l’occasione di dire che comunque li ricordo tutti, che
sono nella stessa situazione, che non vado a consolare dall’esterno perché
…, consolare vuol dire aiutare la gente a vivere con parole vere, con
parole che aiutino le persone a vivere bene la loro situazione, non a nasconderla.
Per quello ho scritto la lettera, la malattia non deve essere nascosta ma vissuta.
Unzione
degli infermi
Lourdes 25.9.94
Omelia alla Santa Messa per l’amministrazione del Sacramento dell’Unzione
degli infermi
Cari fratelli e sorelle nel Signore,
ciò che stiamo compiendo
in questo rito, in cui riceviamo l’Unzione degli ammalati, ha una storia
lunghissima, che risale al tempo degli Apostoli. Le prime comunità hanno
infatti cercato di capire quali sarebbero state le conseguenze, nei rapporti
tra i cristiani, della comunione di fede in Gesù Cristo e hanno tradotto
questo rapporto in gesti liturgici e caritativi. Hanno così istituzionalizzato
l’intuizione avuta, dopo aver meditato sulle parole di Cristo, nelle Beatitudini:
“Beati gli afflitti, perché saranno consolati”. San Giacomo,
di cui abbiamo letto il brano, tratto dal capitolo 5 della sua lettera, un giorno
scrive ai cristiani: “Se qualcuno è ammalato tra di voi, chiami
a sé i presbiteri e preghino su di lui dopo averlo unto con l’olio,
pregando il Signore. La preghiera fatta così con fede salverà
il malato, il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati gli saranno
perdonati. Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate
gli uni per gli altri per essere guariti. Molto vale la preghiera del giusto
fatta con insistenza”. Questo è un fatto nuovo nella storia dell’umanità.
Al capezzale degli ammalati sono sempre accorsi gli uomini della medicina, ma
in genere non gli uomini del sacerdozio. Sappiamo benissimo che gli ammalati,
in tante culture, erano separati dalle comunità e abbandonati a loro
stessi. San Giacomo capisce che non si può vivere in questo modo e ha
l’intuizione di convocare attorno agli ammalati, i presbiteri con la comunità
dei cristiani, per significare che la Chiesa deve farsi carico delle persone
che, nel suo seno, sono ammalate.
Questo fatto nuovo nella storia dell’umanità è un gesto
bellissimo, che si può compiere solo se si prende sul serio l’invito
di Cristo di consolare gli afflitti: “Beati gli afflitti perché
saranno consolati”. E questo è diventato il Sacramento degli ammalati.
“Dopo averlo unto con olio nel nome del Signore – l’olio era
ritenuto un medicamento generale, che leniva comunque tante sofferenze fisiche
– preghino su di lui”. Chiama a raccolta per riunirsi attorno all’ammalato,
i presbiteri e tutta la comunità, perché si prendano carico di
lui, lo ungano con olio e preghino con lui, poiché “la preghiera
fatta con fede salverà l’ammalato”. Il Signore lo rialzerà
e “se ha commesso peccati, gli saranno perdonati”.
Lo salverà, dandogli fiducia: il malato si sente ancora utile, appartenente
a qualcuno, non abbandonato. Questo è il primo segno della salvezza,
che può tradursi anche in guarigione. Sappiamo benissimo che la preghiera
per gli ammalati, e Lourdes ne è la prova, può tradursi anche
in grazie speciali, se non addirittura in miracolo.
Questo fatto appartiene tipicamente alla cultura dei cristiani, che, da subito,
hanno preso a carico i propri ammalati, in tutte le comunità. È
quello che stiamo compiendo in questo momento, dando forma esplicita a ciò
che San Giacomo, fin dall’inizio, ha raccomandato ai cristiani di fare.
Dobbiamo quindi prendere coscienza di non compiere un semplice rito, che potrebbe
anche non esistere, ma uno dei sette Sacramenti, che appartengono ai gesti fondamentali
della vita del cristiano e della vita della comunità cristiana, assieme
al Battesimo, alla Cresima, all’Eucaristia, al Matrimonio. Assieme a tutti
gli altri Sacramenti c’è quindi anche un Sacramento che , non solo
accompagna l’avvenire delle sue singole persone, ma che accompagna anche
le persone provate dalla sofferenza e magari vicine alla morte.
È già una grande consolazione sapere queste cose e rendersi conto
che la Chiesa, cioè a Comunità di tutti i cristiani, ha il dovere,
che nasce dalla sua natura stessa, dal suo esistere stesso, di occuparsi delle
persone ammalate. Questa preghiera, questo olio, versato sugli ammalati hanno
un potere redentivi, salvano i cuori degli uomini, promuovono conversioni interiori,
provocano lacrime di dolore per i nostri peccati, consolano, ci aiutano ad accettare
la malattia e pure la morte, magari ci fanno anche il dono della salvezza fisica.
È difficile dire qual è il Sacramento, dopo l’Eucaristia,
che dovremmo avere più caro, ma questo tocca le corde più profonde
della nostra umanità, dell’uomo,che vive bene quando è sano,
ma che vive nell’angoscia, quando è ammalato e intravede che potrebbe
anche essere vicina la sua morte.
Questo Sacramento esprime la carità della Chiesa, la vostra carità
nei confronti di tutte le persone ammalate. E la carità è l’apice
dell’esperienza cristiana; tutto quello che facciamo e ci diciamo deve
sfociare nella carità vicendevole, nella comunione. È un Sacramento
che, se vissuto veramente bene, esprime l’essenza stessa della Chiesa,
la ragione ultima per cui la Chiesa esiste: quella di perdonare i nostri peccati.
“Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate
gli uni per gli altri per essere guariti”. Noi ora abbiamo domandato perdono
a Dio davanti a tutti, perché ci siamo riconosciuti peccatori, abbiamo
recitato il Confiteor e stiamo pregando assieme. Vi rendete conto di quanto
sia grande la consolazione della persona, sentendo che gli altri pregano per
la sua salvezza, del corpo e dell’anima. Personalmente sto facendo largamente
questa esperienza. Mi auguro che ciascun ammalato, cha abbiamo qui tra noi,
possa vivere la stessa esperienza. Possa sentire che tutta la comunità
diocesana prega per lui, per la sua salvezza, che può essere data anche
attraverso la consolazione, attraverso la pace del cuore di fronte al pensiero
della morte, con l’accettazione del fatto di dover morire. È la
cosa più grande che dovremmo riuscire a fare nella vita, perché
la morte ne è il momento più importante.
Dovete diffondere il significato di questo Sacramento tra i cristiani, perché
lo stiamo riducendo a un breve rito, fatto quasi di nascosto, all’ultimo
momento, per non incutere paura all’ammalato, mentre è il Sacramento
che dovrebbe aiutarlo ad assumere consapevolmente la sua situazione. Noi invece
l’abbiamo stravolto. Dobbiamo recuperarlo fino in fondo nelle nostre comunità
e partecipare alle Unzioni degli infermi amministrate in parrocchia. Ma per
partecipare con legittimazione, dovremmo essere stati attenti prima a questi
ammalati, sostenendoli, visitandoli, intervenendo in loro aiuto.
Al termine dell’Eucaristia
Al termine di questa liturgia in
cui abbiamo celebrato il Sacramento dell’Eucaristia e dell’Unzione
degli infermi desidero ringraziarvi tutti per l’incessante preghiera che
fate per la mia salute:mi sento molto privilegiato. Ma vi raccomando di non
dimenticare gli altri ammalati, che abbiamo qui in mezzo a noi. Ci sono anche
dei sacerdoti, Mons. Farco Biffi, Mons. Albisetti di Chiasso e Don Cipriano
Pianini, di cui non dovete dimenticarvi. E pensate anche a tutte quelle persone
che muoiono massacrate in un modo o nell’altro , senza avere le consolazione
del Sacramento degli infermi.
È il tema di questo pellegrinaggio: aprirsi al dolore di tutto il mondo,
di tutto l’umanità, perché questo è molto importante
per la salute stessa della nostra anima. Non possiamo vivere pensando solo a
noi stessi, fosse pure nella preghiera. Dobbiamo avere una mente che si allarga
a tutti i bisogni della Chiesa. E approfittate di queste occasioni, che si prestano
così bene per coinvolgere, nella preghiera, tutte le persone, che soffrono
nel mondo, soprattutto quelle che soffrono in modo profondamente ingiusto. È
questo un momento di crescita importante per la nostra persona.
Vi raccomando di pregare per tutte le persone che si sono affidate alle vostre
preghiere, perché è facile che ce ne dimentichiamo. Lo ricordo
spesso nei pellegrinaggi, perché anche noi ci raccomandiamo agli altri,
prima che partano per un pellegrinaggio. La preghiera è il modo più
profondo per entrare in contatto tra noi cristiani; nel Corpo Mistico di Cristo,
di cui noi facciamo parte, la preghiera vicendevole è il momento di comunicazione
più profondo e più sicuro.
† Eugenio Vescovo.
Convegno
Associazione Ticinese Terza Età (ATTE)
Lugano 3.10.94
“Permettetemi di tentare un parallelo tra la malattia grave e la terza
o la quarta età, non certo perché queste ultime siano una, o la
malattia della vita, anche quando fosse disseminata e segnata da sofferenze
corporali e spirituali.
Prescindendo dalla evidente diversità tra la malattia e la terza età,
esiste tra le due situazioni un fatto comune: quello del tempo. Nell’uno
e nell’altro caso una persona si accorge che il tempo stringe; che il
tempo non è più quello di una volta, al quale vivendo, si poteva
anche non pensare.
Il tempo diventa una presenza costante nell’orizzonte quotidiano di una
persona gravemente ammalata o anziana. Si intensifica e circoscrive con maggiore
precisione la vita, facendone emergere, non solo la finitezza, ma soprattutto
il valore.
Il tempo diventa una presenza alla nostra vita che non possiamo più eludere,
dimenticandolo, come quando eravamo sani o giovani.
Questa constatazione non è assolutamente negativa, poiché lo possiamo
e lo dobbiamo vivere come esperienza positiva.
Per quanto mi concerne, mi sono accorto che, in questa situazione, l’essenza
della vita si è concentrata, assumendo uno spessore esistenziale molto
più forte di prima. Immagino che anche moltissimi tra di voi se ne siano
accorti. La vita assume una dimensione di urgenza, prima insospettata, anche
se l’ipotesi di guarire o di poter vivere ancora a lungo fosse reale.Si
capisce che, oltre ad essere irripetibile, il tempo è diventato breve,
per cui deve essere vissuto ed apprezzato più intensamente di prima.
Questo non certo per quello che si riesce ancora a fare, ma per quello che si
vive interiormente, paragonando sé con se stessi e con il proprio destino.
In questa prospettiva il passato diventa secondario: quello che conta veramente,
poiché ne siamo ancora padroni, è solo il tempo presente. Infatti,
solo se viviamo nel presente potremo vivere il futuro secondo il tema del Congresso:
Io ero, io sono, io sarò.
Assieme alla coscienza che il tempo stringe, emerge in modo sempre più
chiaro la propria solitudine. Infatti, o non abbiamo più chi ci accompagna
nella vita, come quando eravamo giovani, o ci rendiamo conto, se siamo ammalati,
che malgrado l’affettuosa solidarietà di molti – che comunque
è sempre di immenso aiuto – nessuno può sostituirsi alla
nostra persona. Due anni e mezzo fa, dopo un’intera giornata di analisi
in ospedale, ho percepito forse per la prima volta la solitudine che mi circondava.
Il medico avrebbe potuto ancora offrirmi, come segno della sua affezione, un
tè da sorseggiare, ma era tutto quello che avrebbe potuto ancora fare.
Poi, avrei dovuto fare i conti da solo, con me stesso.
Anche facendo questa constatazione, non intendo affatto caricarla di significato
negativo. Anche la solitudine, sempre comunque presente alla nostra persona,
può e deve diventare una possibilità per prendere più consapevolezza
di noi stessi.
Tanto più che per acquisire questa coscienza della vita e del significato
del nostro destino non è mai troppo tardi. Può sopraggiungere
anche alla fine, e questo basta.
Sia la certezza che il tempo stringe e si carica di una intensità umana
nuovo, sia il saper fare i conti con più grande maturità con la
nostra solitudine, che ci fa scoprire il valore irripetibile della nostra persona,
mi sembrano i due aspetti comuni, profondamente positivi, tanto della malattia
quanto della vecchiaia. Ci aiutano a vivere con più grande dignità,
e magari anche con maggiore convinzione, il significato della nostra vita presente,
passata e futura.
Ognuno potrà trovare, nei valori in cui ha sempre creduto, la propria
soluzione: quella che lo può sorreggere maggiormente, e mi auguro che
lo possiate fare tutti, per non vivere la terza e la quarta età nei rimpianti,
nella malinconia o nella rassegnazione, ma è normale che per un cristiano
questa nuova interiorità si traduce in preghiera.
È inevitabile per un credente, in queste situazioni della vita, pensare
alla sua origine stabilendo un rapporto più intenso, in mezzo al volto
delle cose di tutti i giorni, con il Signore, dal quale sa di dipendere nella
sua esistenza. Ciò da un significato vivibile anche alla solitudine,
perché nella preghiera interiore il cristiano cerca e scopre una compagnia
ultima per la persona, destinata a diventare quella definitiva.
Se questa mia testimonianza sarà stata utile a voi per vivere sempre
più intensamente e con grande sicurezza nel cuore, sono ben felice di
essere riuscito a comunicarvela”.
† Eugenio Vescovo.
Sulla
malattia e sulla sofferenza
Trevano 27.11.94
Il compito del Vescovo non consiste
solo nel predicare il Vangelo, nell’annuncio della Parola, ma anche nell’aiutare
concretamente i fedeli che gli sono affidati a vivere questo annuncio. Proprio
perché, nella misura delle sue capacità, deve aiutare concretamente
i fedeli a incarnare il Vangelo nella vita di tutti i giorni, credo che non
può sottrarsi al dovere di dare testimonianza sul modo con cui ha vissuto
e può essere vissuta la malattia, perché la malattia è
parte integrante della vita umana. Se lasciassimo fuori dalla vita la malattia,
non saremmo sinceri, non copriremmo tutta l’esistenza umana, anzi copriremmo
una parte essenziale della nostra esperienza umana.
Invece la nostra società tende a estrapolare la malattia fuori dal contesto
della vita sociale, perché, mentre si fa moltissimo per aiutare a vincere
la malattia, nello stesso tempo la si censura. Nessuno infatti parla volentieri
del proprio stato di non salute e il valore principale della vita è spesso
collocato nella salute che si gode. “Prima di tutto la salute”;
“la cosa più importante è essere sani”: questo è
il giudizio che corre costantemente non solo tra gli uomini, ma anche tra coloro
che credono in Gesù Cristo. Il valore supremo della vita è spesso
collocato nel valore della buona salute. Certo la salute è il presupposto
importante per fare molte cose che dobbiamo fare nella vita, ma non è
il presupposto perché la nostra vita abbia veramente un valore. Anche
le persone che soffrono, che sono confrontate duramente con la malattia, che
sono ammalate durante tutto il tempo della loro vita, possono vivere un’esperienza
umana molto grande e possono dare alla loro esistenza un valore inestimabile.
Spesso, se vissuta bene, la malattia dà alla vita un valore più
grande di quanto non lo possa dare la salute stessa. Questa è la ragione
che mi ha indotto ad accogliere l’invito di Caritas, che ringrazio per
aver avuto questa idea di chiamarmi da parlare della mia esperienza, ma soprattutto
perché cerca di andare incontro a tutte le persone che sono ammalate
di malattia consistente. Ringrazio Caritas, perché forse solo alla Caritas,
in quanto esperienza in cui si riflette quello che la Chiesa deve fare nella
società, poteva nascere l’idea ridomandare al Vescovo di parlare
in pubblico della sua malattia. Non si può fare un “Controluce”
tutte le settimane, magari lo si può fare solo una volta in vita,ma tuttavia
io voglio tornare sulla questione, seppure in altri termini, in quanto non provocato
da nessuna domanda, perché sono convito di potervi aiutare: voi che siete
ammalati e forse anche voi che siete sani, benché non vi troviate nella
posizione giusta per capire cos’è il valore della malattia. Per
aiutarvi a vivere l’esistenza in un modo così profondo da dare
valore anche alla sofferenze fisica.
I sani più difficilmente riescono a capire e questa è stata anche
la mia esperienza personale prima di essere ammalato. Non mi sono quasi mai
posto il problema della sofferenza attraverso la malattia. E non penso di aver
capito molto sulla malattia, leggendo semplicemente dei saggi o dei libri sulla
materia. Perché noi riusciamo a comprendere veramente l’essenza
della nostra vita, solo a partire dall’attenzione che sappiamo dare all’esperienza
che stiamo vivendo. Infatti solo vivendo un’esperienza in modo consapevole,
riusciamo a ricavarne sempre una indicazione per la nostra vita.
Ripensando ad una esperienza molto bella che facciamo tutti gli anni e che abbiamo
fatto anche quest’anno, mi sono chiesto perché la nostra Chiesa
particolare sente il bisogno di portare i suoi ammalati a Lourdes. Non è
un progetto, nemmeno un semplice gesto di carità, non è solo per
aiutarli ad arrivare fino ai piedi della Madonna per domandare la grazia della
guarigione spirituale o fisica. Credo che questo gesto della Chiesa di riunire
i suoi ammalati – e il Vangelo ci ricorda che questo fenomeno è
incominciato attorno alla persona di Gesù – nasce da un bisogno
più profondo,che supera l’esigenza e la situazione di ogni singola
persona. È quello di dire e mostrare che la malattia in mezzo al popolo
cristiano, nell’esperienza della comunità cristiana, ha un valore
profetico. Portando gli ammalati a Lourdes vogliamo esplicitare questa funzione,
questo valore della malattia, rendendo pubblico quello che la malattia è
in se stessa. Perché la malattia è sempre un segno della morte.
Sta in questo il valore profetico dell’essere ammalati. In effetti ognuno
di noi, quando è colpito da una malattia che potrebbe portare anche in
breve tempo alla morte, anticipa il momento finale della vita terrena, quello
della morte: il momento più importante della vita umana, nel passaggio
da questa alla vita futura. La malattia si pone in mezzo a noi come segno e
richiamo di quello che ogni persona vivrà: il memento della sua morte.
Noi dobbiamo richiamare questo valore, ce lo dobbiamo richiamare tra di noi
continuamente, perché la morte è il momento più importante
della nostra esistenza. La malattia può aiutarci a capirne l’importanza,
a comprendere quanto sia grande il momento della fine della nostra vita terrena.
Ci aiuta infatti a capire in anticipo – da qui il suo carattere profetico
– il nostro destino e quanto noi abbiamo bisogno di un Altro, di Qualcuno
più grande di noi. La malattia, se vissuta bene, è il momento
pedagogico all’interno della vita umana che meglio di tutti gli altri
ci può aiutare a capire hi siamo noi, chi è Lui e quanto più
grande sia Lui. In effetti, per l’esperienza che faccio, ma prima di tutto
per quanto ci rivela il Vangelo, la malattia ci fa capire se siamo disposti
nella vita a compiere veramente la sua volontà. Infatti l vero problema
per un cristiano alla fine della vita non è, prima di tutto, riuscire
a domandare perdono dei propri peccati o fare magari una confessione generale.
Il vero problema che rimane da risolvere, anche se ci confessiamo, anche se
riceviamo il sacramento degli infermi, è riuscire a dire il nostro sì
al Signore, che ci chiama. Di fronte a questo sì noi abbiamo paura. Non
è facile nel corso della vita dire veramente sì al Signore, senza
sotterfugi. Noi lo diciamo mille volte, recitando il “Padre Nostro”,
ma viviamo spesso e in genere con delle riserve mentali. Diciamo “sì”
al Signore, ma anche al nostro progetto, alla nostra volontà. Più
che pregare il Signore perché sia fatta la sua volontà, lo preghiamo
di accogliere la nostra richiesta, di fare la nostra volontà. Il che
non è illecito: infatti possiamo chiedere al Signore la grazia di fare
quello che noi vorremmo si compisse, ma con la riserva che la cosa più
importante per noi è comunque che si compi la volontà di Dio.
Il problema della morte è quello di saperla vivere, dicendo sì
al Signore, dicendogli: “sono disposto a venire”. Può sembrare
semplice, ma in realtà è molto difficile. E la malattia ci prepara
, perché nel corso della malattia ci ritroviamo quasi nella stessa situazione
della morte. È per questo che è più importante morire attraverso
una malattia, che morire di morte improvvisa. Moltissimi pensano che la cosa
migliore sarebbe quella di morire improvvisamente, per on soffrire, per non
essere consapevoli di quello che succede, per non dar fastidio a nessuno. Ma
questo è un discorso che il cristiano non dovrebbe fare, perché
la malattia è un aiuto per prepararci alla morte: sia una malattia vicina
alla morte, sia essa ancora relativamente lontana, ma con in germe la possibilità
della morte. La morte improvvisa non è qualche cosa che ci dobbiamo augurare,
perché la sofferenza ci aiuta a prepararci, a presentarci al Signore,
a seguire il Signore che ci chiama. Questo è quello che dobbiamo augurarci
tutti: essere pronti a dire al Signore il nostro sì. Prima della mia
prima operazione grave, visitavo una signora in un ospedale di Lugano. E mi
sono accorto che questa signora, malgrado fosse sempre stata presente alle celebrazioni
in cattedrale, fosse fedele, assidua, dedita alla preghiera, non riusciva ad
accettare il fatto di dover morire. Andavo a visitarla per aiutarla a capire
che la cosa essenziale nella sua situazione era accettare questa chiamata al
Signore, per quanto le potesse sembrare prematura. E mi ponevo dei problemi,
fin quando, essendo anch’io caduto ammalato, ho capito perfettamente come
questa signora, pur essendo stata una brava cristiana, potesse non accettare
il momento della morte, perché la stesse tentazioni che lei ha avuto,
penso di averle passate tutte in rassegna, anche nella mia persona. La morte
è il momento della tentazione e la malattia è profetica, perché
ci anticipa le tentazioni che la morte ci porta. Vengono dalla nostra ragione
e prendono chi è toccato da una malattia grave, che può portare
alla morte. Infatti chi è in questa situazione, si pone inevitabilmente
questo problema e questi interrogativi: “Perché proprio io?”;
“Cosa ho fatto di male?”; “Ho cercato sempre di educare bene
i miei figli, eppure adesso mi tocca morire”; “È un’ingiustizia”.
Si sente avvicinarsi come un fatto ingiusto. La vita appare come una truffa,
una promessa di qualche cosa che poi sfuma in una fine che non contiene apparentemente
nessuna promessa, che non realizza più nessuna promessa, fino a pensare
che è meglio non vivere, che morire così. Queste sono le tentazioni
che insorgono nella persona vicina alla morte; nella persona ammalata, cosciente
che potrebbe anche morire. Sente l’urto di queste obiezioni apparentemente
della nostra ragione. E nasce una ribellione. Ho capito che quella signora stava
facendo un’esperienza che non era solo sua particolare, ma che prima di
tutto era diventata la mia esperienza e che molto probabilmente è l’esperienza
di tutti. Una ribellione di fronte alla morte, anticipata in certi casi dalla
malattia. Del resto questo è avvenuto anche nella persona di Gesù,
che ha fatto sua tutta l’esperienza umana. Ha realizzato in se stesso
tutto quello che l’uomo può vivere e sperimentare nella sua esistenza.
Proprio di fronte alla morte ha fatto l’esperienza più profonda
che possiamo immaginarci, quando ha sudato sangue nel giardino del Getsemani.
In mezzo a tutte le atrocità di cui siamo testimoni in questo tempo,
non capita mai di sentire che delle persone abbiano sudato sangue di fronte
alla morte. Eppure Gesù, dice il Vangelo, ha sudato sangue. Significa
che la sua paura di fronte alla morte ha superato quasi i limiti della espressione
umana. Vuol dire che ha avuto veramente paura di scomparire nel nulla, di inabissarsi
senza ritorno dentro un baratro che si chiude e porta via la nostra vita personale
senza lasciare una traccia. Sulla croce ha gridato “Dio mio, Dio mio,
perché mi hai abbandonato?”, riprendendo un salmo dell’Antico
Testamento, che incomincia con queste righe di disperazione e che poi si scioglie
verso sentimenti di speranza, di fiducia nel Signore. Sulla croce ha messo in
evidenza la prima parte di questa esperienza, che il popolo ebraico aveva formalizzato
in tono e in stile poetico. “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
Questa esperienza la facciamo anche noi. Di fronte alla morte anche noi abbiamo
l’impressione di essere abbandonati da Dio. Noi non sudiamo sangue, perché
nella nostra persona non realizziamo tutta la forza dell’umanità
presente in Gesù, che ha riassunto in se stesso l’esperienza di
tutti. Per cui la sua esperienza ü stata tanto più precisa, quanto
più profonda e dolorosa. Quindi non solo ciascuno di noi prova la tentazione
di sottrarsi alla volontà di Dio, fatica a registrare la propria vita
sulla chiamata del Signore e a dire veramente “sì” al Signore
senza riserve e con la trasparenza più totale, ma anche Cristo ha fatto
questa esperienza.
Questo ci consola, ci aiuta, ci fa capire che non dobbiamo disperarci, perché,
come Cristo è riuscito a superare questa prova domandando al Padre di
fare la sua volontà, cioè la volontà del Padre e non la
propria, anche noi lo possiamo. Anche noi avremo la forza, avremo la grazia
per domandare al Padre di fare la sua, piuttosto che la nostra volontà.
Quello che è stato possibile in Gesù Cristo, è possibile
anche per noi. Ma a questo momento non dobbiamo arrivare impreparati, altrimenti
diventa molto difficile.
La malattia non è solo momento profetico, che anticipa quello che sarà
il momento finale; non ü solo il momento in cui emerge nella nostra persona
la tentazione di ribellarsi al Signore, così come avvenuto nella persona
di Gesù Cristo nei confronti del Padre, ma è anche grazia. Dire
che la malattia è una grazia è molto difficile. Forse non sarei
mai riuscito a dirlo veramente neppure io. Dire che la malattia è una
grazia urta contro il buon senso, urta apparentemente contro la ragione. Però
se esaminiamo quello che avviene durante il decorso di una malattia, ci accorgiamo
che è così, che la malattia è una grazia. Abbiamo tutti
paura o avremmo tutti paura a fare questa affermazione a un’altra persona.
Eppure è profondamente vera. Perché se esaminiamo quello che avviene
in noi durante la malattia, quello che la malattia provoca in noi, se la viviamo
in modo cristiano, ci accorgiamo che nella persona avviene un grandissimo cambiamento.
Da quando è incominciata la malattia a dopo, noi ci sentiamo profondamente
cambiati, non siamo più quelli di prima: in questo sta la grazia. Per
cui è vero che la malattia è una grazia. Lo possiamo dire però
solo dopo. Se lo diciamo prima, è come se fosse troppo presto, è
come se fosse una ideologia. È invece a partire dall’esperienza
che abbiamo fatto, che io ho fatto sicuramente in una certa misura, che possiamo
dire che la malattia è una grazia e dobbiamo saperla vivere come una
grazia. Perché la malattia cambia il nostro rapporto con il Signore,
ci avviciniamo sicuramente a lui, preghiamo di più, fosse anche solo
per invocare la guarigione: una preghiera legittimamente interessata.
La malattia ci fa sentire il tempo che viviamo in modo differente di prima.
Ci accorgiamo che la vita è qualche cosa di estremamente prezioso, che
è il dono più grande che abbiamo ricevuto dal Signore. Scopriamo
che il tempo ha una intensità diversa da quella di prima, non più
in rapporto a tutte le cose che dobbiamo fare, ma rispetto alla esperienza esistenziale
della nostra persona. Sentiamo che il tempo ü preziosissimo, perché
urge, perché non abbiamo più la possibilità di sprecarlo,
come l’avevamo prima. Il tempo diventa più consistente, qualche
cosa che vorremmo vivere nel modo più intenso possibile.
La malattia ci cambia, perché ci fa toccare proprio con le mani la solitudine
che abbiamo dentro di noi. Ci sono infatti momenti durante la malattia in cui
una persona capisce che in ultima analisi la questione è sua. Nessuno
può supplirlo. Nessuno può fare o dire al suo posto. Sente la
propri finitezza e d questa finitezza capisce che c’ü una sola Persona,
che può riempirla, perché questa persona ü Qualcuno più
grande di lui, è Colui che ci ha dato la vita. Scopriamo che la solitudine
è insuperabile dentro l’esperienza umana; non possiamo superare
la solitudine personale in nessuna situazione della nostra vita. Sia che ci
sposiamo, sia che diventiamo ministri consacrati, sia che ci consacriamo al
Signore, c’è un punto della nostra vita in cui siamo sempre soli
davanti al Signore e nessuno dall’esterno ci può aiutare al punto
da sostituirsi alla nostra persona. Questo ci spinge, apre la porta in noi alla
scoperta del fatto che solo il Signore può riempire la solitudine umana
che abbiamo dentro di noi. Basterebbero queste poche cose per farci capire che,
dopo, facciamo l’esperienza che la malattia è veramente una grazia.
Detto all’inizio può sembrare assolutamente non vero o assurdo,
ma dall’analisi di quello che avviene nella nostra persona, l’affermazione
che la malattia è una grazia è profondamente vera.
C’è però una condizione che ho lasciato come ultima riflessione.
Tutto quello che ho detto si avvera nella nostra persona, solo se riusciamo
ad accettare la malattia. La cosa più importante che dobbiamo fare, il
primo atteggiamento nostro personale nei confronti degli ammalati, è
quello di accettare noi personalmente quello che ci succede e di aiutare gli
altri a fare altrettanto. Dobbiamo aiutare gli ammalati ad accettare la loro
situazione.
“Chi ama il padre, la madre, i fratelli …”, questa affermazione
di Gesù nel Vangelo, dove peraltro non intende essere esauriente nella
esemplificazione, aiuta questa nostra riflessione. Gesù infatti afferma
che chi ama qualcuno o qualcosa “più di me, non è degno
di me”. Quindi se noi amiamo la salute come valore supremo, non siamo
degni di Gesù Cristo. Dobbiamo perciò imparare ad accettare nel
cuore, senza veli, senza sotterfugi – il sotterfugio è la tentazione
più sottile – riuscendo veramente a metterci davanti a Dio nella
sincerità totale.
Accettare la malattia è la condizione perché possa diventare segno
profetico, momento nel quale superiamo le tentazioni che abbiamo dentro nel
corso di tutta la vita, perché possiamo capire che è una grazia,
in quanto ci cambia interiormente. L’accettazione è il presupposto
che dobbiamo avere dentro di noi, che il Signore ci può dare come grazia,
perché da soli non possiamo realizzarla totalmente.
La prima cosa che dobbiamo fare quando siamo malati è quella di accettare
la stazione davanti al Signore, per lasciare che questa situazione nuova della
nostra esistenza esplichi tutti gli effetti benefici, tutte le conseguenze benefiche,
che magri il mondo non condivide.
Volevo dirvi solo questo e quello che vi ho detto l’ho vissuto, non l’ho
solo pensato. Tante cose le avrò anche pensate, a tavolino, come si dice,
ma se le ho pensate è perché il Signore mi ha dato la grazia di
accettare, io spero, la malattia. E se ho pensato, è perché ho
cercato di vivere in un certo modo quello che mi è capitato, che è
esattamente uguale a quello che può capitare a qualsiasi altra persona.
È per questo che Caritas ha fatto bene ad invitarmi a proporvi questa
esperienza, che è diventata un po’ un discorso sulla malattia.
Ma non è un discorso disgiunto d quell’esperienza che il Signore
mi ha concesso di poter fare.
Dire che ringrazio il Signore per questo non è facile, perché
è come dire al Signore che lo ringrazio per averci portato via qualche
cosa di fondamentale: la salute. Non è facile per me, non è facile
per nessuno, non è facile per il Papa, perché tocchiamo il punto
più sensibile, più vero e più vitale di tutta la nostra
esperienza umana, quello di essere veramente sinceri di fronti al Signore, quando
diciamo delle cose su di Lui e su di noi nei suoi confronti.
† Eugenio Vescovo.
Domande dal pubblico
Ho sentito un giovane che diceva
: “La morte non mi fa paura, ciò che temo è la sofferenza
…”. Forse per questo giovane l’aspetto del rapporto tra la
sofferenza e morte non era molto chiaro?
Ho come l’impressione che davanti a Dio sia più facile essere sinceri
mentre, a volte, quanto si è malati, il contesto in cui si vive rende
ancora più difficile affrontare la tua sofferenza in quanto ti senti
già un po’ estraneo e diminuito nelle tue possibilità. Come
superare queste difficoltà?
Monsignor Vescovo, in questo periodo della sua malattia, lei ci ha dato una dimostrazione esemplare di come sia possibile conciliare la cura, perché lei non si è sottratto a nessun trattamento, andando oltre la terapia. Chi ha dato e ci ha insegnato quanto per lei tutto ciò sia stato un’occasione di maturità. Inoltre non è venuto meno neanche ai suoi compiti di apostolato e di servizio. Come possiamo noi medici, infermieri e tutti gli operatori sanitari invitare i nostri pazienti ad andare oltre la malattia. L’esperienza che facciamo spesso è proprio di vedere i nostri pazienti che praticamente si identificano nel ruolo di ammalati e vivono solo per curarsi. Come possiamo compiere insieme a loro una riflessione sulla malattia che li aiuti a non far coincidere la loro persona con la malattia?
Io volevo farle una domanda a proposito della malattia del bambino, perché lei ha parlato della malattia dell’adulto che può rendersi conto della sua malattia e viverla. Andando a Lourdes e vedendo i bambini portati alla piscine, ci si scontra con ogni tipo di malattia e con ogni tipo di reazione. Vorrei sapere come si può affrontare la malattia del bambino?
Io mi riallaccio a quanto detto per la malattia del bambino. Una famiglia che perde un figlio, che ha un figlio che combatte con la droga e non riesce ad aiutarlo. Come accettarlo? Uno si mette accanto alla Madonna con suo figlio sulle ginocchia e dice: te lo offro Signore … ma è dura. Anche Davide l momento della morte di Assalonne ha gridato: Assalonne, figlio mio perché non sono morto io al posto tuo?
Sono un sacerdote e mi collego alla domanda che ha fatto prima un medico, applicandola però a noi sacerdoti, penso che sia un punto molto importante della pastorale dei sacerdoti coi malati. Io stesso soffro di malattie gravi, e come lei, Mons. Vescovo, ho capito che cosa vuol dire soffrire ma molte volte noi sacerdoti manchiamo prima di tutto di una posizione chiara su come avvicinare il malato per poi portarlo se è possibile alla confidenza nell’accettazione della malattia e quindi a Dio.
Risposte del Vescovo Eugenio
Penso sia una constatazione abbastanza universale quella del giovane che muore più facilmente della persona matura o addirittura della persona anziana. Perché? Non lo so spiegare ma ho l’impressione che anche qui, a partire dall’esperienza che noi abbiamo già fatto tutti, il giovane non ha ancora una comprensione globale del significato della vita in genere, è più disinvolto è meno attaccato alla vita. Le persone anziane tante volte, man mano che avanzano con l’età si attaccano molto più alla vita perché ne fanno un’esperienza così completa che riesce loro più difficile staccarsene. Credo sia questa la spiegazione ma è una mia impressione personale.
Come fare ad aiutare gli altri? Non
possiamo aiutare gli altri se noi non siamo qualcuno, un semplice discorso fatto
agli altri non aiuta. Non si formula, non è proposto al momento giusto
se noi non siamo e non ci identifichiamo con quello che diciamo. Quanto più
noi ci identifichiamo con quello che diciamo: perché quello che diciamo
è quello che veramente pensiamo, che abbiamo dentro, è l’esperienza
che facciamo, tanto più possiamo consolare il paziente. Ci sarà
anche un problema di tecnica d’avvicinamento dell’ammalato, ma credo
che non ci sia nessuna tecnica d’avvicinamento che possa supplire la verità
della nostra persona quando parliamo con un ammalato. Dobbiamo essere veri e
dobbiamo essere convinti di quello che diciamo, al punto da viverlo nella nostra
persona, allora abbiamo una chance in più di essere d’aiuto a un’altra
persona.
Questo discorso si intesse un po’ con quello del prete che dice che noi
sacerdoti non siamo tanto abituati ad affrontare il problema della malattia
e della morte. Ma questo vale per tutti, perché di fronte all’ammalato
è di consolazione non chi è prete non chi è specialistica
ma è di consolazione chi sa dire la parole giusta, perché consolare
non significa affrontare il problema a livello psicologico. Consolare significa
dire ad un’altra persona quella parola che l’aiuta veramente a vivere,
che le propone un valore. Non si consola un ammalato dicendogli: “Ma guarda
che potrai anche guarire” nascondergli una parte della verità,
ma si consola l’ammalato dicendogli delle parole vere. La parole del Vangelo
sono sempre vere e noi dobbiamo avere il coraggio di non dire parole nostre,
ma le parole del Vangelo, anche se possono sembrare assurde agli occhi degli
uomini.
Dobbiamo dire che la malattia è una grazia, però bisogna saperlo
dire nel modo giusto, poi bisogna saperlo dire al momento giusto, poi bisogna
saperlo dire al momento opportuno, poi non lo si deve dire così ma in
un altro modo. Bisogna, far capire ad una persona che sta cambiando, che può
cambiare, che la malattia per esempio la fa riconciliare con i suoi. Sono tanti
i modi per dire la stessa cosa che detta frontalmente può sembrare impossibile
ma dobbiamo, di fronte ad un ammalato, di fronte ad un terminale dire: “Guarda
che, constatalo tu stesso, la tua malattia ti ha cambiato, per cui il Signore
ti ha dato una grande grazie”. Così consoliamo una persona fino
nella profondità del suo intimo perché capisce che quello che
gli avviene non è inutile, non è un’ingiustizia, non è
una truffa della vita di fronte alla quale potersi ribellare. La consolazione
vera, non fasulla nasce da parole vere e non fasulle.
E questo sia che siamo preti, sia che siamo suore, sia che siamo laici! Dobbiamo
essere capaci di dire le stesse cose. Non è perché uno è
prete che necessariamente riesce a dirlo, anche se può sembrare un professionista
della questione. Il prete non è necessariamente la persona nella condizione
migliore per dire le parole giuste. Siamo chiamati tutti a consolare, la consolazione
fa parte dei compiti dei cristiani, le opere di misericordia sono parte di quello
che il cristiano deve fare nella sua vita, che è chiamato a compiere.
Le opere di misericordia non sono un sovrappiù, esser fanno parte di
quello che noi siamo e sono l’espressione della nostra esperienza.
Le faremo solo siamo veramente profondi nella nostra fede, per cui sul come
compierle vi dico questo : la condizione per poter veramente essere di conforto
agli ammalati e ai moribondi è quella di essere noi in grado di dire
parole vere anche per noi.
Per quanto riguarda i bambini, il bambino è bambino sia nella vita che nella morte, nel senso che egli non è in grado di fare la stessa esperienza di un adulto, per cui tutto in tutti i sensi, si riduce all’esperienza che un bambino è in grado di fare. E anche di fronte alla malattia il bambino non riesce a cogliere, come dovrebbe poter fare un adulto, il significato di quello che succede, per cui tutto è proporzionato. Ciò non toglie che anche il bambino dev’essere educato a ricavare dalla sua malattia tutto il bene possibile, dev’essere aiutato, così come è aiutato a vivere l’esperienza sacramentale cristiana nel modo migliore possibile ma pur sempre tenendo conto che il suo grado di sviluppo umano a priori non gli permette di fare un’esperienze così completa come quella che potrebbe fare un adulto. Siamo certi che il bambino è in grado di capire tutto, quando la mamma insegna al bambino il segno della croce e gli dice Dio è padre, il bambino capisce che Dio non è padre come il suo papà, che è qualche cosa di diverso, non lo saprà spiegare ma intuisce la verità che si nasconde dietro alla parole padre applicata a Dio. L’abbiamo capito anche noi. La fede è un’intuizione che non sempre è in grado di dare delle ragioni di quello che intuisce, ma intuisce che è vero, su questo è fondata tutta la pedagogia: la pedagogia in generale e la pedagogia cristiana. Possiamo spiegare al bambino i misteri, il mistero più grande che è quello della Trinità e dire ad un bambino che Dio è diventato uomo e che San Giuseppe era il padre putativo, il bambino lo capisce. Così anche per la malattia, dire al bambino che il Signore gli vuol bene comunque, il bambino lo capisce. Dobbiamo solo noi avere la forza, il coraggio e la convinzione di come sia importante dirglielo.
La madre che perde il figlio in un
incidente, nella droga, il discorso è esattamente quello di prima: sarà
difficile, sarà in certe situazioni magari anche impossibile ma noi dobbiamo
cercare di aiutare queste persone ad accettare quello che capita loro. Perché
da lì si può incominciare a costruire, senza questo presupposto
non è possibile consolare una persona, non capirà mai.
Il discorso può essere lungo e può essere efficace in proporzione
alla nostra fede personale, ma non c’è altra via da battere che
dire ad ogni persona, a qualsiasi persona, in qualsiasi situazione in cui si
trova, la verità totale: quella che troviamo nel Vangelo. Non abbiamo
un altro discorso più efficace di questo.
La fede cristiana ci consola perché ci fa capire il significato delle
cose e non dobbiamo andare a cercare il significato delle cose al di fuori di
quello in cui crediamo. Una persona che non crede cercherà di consolare
un’altra dicendole quello che ha dentro di sé, noi dobbiamo consolare
una persona dicendo quello che abbiamo dentro noi, di cui noi siamo i portatori,
di cui noi siamo i testimoni. Questa è la consolazione, altrimenti si
finisce, come succede quando capita una disgrazia e si va nelle famiglie, e
si fanno tanti discorsi fasulli, banali, nel tentativo di consolare le persone.
Al massimo consoliamo le persone perché mostriamo la presenza fisica
e morale al loro dolore però, nella maggior parte dei casi, credo che
sarebbe meglio che tenessimo la bocca chiusa, perché diciamo delle cose
che non hanno nessuna forza per un cristiano. Credo d’aver risposto a
tutte le domande.
Vi ringrazio, ma prima di chiudere
voglio aggiungere questo: nella misura in cui sono riuscito a farvi capire qualche
cosa del problema della malattia o a confermarvi quello che voi avevate già
nella vostra mente e nel vostro cuore, vorrei attirare la vostra attenzione
sull’importanza dell’accompagnamento degli ammalati.
I cristiani devono accompagnare gli ammalati, ci vuole tempo, ci vuole generosità
dobbiamo vincere noi stessi ma è un’opera di consolazione verso
le persone che noi dobbiamo compiere, non possiamo sottrarci. Il sacramento
degli infermi, l’unzione degli infermi ci fa capire che la Chiesa nel
momento in cui una persona è ammalata si raccoglie attorno a lei a pregare.
Il sacramento dell’unzione degli infermi è un gesto che in genere
nelle culture precedenti al cristianesimo non esisteva, gli ammalati si mettevano
ai margini della società. San Giacomo nella sua lettera dice: (e per
dirlo è segno che non avveniva ancora) “Se c’è qualcuno
che è ammalato chiamata gli anziani, i presbiteri o gli altri fedeli
perché ungano questo ammalato e preghino con lui, perché nella
sua persona avvenga la salvezza”.
L’accompagnamento degli ammalati, che deve svilupparsi molto di più
di quanto non sia avvenuto fino ad oggi, è solo un quadro più
ricorrente della celebrazione del sacramento degli infermi, ma è esattamente
nella stessa linea di quanto dice San Giacomo: “Raccoglietevi attorno
ad essa e pregate con essa, consolatela, dicendo parole vere”. Non sono
due cose distinti ogni tanto con gli ammalati si può celebrare anche
il sacramento degli infermi, ma in genere dobbiamo sviluppare come prassi di
vita cristiana quella dell’accompagnamento degli ammalati. Ci sono tanti
gruppi che si raccolgono e si organizzano per fare questo. Noi siamo chiamati
a fare anche questo, non c’è niente nella vita per cui non siamo
chiamati, dobbiamo fare tutto.
Questa sera vi dico: dobbiamo accompagnare gli ammalati con molta più
consapevolezza di quanto abbiamo fatto fino ad ora.
Vi ringrazio.
† Eugenio Vescovo.
Cari confratelli nel sacerdozio,
cari fratelli e sorelle nel Signore,il
giorno della nascita di Gesù per noi cristiani è in se stesso
un giorno di indicibile gioia. Ci ricorda e ci fa rivivere il momento nel quale
Dio si è rivelato al mondo, mostrandosi come un bimbo che piange e sorride
in una culla.La nascita di
un bambino, in qualsiasi situazione avvenga, anche tra le più dolorose
della vita, è sempre un momento magico: fa nascere in tutti una rande
voglia di festa.
Per noi cristiani la nascita di Gesù è un giorno di gioia, per
un motivo incommensurabilmente ancora più profondo. È una gioia
che scaturisce da un evento non solo umano, ma dal fatto che questo Bambino
è il nostro Redentore. Con questo Bambino inizia la storia della nostra
salvezza che, oltre a concederci il perdono di tutti i peccati, ci dà
la possibilità di conoscere il vero volto di Dio: quello della Trinità.
Il Natale è tuttavia un momento di gioia mai disgiunto dal dolore. Non
lo fu neppure il primo Natale, quello in cui Gesù nacque corporalmente
e realmente da Maria di Nazareth, poiché non solo i disagi corporali,
ma anche la paura che qualcuno sopprimesse il Bambino turbarono ben presto la
gioia della Sacra Famiglia.
Tuttavia, anche gli innumerevoli Natali celebrati dai cristiani nel quadro di
immani sofferenze fisiche e morali non hanno mai perso quell’attimo di
gioia insopprimibile provocata dalla nascita di Cristo.
Il Natale cristiano porta sempre con sé l’esperienza della gioia
e del dolore.
In un testo della liturgia ambrosiana l’autore sacro interroga Gesù
avvolto in fasce: “Quare rubiconda vestimenta tua?”; perché
le tue vesti sono già macchiate dal sangue della croce?
Cari fratelli e sorelle, come il Natale di Nostro Signore, così come
quello di moltissimi cristiani e della stragrande maggioranza degli uomini e
delle donne di questo nostro pianeta, anche il mio è tinto quest’anno
non solo di gioia, ma anche con un po’ di dolore.
In effetti, ho dovuto sottopormi a Berna, proprio nell’imminenza del Santo
Natale, a un intervento di chirurgia ortopedica nella zona del bacino.
Evidentemente, non esiste nessuna proporzione tra il dolore di Cristo sulla
croce, tra quello di cui sono atrocemente afflitti miliardi di persone e la
sofferenza fisica e morale di chi subisce un intervento chirurgico in un ospedale
moderno superattrezzato, come lo sono i nostri.
Tuttavia, un rapporto tra queste diverse manifestazioni della sofferenza umana
esiste: sta nel fatto che tutti coloro che soffrono, indipendentemente dalla
gravità della loro sofferenza, possono diventare, sull’esempio
e cedendo in Cristo, fonte di purificazione e di espiazione del male commesso
da noi stessi, nella nostra società e nel mondo intero. So benissimo
che, paragonato alla stragrande maggioranza di chi soffre, posso avvalermi di
un privilegio straordinario: quello di essere accompagnato dalla vostra preghiera.
So di aver accumulato, grazie a voi, un patrimonio di preghiere così
enorme, che mi permette di superare ogni difficoltà, come lo permetterebbe
a qualsiasi altra persona.
La difficoltà maggiore, del resto, non viene mai dalla sofferenza fisica
e morale in quanto tali, bensì dall’accettare la malattia come
un segno della presenza di Dio nella nostra vita. Di fronte a questo segno siamo
invitati a pronunciare interiormente il nostro “sì”, come
ci invita a fare la preghiera modello del cristiano, il Padre Nostro: “sia
fatta la tua volontà”.
Del resto anche per Cristo il momento più difficile da superare non è
stato quello della croce, ma quello dell’orto del Getsemani, quando, sudando
sangue, ha avuto la netta percezione di dover promettere al Padre di compiere
la Sua volontà: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice!
Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22,42).
Sono sicuro, cari fedeli, che l’immenso patrimonio di preghiere da voi
accumulato in questi anni, per aiutare il vostro Vescovo, sarà anche
questa volta estremamente efficace.
Proprio in forza di questa certezza faccio il possibile per accettare dal Signore
questa nuova difficoltà. Sono però altrettanto sicuro che l’aiuto
che vi apprestate a darmi avrà un risvolto benefico anche per voi stessi,
le vostre famiglie e tutta ala cerchia delle persone che vi sono più
care. Malgrado la precarietà della gioia di chi vive oggi questo Natale,
tormentato dalla fame, dalla violenza e dalla guerra, chiedo al Signore che
in tutti voi, in seno alla vostra famiglia, in compagnia dei vostri figli e
dei vostri amici, prevalga su tutto quello che potrebbe offuscarlo, il momento
e l’espressione della gioia.
L’augurio di “Buon Natale”, che correntemente ci scambiamo,
deve mantenere intatto il suo significato e il suo auspicio: quello di essere
la manifestazione della nostra fede in Gesù Cristo, che grazie al fatto
di averci redenti con la sua nascita, morte e risurrezione, permette a tutti
i credenti di vivere almeno per Natale un momento di profonda riconoscenza e
letizia.
† Eugenio Vescovo.