La
letizia che attrae diventa
MISSIONE
A cura di Dani Noris
Padre Alfonso Poppi, missionario in Africa da 26 anni,
attualmente opera a Nairobi, dove, con due suoi confratelli, ha fondato una
nuova parrocchia dedicata a San Giuseppe. La parrocchia ha ora intenzione di
costruire una chiesa ed alcune altre strutture per l’attività missionaria. In
occasione di una sua venuta in Ticino per portare la sua testimonianza in alcune
parrocchie, è stato ospite di Caritas Insieme TV.
D: Qual’è la sua esperienza in missione?
R: La mia esperienza è quella di una pienezza di vita. La missione prima
di tutto ha fatto crescere la mia umanità. Ho passato 24 anni in una zona rurale
nel nord dell’Uganda e adesso, da due anni, mi trovo a Nairobi, proiettato dentro
una situazione completamente diversa: sempre l’Africa, ma alla periferia di
una megalopoli, con tutti i problemi che ci possono essere.
D: Costruire
una chiesa nell’anno 2000 nel cuore dell’Africa ...
R: È una bella sfida, sia dal punto di vista
materiale per costruire l’edificio, sia per costruire una comunità cristiana.
Naturalmente è affascinante, perché l’anno 2000 ha un suo fascino e un suo valore
storico; un avvenimento di 2000 anni fa che continua a essere presente attraverso
degli uomini e delle donne che il Signore usa per mostrarsi al mondo. Nello
stesso tempo è anche una cosa umanamente affascinante per la sfida che questo
impone, soprattutto alla periferia di una città come Nairobi dove arriva tanta
gente con la speranza di trovare un lavoro e far fortuna e dove però più di
due terzi fa esperienza di grande povertà. L’esperienza di solidarietà e di
ospitalità che l’africano vive nella zona rurale, a contatto con la modernità
della vita urbana, si disgrega. La gente proviene da tribù diverse e subentra
un’estraneità, un sospetto, un’incapacità di vivere una solidarietà come si
viveva a casa, al villaggio. E questo crea una convivenza molto violenta, molto
"neutra", dove tutta l’umanità dell’africano viene persa e un po’
anche il senso religioso.
Da due anni, siamo in questa zona, dove il vescovo ci ha affidato la fondazione
di una nuova parrocchia. I problemi lì sono molto gravi ma nello stesso tempo
ci accorgiamo, anche solo dopo due anni, che la nostra presenza, presenza della
Chiesa, dà una nuova speranza alla gente, perché permette loro di trovare un
luogo - e di crearlo insieme con i sacerdoti - dove l’esperienza tradizionale
della solidarietà, che rimane nella memoria della gente, viene ripresa, accolta
e rivissuta, però con un orizzonte molto più vasto.
Ho presente i volti di alcune delle persone che partecipano alla vita della
comunità cristiana, pieni di letizia perché esiste questo luogo. Per adesso
è un luogo fatto di lamiera, perché abbiamo una sola costruzione, sia per gli
incontri che per le cerimonie liturgiche. Dobbiamo darci da fare per costruire
l’asilo, la scuola materna (che è stata la prima cosa che i genitori ci hanno
chiesto) e in poi la chiesa e i locali parrocchiali per incontrarci. È veramente
una povertà unica questa mancanza assoluta di luoghi di incontro. Sono veramente
necessari perché soprattutto i giovani possano trovarsi, scambiarsi esperienze,
avere un punto di riferimento, un insegnamento, avere qualcuno che abbia a cuore
la loro vita e che li indirizzi. A Nairobi ci sono più di ventimila bambini
e ragazzi di strada, che abbandonano le famiglie perché non hanno nessuno che
li cura, non hanno un lavoro, non hanno avuto la possibilità di studiare. Diventano
dei relitti, dei residui della società e vivono sulle strade drogandosi, sniffando
colla, ecc. Ci sono diverse iniziative, ma occorre soprattutto creare luoghi
dove questi giovani possano incontrare il senso della loro vita.
D: Guardando
il filmato della vostra chiesa di lamiera mi ha stupito per come è grande eppure
non basta. Qui invece abbiamo un’abbondanza di posti vuoti nelle chiese. Cosa
significa questo? Si può parlare di un’esplosione della Chiesa in questi luoghi?
R: Ciò che non può essere estirpato dal cuore dell’africano è il senso
religioso. Il senso religioso nell’africano è così vivo e così immediato che
non sarà facilmente cancellato. È chiaro che è un inizio nuovo della Chiesa,
un’esperienza di umanità nuova dentro la loro struttura di africani. In qualche
modo io mi sento aiutato: alla messa della domenica, ad esempio, la gente vuole
partecipare, vuole ballare, cantare, fare la processione, per cui la messa diventa
un avvenimento a cui tutti partecipano, i bambini piccoli come i grandi. Essi
esprimono non soltanto con le parole, ma anche con i movimenti del corpo tutta
la loro felicità. Questo mi riempie sempre di stupore, perché per loro è naturale
la celebrazione della festa, del giorno del Signore. Guardando a quanto avviene
in Europa, si capisce che c’è qualcosa che dobbiamo imparare. C’è come una semplicità
di cuore, una povertà di spirito che è la verità dell’uomo, a cui l’uomo moderno
occidentale deve guardare e imparare. Chi va in Africa e vede questo, è commosso;
l’architetto, che viene a vedere la fattibilità dei nostri progetti, aveva le
lacrime agli occhi vedendo l’intensità e la passione con cui partecipavano alla
messa, dentro a una struttura così semplice e così povera.
D: ... la vita che pulsa ... Cosa l’ha spinta su questa strada di missione?
R: Io non ho mai pensato di diventare missionario. Non è stato un progetto
mio e neanche quello di diventare sacerdote. Io credo che è stato Dio che in
qualche modo mi si è fatto incontro e mi ha fatto capire, attraverso dei volti
di persone ben precise, che Lui è presente, che Lui è l’origine e il senso della
mia vita. Ciò che mi ha sempre mosso è stato il desiderio di essere felice e
quando l’esperienza diventava la verifica di una menzogna, cioè che la promessa
che c’era nelle cose che mi venivano proposte era fragile e spariva, mi sono
detto che volevo cercare qualcosa che durasse sempre. E questo mi è stato dato
incontrando degli amici guardando i quali ho capito che erano felici e seguendoli
ho scopertine/coperto che loro erano cristiani. Ho visto tra di loro una libertà e una
letizia che mi hanno attratto. Io ho chiesto: ma come fate ad essere così? E
mi dissero: vieni con noi e capirai. Dopo ho capito che erano cristiani, di
un movimento ecclesiale chiamato Comunione e liberazione che faceva capo a don
Giussani. Io sono stato travolto da questo incontro e ho capito che l’unica
cosa per cui valeva la pena dare la vita era questa. Volevo che tutti gli uomini
potessero avere la possibilità di incontrare una comunità così, degli uomini
e delle donne, dei ragazzi e delle ragazze come erano quelli. La missione, l’andare
in Africa è stato "un caso", diciamo così, perché c’erano altri amici
che erano già andati precedentemente in Uganda e io risposi a un appello, perché
loro, essendo sposati sarebbero rientrati con i figli, ma si voleva che la presenza
in Uganda continuasse. Allora diedi la mia disponibilità. A quei tempi ero laureato
in chimica e dopo un anno partii come insegnante. Feci il servizio civile alternativo
a quello militare, al termine del quale decisi di entrare in seminario in Uganda.
La cosa che è all’origine della vocazione sacerdotale è l’incontro con un padre
comboniano. Io avevo sempre avuto delle riserve verso i sacerdoti, non mi sentivo
attratto dalla vocazione sacerdotale. Ma guardando quell’uomo ...
Lui fu poi espulso durante il periodo di Amin, io feci il seminario da lui fondato,
che era dentro una struttura parrocchiale. C’erano tre padri che insegnavano
a dodici di noi, tutti adulti. Vivevamo a due a due in stanze, lavoravamo a
due a due nei villaggi, girando con la bicicletta. Al mattino avevamo le lezioni,
tre pomeriggi e la domenica andavamo nei vari luoghi e nelle varie comunità.
Anche dove non arrivava il prete arrivavamo noi; ci preoccupavamo dei malati,
del catechismo ai ragazzi ... È stata una formazione nella quale abbiamo
imparato che la Chiesa è una comunione di persone, già nel seminario, e che
a partire da questo si è poi in grado di testimoniare qualcosa a un altro, non
perché uno è più bravo, ma perché c’è un’unità che manifesta il Signore.
Sono diventato sacerdote nella diocesi africana, poi cinque anni fa chiesi al
vescovo e ottenni immediatamente (perché lui capì che la mia vocazione apparteneva
al carisma di don Giussani) il permesso di entrare in una fraternità sacerdotale
dei missionari di San Carlo Borromeo di cui non conoscevo personalmente nessuno,
ma il solo fatto che nelle costituzioni apparisse il nome di colui che ritengo
essere il mio padre nella fede, era sufficiente per me perché li riconoscessi
come miei fratelli.