Al Dies Academicus della Facoltà Teologica di Lugano il ricordo di Mons. Corecco
Egli mirava alle cose lontane ...

Di Stanislaw Grygiel


Parlare della persona umana significa avventurarsi in una impresa affascinante ed allo stesso tempo rischiosa. Infatti, non è possibile dare un nome all'essere che, essendo amore delle cose lontane, con ogni gesto esprime il suo desiderio dell'impossibile. Essendo una epifania della verità ineffabile, la persona umana si trova al di là delle parole.

E' già passato un anno dalla morte del vescovo Eugenio Corecco. Eppure la sua presenza mirante alle cose lontane si è intensificata sicché oggi parlare di lui è ancora più difficile e rischioso. Sono molte le sue opere che lo rendono presente in così tanti paesi, non solo europei. Mi permetto di evocarne soltanto una, la Pontificia Facoltà di Teologia, la cui origine è legata organicamente con la sofferenza, nella quale il vescovo Eugenio conobbe Dio non solo, come avrebbe detto Giobbe, "per sentito dire" (Giob. 42, 5).

Per comprendere le cose e per salvarle, dobbiamo sempre ricondurle al loro principio che si manifesta nei loro inizi. E' nel principio che si rivela la verità di tutto ciò che nasce e si compie nel tempo.

Monsignor Eugenio concepì la Facoltà all'inizio del suo servizio vescovile. Le ha dato vita, però, negli ultimi tre anni di questo servizio, quando, sostenendo le prove di Giobbe che gli annunziavano l'avvento del Signore, entrava in quella dimensione dell'esistenza nella quale si può pensare soltanto sul serio. La nostra Facoltà faceva i suoi primi passi, quando il vescovo Eugenio, lasciando a Dio le domande-sfida, il grande "perché?" di Giobbe, senza il quale il pensiero umano sarà sempre e solo un gioco intellettuale, maturava affinché la verità lo potesse abbracciare. Perciò non si potrà comprendere questa facoltà mai fino in fondo senza guardarla alla luce che emana dal saper soffrire del vescovo Fondatore. Questa luce svela gli elementi essenziali e distintivi del lavoro per il quale la Facoltà è stata da lui eretta.

Permettetemi di citare un frammento del discorso del Padre Abate Lepori: "Il 14 febbraio, mentre sto accanto a lui dopo un lungo silenzio mi dice: <Non è possibile morire così!>. <Così come?,> gli chiedo. Dopo un altro lungo silenzio: <E' troppo facile; è troppo dolce. E' come addormentarsi!>. E a più riprese ripete: <E' un mistero!>. Poi, prima di celebrargli la messa in camera, gli chiedo per quale intenzione desidera che la celebri: <Per una buona morte!>, e per la prima volta lo vedo piangere."

Queste lacrime del vescovo Eugenio, oltre ad essere lacrimae rerum, riflettono l'inizio della medesima beatitudine che Giobbe aveva vissuto dopo aver intravvisto il destino divino del proprio essere creato da Dio. In lacrimis rerum l'uomo, diventa la magna questio di Sant'Agostino, quella domanda-sfida che, lanciata a Dio, costituisce l'essenza stessa della filosofia. Ed è anche in lacrimis rerum che l'uomo, raggiunto dalla risposta divina, comincia a vivere quella difficile beatitudine senza la quale la filosofia e la teologia saranno soltanto seminate di pula. Le lacrime del vescovo Eugenio continueranno ad illuminare il lavoro della Facoltà i cui statuti dicono che "lo studio si deve coniugare con la preghiera" affinché i professori e gli studenti possano capire meglio il mistero della persona di Cristo e quello della persona umana. Infatti, il senso della vita ci raggiunge attraverso la morte.

Negli ultimi tre anni della sua vita, nel suo morire, il vescovo Eugenio divenne un'epifania del destino divino della persona umana. Egli aderiva ad esso con la fede, cercando il legame tra il dono dei dolori che lo consumavano e il dono della verità che in essi lo colmava in modo sovrumano. La sua malattia divenne una cattedra su cui egli saliva ogni giorno più coraggiosamente per dire parole forti, sempre di più aderenti alla Parola. Su questa cattedra la sua esistenza veniva trasfigurata in una armonia tra la sobrietà di fronte alle cose vicine, terrestri, e l'entusiasmo per le cose lontane, divine. Questa armonia è rimasta in noi come vi rimane un'opera sinfonica dopo che sia suonata la sua nota finale. L'ultima nota del canto armonioso, nota che ci permette di godere pienamente l'esistenza del vescovo Eugenio, è stata eseguita dal popolo stesso che spontaneamente intonò il Credo nel momento in cui sul portone della cattedrale comparve la bara con le spoglie del suo vescovo. La verità intera della persona umana, e non solo umana, si rivela nella comunione con le altre persone.

Solo un sordo non sente questo canto. Solo un cieco non vede che gli ultimi tre anni di prove sono stati i più fruttuosi nella vita del vescovo Eugenio. La sordità e la cecità, negando la comunione delle persone, minacciano di morte la società, perché quelli che guardano ma non vedono, ascoltano ma non sentono, non sanno chi essi stessi siano. Essendo confusi, confondono gli altri.

Per il vescovo Eugenio, la Pontificia Facoltà di Teologia rappresentava un punto di partenza per il pellegrinare verso la verità e il bene senza i quali la vita dell'uomo cessa di essere umana, perché cessa di essere raggiunta dal divino. Nel disegno del vescovo, il significato della Facoltà sconfinava dal Ticino, sconfinava perfino dalla Svizzera. Per lui la nascita della Facoltà era l'inizio di un grande lavoro per il futuro della Chiesa, cioè per il futuro dell'uomo.

La Facoltà di Lugano vuole essere universitas professorum et studentium, cioè una famiglia in cui i professori e gli studenti già di quasi venti paesi pellegrinano insieme verso i luoghi sacri dove sgorgano il vero, il bene e il bello. In essa, l'uno aiuta l'altro ad aprirsi alle realtà originali e primordiali, alle realtà lontane. Studiando, imparano a vivere delle premesse e non delle conclusioni, cioè imparano ad esistere creativamente. I professori educano gli studenti e gli studenti educano i professori. Il loro dialogo assomiglia al dialogo di Abramo e di suo figlio Isacco, che, salendo sul monte nel paese Moria, laboriosamente cercavano insieme la verità dell'uomo. La novità di questa verità li sorprendeva fino alla fine del loro pellegrinaggio. E' sui pendii di tali monti e in tali dialoghi che la cultura viene creata.

L'Accademia di Lugano, salendo alle origini delle università per affondare lì le proprie radici nel mistero dell'uomo in cui risplende il Mistero di Dio, introduce una premessa originale nella vita intellettuale della città di Lugano, in quella della Svizzera e anche degli altri paesi. E' naturale quindi, che, come tutto ciò che è fuori moda, la Pontificia Facoltà di Lugano sorprenda molti e provochi un'opposizione. Se fosse diversamente, vorrebbe dire che il suo Fondatore l'aveva disegnata nel modo in cui gli stilisti disegnano i vestiti per una sola stagione.

Ci sono tante interferenze atmosferiche che ci impediscono di captare le onde sulle quali viene trasmesso il messaggio della verità. Domina un concetto di libertà che ammette come verità soltanto quelle che ciascuno, attualmente, produce per uso privato. La libertà così intesa esclude la categoria del dono come negazione della dignità della persona umana.

La Facoltà di Lugano, fondando il suo lavoro didattico-educativo proprio sul saper ricevere e donare, rischia di avere una vita non facile. Nella società di oggi, il dono è statodimenticato. Non c'è allora da meravigliarsi che anche le università, non essendo più luogo di relazioni personali tra professori e studenti, cessano di essere ciò che erano all'inizio. Di conseguenza, le università non sanno cosa dovrebbero essere. I maestri vi sono stati sostituiti dai tecnici. I tecnici sanno fare molte cose ma le fanno insipientemente. I professori non educano gli studenti perché essi stessi non sono educati. Ridotti a prodotti anche essi riducono gli studenti a prodotti, talvolta molto intelligenti, che sapendo produrre con precisione non sanno però lavorare creativamente, perché non sono in grado di mirare al sovrumano che non è da produrre. Le università, staccando il vero dal bene e il bene dal vero, diventano luoghi della ragione distrutta e della volontà deviata. I professori e gli studenti, privi dell'ambizione di essere raggiunti dalla verità e di fare disinteressatamente un po' di bene per gli altri, vengono devastati dalla solitudine e dalla competizione morbosa. Così devastati, fanno cadere la società nella spensieratezza tanto più pericolosa quanto più razionalisticamente e scientificamente fondata sul nulla.

La vita spirituale, prima di spegnersi nella società, muore in sacerdotio, in regno et in studio, cioè nei sacerdoti, nei governanti e negli intellettuali. La religione e la cultura, separate dalla vita spirituale, vengono automaticamente politicizzate. L'andirivieni dei politici domina quell'andirivieni al quale i sacerdoti riducono il loro sacerdotium e gli intellettuali il loro studium. Nella società il cui l'ordine è basato più sul principio plus vis quam ratio che non su quello plus ratio quam vis, sacerdotium e studium non hanno la forza per dire "no!" al cattivo regnum. Il risanamento della società inizia laddove essa ha cominciato a corrompersi. Esso inizia negli uomini che mirano in modo generoso alle cose lontane.

Uno di loro era il vescovo Eugenio.