Santi da scopertine/coprire
Giuseppina
Bakhita
Di Patrizia Solari
Non è
piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, (...) rimandare
liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo?" (Is 58, 6-8, Lettura della
prima domenica di Quaresima)
In questo tempo che dalla Quaresima ci conduce alla Pasqua, proponiamo ai lettori la storia di Giuseppina Bakhita, Sudanese vissuta tra il 1870 e il 1947, fatta schiava all'età di sei anni e canonizzata da Giovanni Paolo II il 17 maggio 1992.
"Bakhita" significa "felice, fortunata" ed è il nome che le venne dato, ironicamente, dai due razziatori arabi che l'avevano rapita quando aveva appena sei anni, perché lei non ricordava più niente: né il suo nome, né quello del suo villaggio, dei fratelli e nemmeno il nome del papà e della mamma.
Bakhita "fa parte di quella schiera immensa di bambini tormentati e infelici che sono stati indicati, soprattutto nell'epoca moderna, come la più terribile prova contro l'esistenza di Dio."1) Eppure "il Papa ci dice che Bakhita può fare, a tutti gli uomini, 'da sorella' nel cammino verso la felicità vera, predicata da Gesù".
Ma andiamo con ordine.
Bakhita "nacque verso il 1869 in uno sperduto villaggio africano del Dafur (che oggi è la provincia occidentale del Sudan). La piccola era nipote del capotribù e viveva in una famiglia benestante e felice, dedita all'agricoltura e alla pastorizia: ottimi genitori che si volevano bene, tre fratelli maschi, ormai grandicelli e robusti, una sorella sposata e una sorellina gemella.
Ma l'unico ricordo lacerante, che le è rimasto, risale al giorno in cui, ad appena quattro anni, la sorella maggiore fu rapita dai razziatori arabi. Si era sacrificata per il tempo necessario a nascondere Bakhita, la più piccola in un mucchio di fieno. (...)
Poi, a sei anni, mentre gioca a raccogliere fiori lontano dal recinto delle capanne, è lei ad essere rapita e da allora ricorda solo il terrore: quell'essere afferrata all'improvviso; il grido che le muore in gola sotto la minaccia di un coltello; quel cammino lungo e disperato, tra i singhiozzi, che dura tutta la notte, i tentativi di divincolarsi e di fuggire e lo scudiscio che le sferza le gambette (...). Poi, sul far del giorno, l'arrivo a un villaggio arabo, di case piccole e basse, e quella specie di porcile dove è rinchiusa a lungo, per giorni e giorni."
E qui "vediamo all'improvviso come si intrecciano (...) la storia della malvagità che schernisce le sue vittime ('fortunata!': una bambina a cui è stato tolto perfino il ricordo del nome della mamma) e la storia della tenerezza di Dio che tramuterà quella sventura in felicità e aiuto per il mondo intero."
Arrivò il mercante di schiavi, che comprava le prede dei vari razziatori, e formò una carovana di uomini e donne, aggiogati con un collare di ferro a una stanga rigida: Bakhita e un'altra ragazza erano così piccole che non furono incatenate. Cominciò la lunga marcia e ad ogni villaggio la carovana si ingrossava. Alla prima sosta le due bambine riuscirono a fuggire, nascondendosi nella foresta, ma il giorno dopo furono catturate da un altro razziatore che le vendette a un altro mercante. Durante il triste viaggio verso i mercati del nord, Bakhita dovette assistere a ogni sorta di violenze e di soprusi nei confronti degli altri schiavi.
"La prima destinazione delle due piccole schiave non fu così ostile. Il padrone le tenne per sé, regalandole alle sue figliole. Bakhita e la compagna passavano le giornate come cagnolini, accoccolate presso le padroncine, attente ai loro cenni, agitando il ventaglio, giocando, lasciandosi ammirare dai visitatori. (...) Ma durò poco. Bakhita fece cadere un vaso prezioso, suscitando l'ira del figlio del padrone (...) che la colpì a pugni, calci, scudisciate, lasciandola a terra sanguinante. Gettata sul suo misero giaciglio, vi restò febbricitante per giorni e giorni, senza che nessuno si curasse di lei. Quando guarì, la vendettero a un generale turco."
In quella casa Bakhita visse le peggiori atrocità: il generale sfogava i suoi malumori sulle schiave, facendole frustare a sangue. Un giorno la moglie del generale decise di far decorare indelebilmente il corpo, abitualmente nudo, delle sue schiave più giovani con un complicato disegno inciso con il rasoio alla profondità di un centimetro. I labbri delle ferite venivano poi ripetutamente stropicciati con del sale, in modo che le cicatrici restassero indelebili. Poi le ragazze venivano abbandonate su una stuoia per giorni e giorni in preda al delirio. La tortura era così atroce che spesso non sopravvivevano.
"Bakhita si riprese dopo due mesi. Dopo moltissimi anni, quando raccontava di questo episodio, di cui portava visibili tracce, rabbrividiva ancora al ricordo e piangeva."
Quando, dopo un anno, il generale decise di tornare in Turchia, durante il viaggio vendette parte degli schiavi e Bakhita fu acquistata dal Console italiano.
In quella casa trovò gente che la trattava umanamente e "per la prima volta nella sua vita potè indossare una graziosa tunica: il segno del pudore e della libertà."
Il Console fece anche dei tentativi per rintracciare la famiglia e il villaggio di Bakhita, ma fu impossibile, perché lei non ricordava più nulla.
"Nemmeno in quella casa, però, le parlarono mai di Dio. (...) Tuttavia bastò quella familiarità prima ignota, quel senso di sicurezza mai provato prima, quella iniziale gioia di vivere, quell'attimo di paternità presente nell'interessamento del Console, perché il senso religioso della fanciulla si sprigionasse naturalmente. Si domandava allora: 'Chi è che accende in cielo tutti quei puntini luminosi?' e provava una sorta di commozione e uno strano bisogno di aver Qualcuno da adorare. 'Io lo amavo, pur senza conoscerlo', dirà poi la ragazza."
Dopo due anni, il Console dovette tornare urgentemente in Italia e Bakhita chiese insistentemente di accompagnare i padroni.
Al porto di Genova c'era ad attenderli una ricca copertine/coppia di Mirano Veneto, amici del Console, con una bambina di circa tre anni. Su insistenza della bambina, ottennero la ragazza negra in regalo e la piccola si affezionò a Bakhita come a una mamma.
I nuovi padroni erano praticamente atei e avevano proibito a Bakhita di entrare in qualsiasi chiesa con la bambina. Però avevano insegnato le preghiere elementari alla bambina, che le faceva ripetere a Bakhita. "Nessuna delle due capiva il significato di ciò che dicevano, ma Bakhita, ormai diciassettenne, le ripeteva ugualmente da sola, durante il giorno, e ci trovava una strana dolcezza."
Quando, dopo tre anni, i nuovi padroni decisero di trasferirsi in Africa, nei mesi di preparativi che precedettero la partenza, Bakhita fu ospitata a Venezia, presso l'Istituto dei Catecumeni, tenuto dalle suore canossiane. E così iniziò la sua educazione cristiana.
"Aveva quasi vent'anni, e non sapeva né leggere né scrivere. Sapeva ascoltare. Lo ricorderà lei stessa: 'La Madre catechista diceva che io bevevo la dottrina'. Era davvero come una terra assetata e 'si mostrò particolarmente felice quando sentì che Dio aveva visto le sue sofferenze'. La cosa che più l'affascinava era sentirsi dire che era figlia di Dio e che Dio l'amava. Si stupiva, quasi faticava a crederci. Spesso durante il giorno interrompeva le sue occupazioni per correre dalla catechista e farsi rassicurare: proprio figlia di Dio lei? anche se era schiava? anche se era nera? e Lui proprio l'amava? anche se lei non aveva niente da dargli?".
Quando la padrona tornò a prendersela per riportala in Africa, vi fu una lotta difficilmente immaginabile. "La ragazza aveva profondamente interiorizzato la sua condizione di schiava" e pensava che i padroni potevano fare quello che volevano dei loro schiavi, anche ammazzarli. C'era quella bambina di cui si era occupata negli ultimi anni e che era l'unico affetto che Bakhita aveva al mondo. "Ma Bakhita sentiva dentro una forza che le diceva di restare perché era in gioco quella fede appena conosciuta."
E siccome "la padrona era intenzionata a chiedere il rispetto della legge africana per la quale quella ragazza le apparteneva con diritto di vita e di morte, dovettero intervenire le più alte autorità -il Regio Prefetto e il Cardinale Patriarca di Venezia- per ricordare alla signora che l'Italia non riconosceva quella crudele legislazione e perché Bakhita potesse decidere liberamente."
Così, il 9 gennaio 1890 fu battezzata con il nome di Giuseppina Bakhita e nello stesso giorno ricevette la Cresima e la Comunione. Quarant'anni dopo, mostrando ad un'amica il luogo dove era stata battezzata, con evidente commozione aveva detto: "E' proprio qui che sono diventata figlia di Dio ... mi povera negra, mi povera negra..." E nella cappellina della Madonna, faceva notare che per lei orfana, avere la Madonna per mamma era un grande conforto.
Dopo aver ricevuto i sacramenti dell'iniziazione, ricominciò la sua sofferenza. Sentì infatti un desiderio irresistibile di consacrare la vita al suo Dio, ma era convinta che ciò non fosse possibile: si sentiva indegna e non sapeva come spiegarsi.
"Dopo due anni, a forza di pregare la Madonna, trovò il coraggio di parlarne al confessore. Questi ne parlò alla Superiora, la quale già si era accorta da tempo del lavorìo che la Grazia faceva nel cuore della ragazza, ma aspettava che lei parlasse. La accettarono, anche se, in quegli anni e in quei luoghi, davvero una suora di colore era cosa più unica che rara."
Dopo tre anni di noviziato, fu esaminata dal Cardinale Giuseppe Sarto -il futuro san Pio X- che al termine del colloquio con la ragazza "che si esprimeva nel suo povero e stentato dialetto, le disse (anch'egli in dialetto): 'Pronunciate i voti senza timore. Gesù vi vuole. Gesù vi ama. Voi amatelo e servitelo sempre così!'. Con questo dialogo tra due futuri santi cominciò la storia di 'Madre Giuseppina Bakhita', suora canossiana (...) che a Schio, dove restò per il resto della vita, chiamavano familiarmente 'Madre Moretta'."
Vediamo ora alcuni aspetti che colpiscono in modo particolare nella vita di questa santa e che toccano anche la nostra vita: la questione del Padrone, l'obbedienza e la sua "diversità".
"Da quando l'avevano rapita, a sei anni, ella era diventata un oggetto animato che i padroni -grandi e piccoli, uomini e donne- si passavano di mano in mano: spesso con crudeltà, a volte con l'unica attenzione dovuta a un grazioso oggettino, per la sua utilità. (...) A volte le orfanelle dell'Isitituto le facevano raccontare la sua storia, e Madre Moretta si prestava, con l'intento di educarle ad affidarsi al Signore." Una di esse ricorderà che quando le diceva che i negri che l'avevano maltrattata erano cattivi, Madre Bakhita "metteva un dito sulla bocca e diceva: 'Silenzio! Non erano cattivi, non conoscevano il buon Dio!' (...) era davvero questa la sua convinzione. (...) Si aveva l'impressione che quasi Bakhita li scusasse, che si immedesimasse con le loro convinzioni sociali, invece di denunciare violentemente l'ingiustizia di cui era stata vittima.
Il fatto ha questa spiegazione: la gioia provata nei giorni di preparazione al Battesimo -quando non si dava pace al pensiero stupendo di essere anche lei 'figlia di Dio'- divenne per lei origine degli unici giudizi che accettò nella mente e nel cuore, tutti impregnati di misericordia, perché tutto veniva da lei riconsiderato alla luce di quell'infinito e immeritato dono.
(...) Bakhita non si attardò ad analizzare e condannare l'ingiustizia di ciò che le era accaduto; piuttosto sviluppò il giudizio che c'era un solo male nel mondo: non conoscere l'esistenza di un Padrone così buono. Solo da questo dipendeva il fatto che alcuni facessero da padroni con tanta crudeltà. Se c'erano padroni cattivi, era perché non conoscevano l'unico Padrone buono."
"(...) al fondo di tutto, ella poneva un giudizio ancora più radicale: l'essere stata schiava poteva perfino tramutarsi in una 'fortuna' (non era quello il suo nome?). Bastava solo versare con gioia nel rapporto col Padrone Iddio -solo nel rapporto con Lui!- tutta quella obbedienza e dedizione imparata con tanta sofferenza in quell'amara e ingiusta condizione sociale che le era toccata in sorte per colpa degli uomini. (...) i Santi non hanno forse insegnato che bisogna vivere come 'schiavi di Cristo'? Così amava definirsi san Paolo, in un tempo in cui gli schiavi esistevano e tutti potevano vedere la durezza di quella triste condizione."
Bakhita "non perse tempo a commiserarsi per aver dovuto subire l'ingiustizia dei padroni; non si mise di impegno a difendere gelosamente quella ritrovata libertà; non divenne puntigliosa nell'affermare i suoi diritti (come umanamente ci si poteva attendere): si preoccupò soltanto di appartenere completamente a quel Padrone immensamente buono che aveva finalmente conosciuto."
A un testimone che le chiedeva come facesse a essere così buona rispose: "Come si fa ad offendere un Padrone così buono, quando si sono serviti padroni così cattivi?"
"Davanti al 'Padrone infinitamente buono' stava dunque lei, con tutto il suo stupore d'essere stata scelta come figlia, di essere amata. (...) Ripensava al fatto che, al tempo del Battesimo, non sapeva neppure leggere, neppure capir bene i concetti del catechismo. E si ripeteva: 'Mi figlia di Dio, mi povera grama, mi povera negra, povera schiava.' I testimoni dicono che 'assumeva atteggiamenti da sbalordita al pensiero di essere figlia di Dio'".
Ma accanto a questa commozione doveva subire "mille piccole e faticose esperienze (...), essere oggetto di curiosità di grandi e piccini" Proprio i bambini erano "i primi a rifiutarla senza tanto preoccuparsi di salvare le convenienze" dicendole: "Mi sporchi il vestitino... domani ti porto il sapone per lavarti..."
"Poi c'erano gli adulti. L'arciprete Dalla Costa, futuro cardinale, celebrò la Messa presso le suore. Alla Comunione, non comprendendo tutto quel nero, le disse di togliersi il velo: 'Son negra, sior' lo avvertì Bakhita, con un sorriso bianchissimo."
O in tempo di guerra, quando il medico che la doveva visitare perché si era lussata una gamba, distratto e sbrigativo, la pregò di togliersi la calza. "Sior, non posso -ribatté Madre Moretta- così me la ga fata el Signor".
"Sono episodi che fanno sorridere e che val la pena di narrare, perché testimoniano un equilibrio raggiunto e perfino quel sereno umorismo che appartiene solo a persone interiormente pacificate."
Vi è poi "un episodio ricco di tenerezza. Era il 1923. Madre Moretta si ammalò di polmonite. Venne il medico, colto e galante, che entrando nella cella esclamò, citando il Cantico dei Cantici: 'Nigra sum sed formosa' (Sono nera, ma bella!). Bakhita si commosse, aveva capito alla perfezione quel latino. Rispose: 'Oh se il Signore potesse dirmi così!' I testimoni dicono che visse quasi attendendo di potere udire, al termine della vita, quel saluto da parte del suo Gesù."
Ancora a proposito dell'obbedienza, essa "si esprimeva già nell'atteggiamento. Bastava che qualcuno le comunicasse: 'Dice la Superiora che...' e lei era già in piedi, pronta all'ascolto e all'esecuzione. L'aveva fatto per tanti anni, tremando per la paura delle frustate dei padroni terreni, che farlo ora per amore, con lo sguardo fisso al suo Signore Gesù, le era non solo spontaneo, ma 'naturale, nel senso più originario del termine: quello di una 'natura' che riconosceva la sua origine nel suo Creatore."
Concludiamo con un'ultima immagine.
"Erano passati tanti anni, più di cinquanta, da quando l'avevano accolta nella Sua casa, ed era piena di malattie. Diceva: 'Me ne vado adagio adagio, passo passo, perché ho una valigia pesante da portare!'.
Di valigie pesanti, in realtà, ne aveva due. Vale la pena di spiegare questa strana immagine. Durante la guerra del '15-'18, parte del convento era stata adibita a ospedale militare e spesso Bakhita aveva osservato che l'attendente del capitano doveva sempre portare due valigie: quella sua e quella del suo capo. E lei voleva arrivare davanti al Padre eterno come un attendente, portando la valigia sua e quella del suo Capitano Gesù. Il 'Paron' le avrebbe fatto aprire le due valigie; avrebbe visto in quella sua tanti peccati; ma poi avrebbe visto in quella più pesante tutti i meriti di Gesù, tanti e tanti, e lei sarebbe stata accolta con gioia, perché aveva portato anche quella valigia!
Come si vede, le più ardue pagine della teologia, quelle sulla Giustificazione, possono essere spiegate anche da una vecchia suora negra."
"Nel delirio dell'agonia, come se il passato risalisse a galla dalle profondità 'fisiche' della memoria, la sentirono mormorare: 'Allargatemi le catene, pesano!'. Le catene della schiavitù erano diventate anche le catene di una esistenza troppo lunga e affaticata da cui voleva essere affrancata; e la domanda umile di scioglierle i ceppi era diventata anche preghiera di ottenere la grazia della risurrezione."
1) Tutte le citazioni sono tratte da A. Sicari, "Il quarto libro dei ritratti di Santi", Ed. Jaca Book, 1994