Una sfida chiamata droga
Comunità incontro: da un incontro con uno a una proposta di vita per tutti
La Comunità di don Pierino Gelmini a Lugano

Di Paola Robertini in collaborazione con Arnold Dünner


È di qualche giorno fa l'ennesimo servizio passato sulla nostra emittente televisiva a proposito del problema droga -in questo caso nel Canton Berna -e la linea da seguire: liberalizzazione o proibizionismo e repressione? Dall'intervista a un giovane 24 enne, tossicodipendente da 7 anni, è emerso in modo molto chiaro che il problema non va posto in questi termini. Ha spiegato brevemente la sua situazione di emarginato che tira avanti a campare affermando che l'eroina uccide interiormente la persona e ha concluso asserendo: "se non ne esco, mi faccio fuori perché non posso più andare avanti così".

A questa drammatica conclusione arrivano molti tossicodipendenti, infatti sono i primi a dichiarare che la loro non è vita, anche se spesso decidono di rimandare o di rinunciare, perché uscire dalla droga è molto faticoso e continuano a bucarsi fino alla morte, ma fino a quando una persona esprime il suo disagio ha il diritto di trovare delle alternative concrete al suo problema e la società ha il dovere di dare risposte vere. Affermare che la distribuzione controllata di eroina, permette alla persona di condurre una vita più "dignitosa", è una pura menzogna. A cosa serve togliere l'emarginato dalla scena aperta, dalla delinquenza, dal freddo e dai pericoli se lo si mantiene comunque ai margini della società. La parola "dignità" è un attimo più impegnativa; ridare dignità significa rendere consapevole l'altro di essere amato.

Fortunatamente non è un' esclusiva degli esperti occuparsi del sociale, infatti in questi ultimi decenni sono nate diverse realtà molto interessanti che lavorano sul fronte droga o più in generale sui disagi umani, dando risultati "miracolosi". E' di una di queste che vogliamo parlare e più precisamente della Comunità Incontro, nata nella vicina penisola trent'anni fa , che da quasi un anno ha aperto un centro anche a Lugano, che tutti conosciamo, perché se ne é fatto un gran parlare sui quotidiani e alla televisione: si tratta della ex masseria Bavosa.
Quello che è sorprendente di questa comunità (e sicuramente anche di altre) è che è nata a partire da un incontro e non da un progetto a tavolino. Il fondatore di Comunità Incontro (C.I) don Pierino Gelmini, non si stanca mai di raccontare come è iniziata quest'avventura nel 1963, dall'incontro in Piazza Navona, a Roma, con un ragazzo di nome Alfredo, che gli chiese aiuto; non voleva assistenza infermieristica, non voleva soldi, né da mangiare, ma che qualcuno finalmente lo accogliesse, che gli offrisse la sua amicizia. Don Gelmini lo portò a casa sua e da quel giorno nacque la Comunità Incontro. Oggi si contano circa 190 centri che vanno dall'America latina, alla Tailandia, dalla Francia alla Spagna e molti altri paesi.
Anche il Centro della Bavosa in fondo è nato da un incontro con lo stesso fondatore che all'Happaning dei giovani nel 1991, rilasciò una toccante testimonianza. Un gruppo di persone, rimaste affascinate dalla vitalità carismatica di questo sacerdote, lo stesso giorno costituirono un comitato con lo scopertine/copo di impegnarsi a trovare una casa e poter fondare un centro anche in Ticino. E così è stato. Oggi la Bavosa ospita 6 ragazzi, con alle spalle già diversi mesi di comunità. Il loro compito, oltre a quello di continuare il loro cammino di recupero, è di incontrare e organizzare colloqui con tutte quelle persone che desiderano essere aiutate. Quindi la Bavosa per ora è un centro di ascolto e non di recupero. Infatti le persone che passano attraverso la Bavosa, vengono mandate in altri centri.
Come dicevamo prima, i mass-media hanno già dato largo spazio al Centro Bavosa, e quindi nasce legittima la domanda perché anche Caritas ne vuole parlare e il motivo è subito detto. Non ci occupiamo direttamente del problema, ma come ente della Chiesa abbiamo il dovere di entrare e di restare nel grande dibattito, in difesa dei più deboli e sprovveduti. La confusione oggi giorno è tale da non distinguere la differenza tra "difesa della società e recupero della persona". Quindi , dal momento che Caritas ha scelto l'informazione, come metodo di lavoro, non solo è importante, ma è doveroso far conoscere e valorizzare tutto quello che c'é di positivo nella nostra società.

Padre Lino Ciccone inizia il suo articolo affermando una verità fondamentale, che purtroppo non viene tenuta molto presente e cioè che il problema non è la droga, ma il dolore e la fatica dell'esistere che è di tutti gli esseri umani.
A partire da questa considerazione la C.I non si propone come centro terapeutico, ma come scuola e proposta di vita, inoltre basa tutto il lavoro sull'accoglienza, la condivisione, la banalità e la durezza del quotidiano.
Il ragazzo che entra in comunità trova innanzi tutto un gruppo di amici pronti ad accoglierlo per quello che è e a condividere con lui la quotidianità fatta di cose belle e brutte, faticose e gratificanti, come nella vita di ogni persona.
Il programma dura 30 mesi e durante questo periodo sono previsti tre congedi di una o due settimane per permettere al giovane di rientrare in famiglia e di verificare e ridecidere la scelta della comunità.
La vita di comunità è dettata da regole ben precise che vanno rigorosamente rispettate. Inizialmente i giovani fanno fatica ad accettarle e si sentono trattati come bambini, ma col tempo colgono il significato profondo e a loro volta trasmettono le regole ai nuovi arrivati. Ad esempio tutto quello che è della casa va rispettato, ogni attrezzo da lavoro dopo l'uso, va pulito e rimesso al suo posto. Non si possono lasciare avanzi a tavola. Si possono fumare 10 sigarette al giorno, sempre in compagnia e non mentre si fa altro. Ogni azione ha il suo significato che va colto e non confuso nel fare tanto per fare. Il caffè e il vino possono essere consumati solo due volte la settimane. I dolci solo durante le feste di Pasqua e di Natale. Questi sono solo alcuni esempi, gesti molto semplici, ma che il tossicodipendente deve recuperare, e attraverso queste regole riscopertine/copre il rispetto verso le cose e le persone, il gusto per la vita , la gioia vera , la condivisione e la solidarietà, la lealtà e l'amicizia , e finalmente comincia a conoscere se stesso. Quindi anche se può sembrare paradossale, la regola rende liberi, perché solo in una vita ordinata uno può cogliere la realtà e viverla fino in fondo.
La C.I non psicanalizza, non usa terapie alternative, non si avvale del contributo diretto di specialisti, ma offre un luogo di accoglienza, dove é possibile ricominciare da zero, senza negare o censurare niente di se stessi. E' un luogo di crescita dove ognuno gioca veramente fino in fondo la sua libertà , perché ogni giorno deve scegliere di restare. Gli ultimi arrivati sono aiutati e sostenuti dai primi che hanno già fatto un pezzo di strada e conoscono bene le prime difficoltà e le prime incertezze. Chi più di un ex tossico può capire e quindi aiutare un tossico? Eppure c'é ancora chi sostiene che questo metodo non è serio. Un altro aspetto molto importante su cui la C.I insiste è il coinvolgimento della famiglia.
La famiglia è quella che più di tutte viene mortificata, offesa, delusa, amareggiata dal figlio o dalla figlia tossicodipendente. Soprattutto le madri, confrontante con questo vero e proprio calvario, hanno bisogno di riacquistare fiducia, e soprattutto devono ricostruire un rapporto per poter riaccogliere il proprio figlio terminato il programma di recupero.
Pertanto la famiglia è chiamata a partecipare il più possibile alla vita di comunità partecipando ai momenti comuni ogni 15 giorni, telefonando al proprio famigliare una volta alla settimana, interessandosi alla vita della comunità per esempio abbonandosi al mensile della comunità "il Cammino" e rispettando tutte le regole che la comunità impone.

Abbiamo incontrato i ragazzi della Bavosa e abbiamo posto loro alcune domande. Per quasi tutti loro l'entrata in comunità è stata "frutto della casualità", chi spinto dalla famiglia, chi dai servizi sociali, un tentativo come un altro, ma senza crederci più di tanto. Nessuno di loro sapeva cos'era esattamente la Comunità Incontro. A distanza di due anni le cose sono decisamente cambiate:

D: Come avete vissuto e come state vivendo tuttora la vita in comunità?

Dario: sono due anni che sono in comunità, ho già fatto il secondo congedo di verifica e ora è diverso rispetto all'inizio. Ora è molto più chiaro il motivo per cui sono qui, prima ero molto confuso. Il primo anno ero in balia di tutti; qualsiasi cosa mi dicevano, intanto non era accettata, poi ci riflettevo sopra e capivo che era giusta però non era una mia presa di posizione, non era ancora farina del mio sacco. Adesso che sono passati due anni mi è più facile riflettere su quello che sto facendo. Ora che ho imparato a fidarmi - e credo sia la cosa principale - sto bene e riesco ad accettare tutto quello che la Comunità mi chiede.

Davide: all'inizio ho fatto molta fatica a staccarmi da quella che può essere la vita fuori dalla Comunità. Il primo anno l'ho vissuto tra alti e bassi; volevo abbandonare, andarmene, poi mi sono fatto forza e sono andato avanti. Adesso, dopo un bel periodo, posso dire di star bene in Comunità. e posso dire di avere acquisito qualcosa . Infatti una cosa bella che noto anche dopo due anni di Comunità, è che si sbaglia sempre, ma c'é sempre qualcosa da imparare dagli altri e forse è uno dei pochi posti dove uno può correggere gli errori che fa..

D: Che tipo di lavoro personale si fa in Comunità?

Adriano: penso che la Comunità è l'unico posto dove uno ha tempo per riflettere e pensare agli sbagli che ha commesso. C'é molto spazio in Comunità per questo tipo di lavoro. Poi nell'ambito del quotidiano la persona esce per quella che è, con i suoi limiti. Molti atteggiamenti sono sbagliati e la persona deve cambiare; non è facile, ma nel rapporto quotidiano con gli altri è possibile, riesci a vedere i tuoi sbagli e quelli degli altri e a lavorarci sopra. Non è una cosa che si impara dall'oggi al domani. Ho già alle spalle due anni di Comunità, ma mi rendo conto che devo combattere ogni giorno. Il lavoro è quello di combattere quotidianamente le proprie debolezze e convivere con altra gente che ha gli stessi problemi, in un clima di accoglienza, perdono e correzione.

Antonio: il lavoro è scopertine/coprire e capire il significato che ci sta dietro ai principi e alle regole della vita in Comunità. Per me questo è imparare a vivere. Essere liberi, non come prima dove posso fare quello che voglio: oggi mi alzo alle 11:00, senza responsabilità, senza niente. Ma essere liberi con delle responsabilità, alzarsi anche quando è una giornata storta. Per me questo è il lavoro: diventare responsabili.

D: La Bavosa è un centro di ascolto e voi incontrate delle persone che desiderano essere aiutate e con loro fate diversi colloqui. In fondo state facendo quello che due anni fa è successo a voi. Che significato ha per voi fare questo tipo di lavoro di pre accoglienza, se così si può definire?

Dario: L'accoglienza è molto importante perché è la prima cosa che il ragazzo sente. Noi qua usiamo accogliere le persone con una stretta di mano e un bacio sulle guance per metterle a proprio agio. Anche la casa è stata ristrutturata in modo da renderla il più accogliente possibile. Una persona che viene dall'esterno non è abituata a queste cose, quindi rimane subito colpita. Appena si entra in Comunità fanno una cosa molto bella: tutti i ragazzi salutano il nuovo arrivato con un grande e caloroso applauso e questo lo fa sentire subito a suo agio anche con gli altri.

Antonio: incontriamo ragazzi che arrivano con gli stessi problemi che avevamo noi quando siamo entrati in Comunità e credo che per loro sia molto importante parlare con persone che hanno già fatto un passo nella direzione giusta, perché aumenta la speranza di poterci riuscire. Le nostre testimonianze sono spesso stimolanti per chi sta decidendo di cambiare, ma anche per noi è importante fare questi colloqui: incontrare le persone che soffrono ci aiuta a ricordare che è bello poter fare qualcosa anche per gli altri e non solo per noi stessi.

Michele: la vita in Comunità è come una catena, chi arriva prima sta vicino a chi arriva dopo, perché nel frattempo ha già fatto un cammino e può sostenere chi deve ancora iniziare. Quindi è anche un fatto di responsabilità imparare prima per poi servire, farsi dono al prossimo.