Politiche
sociali: cambiare, ma come?
La parola all'economista Christian Marazzi
A cura di Mimi Lepori Bonetti
Continua il dibattito sul cambiamento delle politiche sociali; dopo il giudice
Daniele Cattaneo Caritas Insieme incontra su questo numero l'economista Christian
Marazzi.
La seconda intervista l'abbiamo fatta a Christian Marazzi, economista, studioso
presso il Dipartimento opere sociali, autore di diversi libri, amico di Caritas,
più volte chiamato per un confronto (vedi Congresso del 1992 e la giornata
di studio sul tema del Reddito minimo garantito)
D: Nella storia sociale del nostro Cantone esiste un tassello importante;
lo studio fatto agli inizi degli anni ottanta sulla povertà. Uno studio
voluto da alcune forze politiche, combattuto da altre, che ha avuto il merito
di anticipare molti studi analoghi in Svizzera.
Ecco, a te che sei stato l'autore materiale di questo studio chiedo se la povertà
definita in quegli anni è la stessa "scopertine/coppiata" in seguito
in questo decennio?
Christian Marazzi*: Dopo quindici anni dal nostro primo tentativo
di definire le nuove forme di povertà sono cambiate molte cose, certo,
ma una in particolare mi sembra dare il "tono" del mutamento, e cioè
il fatto che da una definizione di povertà in termini tutto sommato ancora
individuali siamo giunti, oggi, ad una definizione che comprende la società
nel suo insieme. Mi spiego. Nei primi anni Ottanta, definire la povertà
significava dar conto della trasversalità del fenomeno, del fatto che
povero era "colui che è stato privato della capacità di progettare
il proprio futuro", colui che è stato privato del proprio spazio
di autodeterminazione. Questa definizione resta ancora valida, essa allude alla
tipica connotazione della povertà generatrice d'impotenza, l'incapacità,
peculiarmente moderna, di usare in modo autonomo le proprie doti, le proprie
capacità personali, la vita comunitaria e le risorse ambientali. La novità,
se pensiamo a quegli anni Ottanta, stava nel fatto che, definendo in tal modo
la nuova povertà, si evitava di dividere la società in ricchi
e poveri, si definiva cioè la povertà come forma della ricchezza.
E quindi ci si metteva nella posizione di analizzare la fenomenologia della
povertà come consustanziale alla crescita economica, come sua parte integrante.
Ognuno, a rigore, è a rischio di povertà: questo volevamo dire.
E i primi risultati delle ricerche empiriche (e non si dimentichi che eravamo
in piena crescita economica!), poi confermati da tutti gli altri studi cantonali,
ci davano ragione. I gruppi di popolazione a rischio di povertà erano
le donne, le famiglie monoparentali, i disoccupati giovani, gli sfrattati, le
famiglie con problemi relazionali, e poi alcuni settori del lavoro salariato.
Insomma, gruppi per nulla periferici, ma ben dentro il corpo sociale, parti
di un tutto, di quella "società normale" che, appunto, andava
interrogata, sottoposta ad esame. Era un bel passo avanti rispetto a tutte quelle
definizioni che, sulla base di nozioni come povertà assoluta o povertà
relativa, tendevano pur sempre a dividere la società in due spazi sociali
giustapposti secondo una soglia di povertà definita in termini di reddito:
se sei sotto la soglia sei povero, non lo sei se hai un reddito superiore.
Ma quella definizione che, ripeto, aveva il merito di andar oltre le caratterizzazione
tradizionali della povertà mettendo invece il rilievo il suo aspetto
trasversale (con, anche, il rischio di eccessiva dilatazione del concetto),
quella definizione restava pur sempre nell'ambito della singolarità delle
situazioni: concerneva persone sole, o famiglie, comunque "economie domestiche"
in condizioni difficile sotto profili diversi.
Rispetto ad allora, a quella definizione, è cambiato il contesto storico
in questo senso preciso: oggi è la società intera a rischio di
esclusione dalle dinamiche della crescita economica. Oggi lo sviluppo economico
produce su larga scala marginalità, esclusione, disgregazione. Oggi è
la comunità che arrischia di essere schiacciata, espulsa dalla forbice
del mercato e dello Stato. E' la società locale, la comunità,
che non riesce più a progettare il suo futuro, stretta come è
tra i meccanismi della produzione snella, post-fordista, tutta legata ai tassi
di produttività e alla competitività globale e, dall'altra parte,
alla delegittimazione dello Stato sociale, alla compressione della spesa pubblica
e alla perdità di efficacia del sistema assicurativo. Certo, in questa
crisi di progettualità c'è chi subisce esclusione più di
altri, ma sarebbe un errore non prendere atto di questo cambiamento di situazione,
di "paradigma". L'errore è quello di continuare a ragionare
come se i fenomeni di esclusione/inclusione concernessero soltanto determinati
gruppi di persone, o di individui, mentre si tratta di qualcosa di assai più
vasto e che, a rigore, dovrebbe concernere la comunità sociale nel suo
insieme.
D: Alla fine degli anni ottanta alcuni in Ticino hanno iniziato a parlare
di Reddito minimo garantito. Mi ricordo di aver presentato nel legislativo cantonale
un atto parlametare in questo senso; in Svizzera il tema è ancora molto
dibattuto e ogni qualvolta si parla di riorganizzare la miriade di leggi sociali
si arriva a pensare al reddito minimo garantito come soluzione magica. Cosa
ne pensi tu?
R: Dopo i primi studi sulle nuove forme di povertà, la ricerca ha
fatto passi importanti nella direzione dell'elaborazione di modelli di lotta
contro l'esclusione. Molto è stato fatto nella definizione del reddito
minimo garantito, in Francia dal 1988 in poi è stato messo in cantiere
un nuovo dispositivo, l'RMI, in cui il diritto/dovere al reinserimento, al diritto
"di vivere in società", ha permesso di coinvolgere un po' tutti
nella lotta contro l'esclusione (intendo lo Stato e i partners sociali). Se
si pensa alla Svizzera, ai lavori dell'IRE o, da parte dei giuristi, ai contributi
molto importanti di Daniele Cattaneo e di altri esperti in materia d'assicurazioni
sociali, bisogna riconoscere che si è fatta molta strada nella direzione
della riforma della sicurezza sociale. Il cambiamento principale (e si veda
l'intervista a D. Cattaneo) consiste nell'aver rovesciato l'approccio analitico,
basato sulle cause del bisogno, nell'approccio funzionale, basato invece sulle
finalità della politica sociale, sulla ridefinizione della cittadinanza
non più limitatamente al lavoro, ma al semplice fatto di esistere in
una comunità di uomini.
Questo lavoro è stato lungo e difficile, ma siamo comunque riusciti ad
arrivare da qualche parte, ad esempio da un anno e più esiste in Ticino
un gruppo di lavoro interdipartimentale che cerca di rendere operativo il progetto
dell'armonizzazione della socialità, realizzando forse la tanto agognata
legge-quadro della sicurezza sociale. Non ho dubbi circa l'importanza di questo
lavoro di definizione e di riforma dello Stato sociale.
La mia preoccupazione deriva dal cambiamento di contesto politico intercorso
nel frattempo, dal fatto che l'affermarsi del nuovo modello di crescita economica
(che per semplicità viene chiamato post-fordista o "toyotista",
ossia della produzione snella, flessibile, in un contesto di concorrenza globale)
ha comportato anche un cambiamento politico importante, uno spostamento a destra
di portata storica, che, se lascia poco spazio ai tentativi di difendere il
difendibile dello Stato sociale tradizionale, riflette anche una modificazione
profonda dei termini stessi a partire dai quali occorre ridefinire la socialità.
Il mio timore è che, dopo tutti gli sforzi di definire il minimo vitale,
il reddito disponibile equivalente, alcune misure accompagnatorie di reinserimento,
alla fin fine la lotta politica si ridurrà e si appiattirà sul
livello del reddito minimo. Sia chiaro: è una lotta importante, perché
riguarda l'accesso minimo garantito alla ricchezza, la possibilità materiale
di esistere in qualche modo in una società fortemente economicista. Ma
è una lotta che arrischia di offuscare i reali termini della questione,
il fatto che in un modello di crescita economica che sembra fatto apposta per
produrre esclusione e marginalità, insicurezza e ansia, non si può
più ragionare in termini di "dentro e fuori", per il semplice
fatto che siamo un po' tutti "fuori", fuori dalla possibilità
stessa di produrre socialità, legame sociale, sfera pèubblica,
agire collettivo. Non si dimentichi mai una cosa: che la lotta alla povertà
è reale se colpisce i meccanismi che la producono.
D: La politica sociale non sfugge a certe regole.. ci sono delle parole
vecchie come Noé che improvvisamente vengono riscopertine/coperte e trovano cittadinanza
in discorsi pronunciati da persone che nel contesto sociale si situano in posizioni
completamente diverse. Oggi tutti parlano -a proposito e a sproposito- del Terzo
settore, del settore non profit come se fosse la soluzione, ancora una volta
magica, ai problemi economici e sociali. Qual'é la tua posizione in merito?
R: Si è detto molto del Terzo settore, del privato sociale, e non
è un caso se oggi ormai un po' tutti guardano al Terzo settore come si
guarda ad una zattera in mezzo al naufragio. Ed è bene che sia così.
Ma è assolutamente decisivo che sul Terzo settore si apra un dibattito
di vasta portata. Bisogna, credo, evitare di dare del Terzo settore una definizione
"disperata", povera, quasi che la sua funzione fosse, come dire?,
riparatoria dei guasti provocati dalla crescita economica. Sarebbe il peggior
modo di parlare e di definire il Terzo settore, perché in tal modo si
finirebbe per attribuirgli un ruolo di complemento a quanto Stato e mercato
non sono, nè vogliono o possono, più fare. Il discorso è
un altro. Il Terzo settore deve essere riconosciuto in quanto luogo, alveo,
grembo da cui nascono le risorse fondamentali della ricchezza sociale medesima.
Nel nuovo modello di crescita economica le qualità lavorative maggiormente
richieste riguardano le capacità comunicativo-relazionali, la capacità
di ambientarsi in situazioni in cui prevale l'occasionalità più
che la programmabilità, in cui la capacità di adattarsi, di modificare
contesti e regole è assolutamente decisiva. Le nuove risorse valorizzanti,
quelle che vanno ad aumentare la produttività economica, a creare valore
aggiunto, hanno sempre più a che fare con il linguaggio, la comunicazione,
la capacità di lavorare in gruppo, di prendere decisioni, di innovare
i processi produttivi. E queste sono proprio quelle qualità che solo
la comunità è capace di sprigionare, di diffondere, di trasmettere.
Il Terzo settore, le sue attività quotidiane, la sua vocazione assistenziale,
non vanno capite solo sul lato della difesa contro i rischi di sfilacciamento
del tessuto sociale, di disgregazione e deriva, ma anche sul lato della costruzione
di una società, di una comunità senza la quale non si dà
sviluppo economico, senza la quale non si permette alle persone di crescere
con gli strumenti produttivi decisivi all'interno di questo nuovo modo di produrre.
Insisto su questo punto perché,oltre ad essere parte integrante dell'analisi
socio-economica del nuovo modo di produrre ricchezza, ha una sua valenza politica
cruciale. Se noi riusciamo a dare del Terzo settore questa definizione (ripeto,
non riparatoria, non reattiva, ma attiva, fondamentale per l'economia stessa),
noi poniamo le basi per una contrattazione collettiva, per una negoziazione
del quantum da investire nel terzo settore, seria, forte, e non pietistica.
Bisogna fare in modo che l'investimento nel Terzo settore sia visto esattamente
come l'investimento nella scuola o nella formazione professionale (che nella
nostra contabilità statale figura ancora come spesa, e non come investimento!).
Investire nella socialità, in quella socialità che mira a restituire
autonomia agli individui, a restituire loro le qualità, la libertà
che la mercatizzazione e la statalizzazione spinte all'eccesso hanno loro sottratto,
significa, deve significare investire in una risorsa economica, oltre che sociale,
di fondamentale importanza. Quella risorsa che, oggi, le imprese vanno cercando
e utilizzando, senza però riconoscere il loro carattere collettivo, il
fatto di essere espressione di una comunità che l'alimenta.
D: Comunque oggi siamo confrontati con un problema -quello della disoccupazione-
presente tragicamente in tutte le cerchie familiari. Pensare al futuro vuol
dire saper convivere con questo dramma. Non ti chiedo la ricetta per eliminare
la disoccupazione, ti chiedo di aiutarci a capire come devono essere modificate
le politiche sociali per comprendere sempre di più e sempre meglio questa
realtà?
R: Credo che la disoccupazione sia già, oggi, assai diversa da come
la intendiamo di solito. La disoccupazione è la nuova forma del mercato
del lavoro in cui lavoro part-time, interinale, saltuario, e, sempre più,
lavoro autonomo (o indipendente) sono la regola, e non l'eccezione. Il futuro
mercato del lavoro sarà composto da questo tipo di lavoro intermittente,
fluttuante, irto di cambiamenti di situazioni e di occasioni, pendolare tra
occupazione e inattività. Oggi questa trasformazione del mercato del
lavoro la subiamo solo negativamente, in termini di precarietà e di insicurezza
di reddito. Dobbiamo cercare, invece, di rovesciare questa precarietà
in nuova ricchezza, in leva di arricchimento per ciascuno. Oggi, ancora, qualsiasi
cambiamento nella vita di ognuno (la nascita di un figlio, il cambiamento di
casa o di quartiere, la scelta di riqualificarsi professionalmente) comporta
un forte rischio di esclusione, di emarginazione dalla vita sociale e dall'attività
remunerata. La precarietà può così facilmente trasformarsi
in disoccupazione cronica, e dunque in povertà. Lo Stato sociale è
ancora uno Stato sociale che assume una certa regolarità nella vita di
ciascuno di noi (infanzia, formazione, lavoro, vecchiaia), mentre invece tutti
noi, per non parlare dei giovani, aspirano a cambiare più volte nel corso
della propria vita. Lo Strato sociale, se davvero vuole innovarsi, deve essere
all'altezza di questa modificazione "antropologica", e quindi deve
sapersi flessibilizzare, nel senso di saper evitare che ogni cambiamento di
rotta comporti un rischio di esclusione.
In un senso ancora il Terzo settore può essere visto come decisivo in
questo mutamento epocale, ossia nel suo tratto imprenditoriale. Se c'è
qualcosa su cui mi sento di scommettere a proposito del futuro è la centralità
del lavoro autonomo e indipendente. Già oggi le imprese, se da una parte
si miniaturizzano, dall'altra fanno crescente ricorso ai lavoratori indipendenti
(esternalizzazione di segmenti della produzione, subappalto, ricorso cioè
all'outsourcing). Ma così facendo mettono l'uno in concorrenza contro
l'altro, rovesciano un'occasione di libertà in costrizione all'autosfruttamento
(pur di restare nel mercato, pur di non essere battuti dal concorrente, anch'esso
costretto a lavorare in proprio). Il Terzo settore, credo, può insegnare
molte cose a questo proposito, può ad esempio diventare un laboratorio
esemplare in cui si lavora facendo sì ricorso a risorse collettive (cos'è
il volontariato se non questo?), ma senza scannarsi l'un l'altro, perseguento
la reciprocità di contro l'utilità individuale, agendo collettivamente
per difendere gli interessi individuali e singolari. Perseguendo un profitto
per la collettività, e non solo per i suoi singoli individui.