Santi
da scopertine/coprire
Padre Damiano
di Veuster
Di Patrizia Solari
Il prossimo periodo liturgico ci porterà alla festa del Corpus Domini.
Perciò, in questo numero della rivista, proponiamo la figura di padre
Damiano de Veuster, belga, vissuto tra il 1840 e il 1889 e beatificato da Papa
Giovanni Paolo II nel giugno dello scorso anno.
Il collegamento è subito spiegato: la festa più importante nell'isola
di Molokai, trasformata in lebbrosario, era il Corpus Domini, e padre Damiano,
inviato su quest'isola e dopo qualche tempo ammalatosi di lebbra, "quando
usava l'espressione 'mes membres malades' (le mie membra malate), sembrava parlare
contemporaneamente sia dei suoi arti sofferenti, sia dei malati di quella sua
comunità che cristianamente considerava 'come Corpo di Cristo, e suo
corpo'". 1)
La lebbra e l'esclusione
Nell'arcipelago delle Hawaii la lebbra cominciò a diffondersi in maniera
rapida e terrificante dal 1850. Di questa malattia il cui bacillo fu identificato
nel 1873, non si conoscevano le vie di trasmissione. Inoltre non c'era ancora
la possibilità di predisporre un vaccino efficace: la lebbra era un male
terribile, che non si poteva curare. Il principio per arginare l'epidemia era
dunque la segregazione dei malati, anche riprendendo alla lettera gli insegnamenti
dell'Antico Testamento: la lebbra era una maledizione divina e come tale andava
trattata.
"In base a tali persuasioni era stato dunque realizzato l'insediamento
di Kalawao, nell'isola di Molokai: un promontorio basso, roccioso e spoglio,
tra la scogliera e il mare, scelto proprio perché inaccessibile. A partire
dal 1866, ogni mese, da Honolulu, la capitale, partiva una nave carica di lebbrosi,
requisiti a forza."
Se per i bianchi il problema 'lebbra' automaticamente voleva dire 'assenza di
ogni contatto', anche se si trattava dei propri congiunti, per gli hawaiani
invece il contatto umano, anche fisico, restava un valore irrinunciabile, più
importante di ogni pericolo.
I malati sospetti venivano requisiti per una diagnosi. "Ma tutto avveniva
tra la ribellione dei parenti: i malati venivano occultati; i nuclei familiari
si trasferivano per questo anche nei villaggi più sperduti, (...) alla
polizia ci si opponeva anche con le armi. E non era infrequente il caso di amici
e parenti che si fingevano malati per accompagnare i loro cari".
Nel 1863 il vicario apostolico delle isole Hawaii, mons. Maigret, chiese alla
congregazione dei Sacri Cuori a Lovanio, che aveva iniziato l'evangelizzazione
dell'arcipelago, l'invio di altri missionari.
Damiano (al secolo Giuseppe), un ragazzotto robusto, figlio di contadini, dal
temperamento forte e vivace, a 18 anni voleva diventare monaco trappista, ma
era entrato nella congregazione dei Sacri Cuori, dietro insistenza di suo fratello
Panfilo, che già ne faceva parte. Altre due sorelle erano Orsoline.
Mentre il fratello, tra i prescelti per andare in missione, si preparava per
partire, a Lovanio scopertine/coppiò un 'epidemia di tifo. Panfilo, prodigandosi
nell'assistenza, ne rimase contagiato e così Damiano chiese ai suoi superiori
di partire al suo posto.
Il 19 marzo 1864, non ancora sacerdote, dopo oltre quattro mesi di navigazione,
sbarcava sulle isole dove sarebbe rimasto per sempre.
Dopo due mesi fu ordinato sacerdote e svolse la sua attività missionaria
in diverse regioni per quasi dieci anni. Poi, nel 1873, in un incontro dei missionari
con mons. Maigret, diventato Vescovo, si parlò dell'isola di Molokai
e dello stato di abbandono dei lebbrosi. Padre Damiano si offrì allora
di andarci e il 10 maggio era nel villaggio di Kalawao.
"Nessun bianco vi aveva mai soggiornato. Era passato in fretta qualche
medico (che visitava i malati sollevando le vesti con la punta del suo bastone
e lasciava le medicine fuori dalla porta dell'ambulatorio) e qualche Pastore
protestante che predicava da lontano, sulla veranda. Ma non volevano essere
toccati e gli hawaiani non se ne curavano. (...) Non potevano essere veramente
interessati a loro quei bianchi che fuggivano via pieni di orrore al solo vederli!
Ma tra i lebbrosi stessi l'interesse e la solidarietà erano ferocemente
limitati ai propri congiunti; tutto il resto era nemico.
Così la colonia dei lebbrosi era un inferno, non solo per quello che
accadeva ai corpi, soggetti a un orribile disfacimento, ma ancor più
per quello che accadeva alle loro anime e alla loro tragica società."
Rovina fisica e psicologica, dunque: "(...) un'incredibile sporcizia (mancava
perfino l'acqua!), una violenza pronta ad esplodere ad ogni provocazione, l'esasperazione
degli istinti più bassi, l'abolizione di ogni limite sessuale, la schiavizzazione
dei bambini e delle donne, alcolismo e droghe, il latrocinio generalizzato,
il risorgere di pratiche idolatriche e superstiziose. Il tutto peggiorato da
un disinteresse generalizzato. (...) All'inizio nulla era stato predisposto
per loro: né abitazioni, né ospedali, né dispensari, né
uffici amministrativi, né chiese, né cimiteri." La colonia
si reggeva sulla massima suprema, che gli anziani si affrettavano ad inculcare
nei nuovi arrivati: "A'ole kanawai ma keia wahi: qui non c'è nessuna
legge".
Padre Damiano giunse sull'isola "con il breviario e un piccolo crocifisso.
Le prime settimane visse all'aperto, dormendo sotto un albero e mangiando su
una roccia piatta. E scelse subito di immergersi volontariamente in quel mondo
in putrefazione. Ciò che più lo sconvolgeva era il fetore persistente
che, quando i malati gli si stringevano attorno, lo prendeva alla gola (...).
Per aiutarsi, cominciò a fumare la pipa, che gli divenne abituale. (...)
Capì subito, quasi per istinto di carità, che i malati non lo
avrebbero mai accettato, se egli avesse cominciato a preservarsi, a usare precauzioni,
a evitare i contatti, a mostrare ripugnanza. (...) Di poter essere contagiato
non si preoccupava. Diceva 'd'aver affidato la questione a Nostro Signore, alla
Vergine e a san Giuseppe'. I superiori gli scrivevano sempre di badare al contagio,
ma egli sapeva che era assolutamente inutile essersi recato a Molokai se restava
un 'haole', 'un bianco': di quelli che per definizione 'rifiutavano di toccare'.
Era difficile per un prete 'rifiutarsi di toccare', quando bisognava deporre
l'ostia consacrata su lingue rose dal male, o ungere con l'olio santo mani e
piedi cancrenosi, o bendare con tenerezza quelle orribili piaghe; o anche solo
prendere in mano la corda della campana su cui s'erano arrampicati per gioco
i bambini!
(...) Ma egli non agiva così solo per rispettare la sensibilità
degli hawaiani, e quella ancora più acuta dei malati. Egli voleva rispettare,
per così dire, 'la sensibilità della Chiesa'. Essa è, per
definizione, 'corpo di Cristo'; tutti i suoi sacramenti e le sue opere sono
segni di un 'contatto fisico', salvifico, tra l'Umanità di Cristo e la
nostra sofferente umanità. Se quel desiderato 'contatto' era per gli
hawaiani una questione culturale, per padre Damiano era anche una questione
di fede. Perciò a tavola mangiava il 'poi' (carne mescolata con farina
di taro) intingendo le mani, assieme ai lebbrosi, nel piatto comune; beveva
nelle tazze che gli offrivano; passava la sua pipa se gliela chiedevano; giocava
coi bambini che si gettavano a grappoli addosso a quel gigante buono."
Il senso della missione di padre Damiano era la preparazione alla morte. "Non
c'era altro da fare. Impossibili e inutili le cure, certa la morte. (...) Quell'iter
pedagogico che altrove -in ogni altra comunità cristiana- era così
ovvio ('insegnare a ben vivere per insegnare a ben morire'), a Molokai non era
più possibile. Bisognava capovolgere l'itinerario: insegnare a morire
bene, perché potessero acquistare senso e dignità (e perfino 'gioia'),
quella parvenza di vita che ancora restava, quei brandelli di esistenza che
assomigliavano così tanto ai brandelli del loro stesso corpo. (...)
La morte era addirittura 'il prologo', da cui tutto il resto dipendeva. E padre
Damiano sapeva che quella morte lo riguardava. Egli non era e non voleva essere
uno spettatore. Cominciò dunque a 'celebrare la morte', nel senso di
darle dignità umana. Se si pensa che, al suo arrivo, i cadaveri venivano
abbandonati all'aperto e dati in pasto ai maiali, si può comprendere
la dignità di chi si mette a costruire un cimitero. (...) Oltre al cimitero,
padre Damiano fondò la Confraternita dei funerali, che si preoccupava
di preparare le bare di legno e di accompagnare, pregando, il defunto al cimitero,
al suono della musica e dei tamburi. E le vesti dei membri della confraternita
erano particolarmente dignitose."
E "dopo la liturgia della morte, veniva quella dei Sacramenti che ancoravano
alla vita." Primo fra tutti era il sacramento dell'Eucarestia: la festa
più grande nell'isola di Molokai era il Corpus Domini, celebrato con
solenni processioni.
"Padre Damiano aveva perfino introdotto la pratica dell'Adorazione perpetua:
i turni e gli orari, di giorno e di notte, non era facile osservarli; ma quando
un 'adoratore' non poteva occupare il suo posto in chiesa, si inginocchiava
a pregare sul suo giaciglio."
"C'era poi la Confraternita della sant'Infanzia, per i bambini abbandonati;
quella di san Giuseppe, per le visite dei malati a domicilio; quella della Madonna,
per l'educazione delle ragazze. Questi nomi così 'spirituali' non devono
farci dimenticare che si trattava di un'organizzazione sociale, tanto più
forte, quanto più ancorata nella fede.
La particolare cura dei morti e i funerali fu anche un realistico intervento
igienico e pedagogico: il più realistico in quelle condizioni; le varie
'confraternite' furono anche delle strutture di convivenza civile e di assistenza
sociale che nessun altro aveva saputo neanche immaginare.
Il tempo che gli restava dopo le visite ai malati e la cura spirituale era impiegato
nella costruzione di opere necessarie alla vita dell'isola: un porticciolo,
una strada di collegamento con il villaggio, due acquedotti, serbatoi d'acqua,
una serie di magazzini, uno spaccio, un edificio di raccolta per i nuovi arrivati,
due dispensari, un centro di formazione per ragazze, un ospedale...
Per le sue opere, gli aiuti economici a padre Damiano non erano mai mancati.
Era stato evidentemente aiutato dalla fama internazionale che lo aveva accompagnato
fin dagli inizi, anche grazie alle notizie diffuse dai giornali. Appena tre
giorni dopo il suo arrivo sull'isola, il giornale delle Hawaii, l'Advertiser,
lo definiva 'un eroe cristiano' e alla sua morte il Times scrisse: "Questo
prete cattolico è divenuto per tutta l'umanità un amico".
La Commissione Ministeriale d'Igiene dapprima lo avversò, ma poi finì
per offrirgli la carica di Sovrintendente di Molokai, con una paga annua di
diecimila dollari. E padre Damiano disse che lì non ci sarebbe stato
cinque minuti con una paga di centomila dollari: ma ci stava per amor di Dio.
Ma "i superiori non stimavano padre Damiano e non erano contenti di lui.
S'erano già infastiditi all'inizio, per il troppo clamore suscitato attorno
alla sua impresa. Avevano continuato a guardarlo con sospetto. Si diceva che
gli passasse per mano un fiume di denaro, che fosse troppo indipendente nelle
sue decisioni, che nella soluzione dei problemi pastorali non guardasse troppo
per il sottile, che aspirasse a diventare una specie di vescovo indipendente
di quella colonia di lebbrosi. In più, alcune proteste pubbliche che
padre Damiano aveva rivolte al Ministero della sanità circa il trattamento
riservato ai lebbrosi, avevano messo l'intera missione in difficoltà
con il Governo.
Il Provinciale -noto per la sua durezza verso gli altri e per l'estrema condiscendenza
verso se stesso- fece pressione sul vescovo e questi scrisse a padre Damiano
di smetterla di 'fare tanta poesia sui lebbrosi... Il mondo ha l'impressione
che voi siate alla testa dei vostri lebbrosi e fungiate da procuratore di beni,
medico, infermiere, becchino e così via, come se il governo non esistesse...'.
Padre Damiano gli rispose: 'Dagli stranieri oro e incenso, dai superiori la
mirra'."
Bisogna poi aggiungere l'ostilità che regnava tra i protestanti, i quali
non perdevano occasione per attaccare le opere di padre Damiano, come quando
fu costruito il cimitero e il giornale dei protestanti Hawaiani scrisse che
il recinto del 'predicatore papista' non era che una trappola per catturare
la selvaggina che sbagliava strada...
Pochi mesi prima che morisse, tentarono anche di infangare la sua immagine e
la sua missione, approfittando di quella teoria che attribuiva il contagio alla
promiscuità sessuale.
Ma la testimonianza di padre Damiano riuscì a modificare anche questi
atteggiamenti. Durante il Corpus Domini, che, come già detto, era la
festa più importante sull'isola, perfino i protestanti, allora abituati
ad osteggiare e a disprezzare le processioni come idolatria, si commuovevano,
colpiti dall'imponenza della solenne processione che attraversava le vie del
lebbrosario. "A Molokai anch'essi si scopertine/coprivano il capo e nel 1874 -dopo
una processione- una ventina di essi chiesero il battesimo."
Il Provinciale scrisse a Roma "che padre Damiano s'era montato la testa,
si era 'intossicato di lodi' e stava diventando 'pericoloso'. Padre Damiano
invece, da qualche anno, era diventato soltanto 'lebbroso'.
Se ne era accorto per caso una sera che, tornando stanco dal suo solito giro
apostolico, soprappensiero, aveva immerso i piedi in una bacinella d'acqua calda.
Aveva visto immediatamente arrossarsi la pelle e formarsi delle vesciche. Stupito
aveva toccato l'acqua con la mano: era bollente e non se n'era accorto! Aveva
perso la sensibilità agli arti inferiori e seppe così inequivocabilmente
d'aver contratto la lebbra. (...) Scrisse umilmente ai suoi superiori: '...Sono
diventato lebbroso. Penso che non tarderò ad essere sfigurato. Non avendo
alcun dubbio sul vero carattere della mia malattia, io resto calmo, rassegnato
e felicissimo in mezzo al mio popolo. Il Buon Dio sa bene ciò che vi
è di meglio per la mia santificazione, e ogni volta ripeto con tutto
il cuore: Sia fatta la tua volontà!' (...) I rapporti con i superiori
non migliorarono per questo: la notizia che l'eroe di Molokai era divenuto lebbroso
fece il giro del mondo e suscitò una nuova ondata di solidarietà.
(...) In più il Provinciale era preoccupato delle conseguenze che quella
malattia poteva avere per la missione, e gli consigliò di non metter
più piede fuori dall'isola."
"In un quaderno personale che aveva preso a scrivere in quel tempo si leggono
questi consigli che egli dava a se stesso:
'Prega di ottenere lo spirito di umiltà, in modo da desiderare il disprezzo.
Se vieni schernito, devi gioirne. Non lasciamoci incantare dalle lodi degli
uomini, non siamo soddisfatti di noi stessi, siamo grati a chi ci causa dolore
o ci tratta con disprezzo e preghiamo Dio per loro. Per fare questo c'è
bisogno, oltre che della grazia, di una grande abnegazione e di una costante
mortificazione, grazie alla quale veniamo trasformati in Cristo Crocifisso.'"
"Quando, al termine della Quaresima del 1889, padre Damiano s'accorse che
le piaghe si chiudevano e la crosta si anneriva, capì che stava per morire.
Ne aveva assistiti tanti che aveva imparato a riconoscere bene quei segni infallibili
di una fine prossima. Era contento di andare a celebrare la Pasqua in cielo.
Quando morì, il lunedì santo, aveva quarantanove anni e ne aveva
passati sedici tra i suoi lebbrosi."
Ancora una volta esplose il rancore di un certo mondo protestante e sulla stampa
internazionale finì una lettera di un pastore americano, Charles Hyde,
che definiva padre Damiano 'uomo rozzo, sporco, testardo, intollerante...'
In difesa di padre Damiano pubblicò un'appassionata 'lettera aperta'
lo scrittore Robert Louis Stevenson, autore del romanzo L'isola del tesoro e
divenuto famoso per il racconto intitolato Il Dottor Jekill e Mister Hyde. "Quando
Stevenson -che lottava disperatamente contro la tubercolosi- lesse l'articolo
in cui un Hyde in carne ed ossa pretendeva tramutare in mostro l'eroico e santo
padre Damiano, gli sembrò di trovarsi davanti ai suoi personaggi divenuti
reali."
"Strano destino quello di padre Damiano, costretto a finire spessissimo
sulle pagine dei giornali, sulla corrispondenza ufficiale della sua Congregazione
religiosa, e perfino in mano ad artisti, letterati, pittori e fotografi (nel
Natale del 1887, Edward Clifford pittore e scrittore, venne per conoscerlo e
per fargli un ritratto, ormai già sfigurato dalla lebbra, e le fotografie
scattategli sul letto di morte furono diffuse a migliaia di copertine/copie): proprio
lui che viveva nel luogo più sperduto dell'universo.
E stranamente si trovava a dover restare sempre sulla pubblica scena, ciò
che costringeva gli spettatori a schierarsi!
Così padre Damiano ricevette -quasi in parti uguali- fama e disprezzo,
stima e rifiuto, venerazione e sospetto, amore e rancore, per tutti gli anni
di quella sua straordinaria avventura.
Il tutto si rischiara e diventa comprensibile solo se intravediamo il segreto
disegno del Padre celeste che aveva scelto quel suo figlio generoso e impetuoso
perché diventasse un segno di contraddizione."
1) Ttutte le citazioni sono tratte da A.Sicari "Il quarto libro dei ritratti di Santi" - Ed. Jaca Book, Milano 1994 (pagg. 101-122)