Sviluppo
sociale è sviluppo economico se non profit è uguale profit
Solidarietà e sviluppo sociale sono economicamente
"redditizi"
Di Roby Noris
Alla consultazione sulle 101 proposte economiche dell'onorevole Marina Masoni
Caritas Ticino ha risposto con il testo che riportiamo su questo numero della
rivista. Abbiamo espresso due obiezioni principali: l'assenza di un modello
di sviluppo sociale di riferimento e un concetto di economia completamente slegata
dai rapporti delle varie componenti sociali della popolazione ticinese. In un
incontro il 20 giugno a Trevano che chiudeva questa fase di consultazione, abbiamo
colto come risposta alla nostra preoccupazione di fondo, un invito della direttrice
del dipartimento economia ad aspettare che prima si metta a posto l'economia
e poi si potrà anche parlare di "imprese sociali" e di solidarietà.
Siamo preoccupati perché ancora una volta un progetto economico non tiene
conto del "valore" di relazione tra soggetti sociali ma mette ancora
in contrapposizione ciò che fa profitto (investimenti produttivi, tecnologia,
alte qualifiche) e ciò che "crea deficit" (assistenza). Quindi
significa pensare a gruppi sociali in contrapposizione di valore economico,
di riconoscimento sociale e personale.
Non si dovrebbe contrapporre all'economia, indebolendola, un'idea pietistica,
passiva e assistenzialistica di solidarietà ma piuttosto fare riferimento
a un modello di sviluppo sociale dove sociale e economia si coniugano insieme
a tutto vantaggio della seconda. La socialità non ha di per sé
niente a che vedere con l'assistenzialismo, anzi una solidarietà dinamica
e intelligente fa proprio a pugni con assistenzialismo.
Escludere da un progetto economico la socialità significa invece avere
una concezione decisamente assistenzialistica del sociale: qualcosa che ha solo
un costo passivo e non produce nulla in termini economici.
Significa partire dal preconcetto che, ad esempio, chi non riesce a produrre
il "massimo" secondo uno schema prefissato, e non può essere
reinserito in quello schema, è meglio escluderlo dal discorso economico/produttivo
e, se proprio non se ne può fare a meno, mantenerlo parcheggiandolo in
una zona di inattività dove ci si augura non disturbi troppo.
Assistenzialismo è considerare lo sviluppo sociale solo come un costo,
inevitabile in una società avanzata.
In quest'ottica anche tutto ciò che non ha un riscontro economico, un
guadagno, immediato o comunque quantificabile in tempi precisi non è
abbastanza interessante. Ecco perché tutte le misure contro la disoccupazione
sono considerate interessanti e da sostenere solo quando ottengono in tempi
brevi il reinserimento nel mercato tradizionale del lavoro secondo un unico
schema produttivo al quale si accederebbe solo con formazione, riqualifiche
e riconversioni professionali. Lungi da noi l'idea di contestare questo primo
obiettivo del reinserimento nel mercato tradizionale del lavoro che dovrà
sempre rimanere prioritario, ma è sbagliato considerarlo come l'unico
altrimenti ogni intervento che ottenga obiettivi diversi è fallimentare.
Si provi a pensare quanto costa a tutta la collettività, anche solo in
termini economici, l'inattività forzata di una persona? Quanto costano
le conseguenze sociali di questa forma moderna di emarginazione?
E allora perché non far diventare "economiche" le soluzioni,
le misure e gli interventi "sociali" contro la disoccupazione, ma
non solo quelli, visto che comunque costano?
Siamo certi che le misure sociali e l'investimento per la socialità in
generale, possono diventare anche promozione economica.
Perché non partire dal potenziale inutilizzato della persona disoccupata
e non dalle sue difficoltà, dal suo deficit, per attivare misure che
rendano produttivo questo capitale umano non investito?
Ci sono settori come il sociale la cultura e la protezione ambientale dove si
può fare moltissimo, ma ci sono pieghe del sistema economico produttivo
che potrebbero essere sfruttate per rendere il sociale economicamente redditizio.
L'esperimento in atto da alcuni anni nel programma occupazionale di Caritas
Ticino in orticoltura ad esempio (290 tonellate di ortaggi prodotti nel 1995)
dimostra che si potrebbero inserire molti disoccupati in questo settore.
Si tratta di valutare quali prodotti possono essere ancora coltivati in Ticino
evitando l'importazione o collaborando con le aziende orticole ticinesi con
manodopera disoccupata diminuendo l'attuale importazione di manodopera stagionale
con contratti decisamente indegni per una società moderna e avanzata.
L'anno scorso il 28% dei partecipanti al programma di Caritas Ticino hanno trovato
un posto di lavoro definitivo nel mercato nonostante si trattasse di persone
disoccupate di lunga durata senza formazione e spesso con difficoltà
di vario genere. Ebbene anche per i rimanenti 72% che non hanno ritrovato un
posto alla fine del programma, l'aver prodotto ortaggi per sei mesi, l'aver
recuperato tonellate di tessili, smontato migliaia di frigoriferi e restaurato
vecchi mobili, ma soprattutto non aver gettato la spugna sulla possibilità
di lavorare, non è stato più redditizio per la collettività
che rimanere a casa passivamente? Quante attività industriali sono state
trasferite all'estero a causa dei costi di manodopera ma potrebbero essere riportate
in Ticino sotto forma di programmi occupazionali per reinserire i disoccupati?
Realizzare questo con criteri imprenditoriali in un ottica economica non è
assistenzialismo ma promozione sociale ed economica e per farlo non bisogna
aspettare nessun rilancio ma solo volerlo fare.