Dal documento "Quale
futuro vogliamo costruire?" alcuni spunti di riflessione
ECONOMIA
SOCIALE e
un SOCIALE economicamente redditizio
Di Roby Noris
Il
documento "Quale futuro vogliamo costruire?" della Conferenza dei
vescovi svizzeri e della Federazione delle Chiese evangeliche della Svizzera
è in consultazione; le ACLI Svizzere hanno organizzato una giornata di riflessione
a Berna il 23 gennaio 1999, chiedendo un contributo a Roby Noris, dal titolo
"Economia e volontariato"; ne riportiamo una parte.
Uneconomia sana non dovrebbe considera il sociale come una palla al piede, quindi solo come lo scotto da pagare per zittire una fascia inutile di persone
Sono molti i volontari che collaborano con Caritas Ticino, ma anche noi operatori professionisti siamo volontari per buona parte del lavoro che svolgiamo; anche se non saprei dire dove finisca limpegno professionale e dove cominci quello di volontariato. In effetti non mi pongo neppure il problema in quanto credo che al di la del concetto di tempo di lavoro", che se si vuole potrebbe anche essere definito di volontariato quando è fuori dagli orari di apertura degli uffici, per il resto esiste un solo modo unitario di vivere questo impegno professionale con una motivazione di tipo ideale che lo caratterizza e lo rende possibile anche con ritmi che dallesterno appaiono come insostenibili.
Mons. Giuseppe Pasini direttore per molti anni della Caritas Italiana, qualche anno fa ci diceva: "lobiettivo del volontariato è di poter scomparire perché è finalmente nata una società dove lo spirito del volontariato è diventato cosa normale, e quindi non sono più necessari i gruppi di volontari". Una società dove tutti sono diventati in un certo senso volontari. La dimensione del volontariato è interessante per tutta la società - per la quale è un segno - perché si fonda su una componente ideale che dovrebbe permeare tutte le attività che si fanno, tutte le esperienze che si vivono. Il giorno che questo sarà cosa normale per tutti, non ci vorranno più volontari: è evidentemente unutopia ma bisogna guardare lo stesso in questa direzione se non si vuole cadere nella trappola del volontariato come lesperienza dei primi della classe che fanno cose buone perché sono più bravi degli altri. Il volontario ha solo una responsabilità più grande di chi non lo è, perché ha avuto la fortuna di capire quale spirito dovrebbe animare tutta la società e la sua responsabilità è quella di essere segno di un cambiamento possibile per tutti. Il suo compito è quindi piuttosto quello del testimone di una piccola-grande rivoluzione già in atto.
Non mi piace molto parlare di volontariato nel senso classico e tradizionale, ma piuttosto di economia civile come la chiama leconomista Zamagni, che rifiuta invece giustamente laltra definizione corrente di terzo settore che vorrebbe relegare a fanalino di coda questa forza economica e sociale di fronte ai due giganti: leconomia pubblica e leconomia privata. La trasformazione di Caritas Ticino in questi ultimi ventanni è proprio in questa direzione. Oggi ha trenta operatori professionisti, alcune centinaia di volontari esterni che collaborano, un budget di dieci milioni e nessun deficit. Ma lesempio più esplicito di questa tendenza è la lotta contro la disoccupazione che da dieci anni combattiamo attraverso un programma occupazionale per il reinserimento dei disoccupati che è una vera e propria azienda con attività di tipo imprenditoriale: 150 posti di lavoro nel ramo dellorticoltura - siamo fra i maggiori produttori di pomodori del Ticino - e il reciclaggio di tessili - 800t lavorate nel 98 - , materiale elettronico e frigoriferi - 3/4000 frigo frazionati allanno - cercando di coniugare protezione dellambiente con creazione di posti di lavoro.
Vorrei quindi fare alcune considerazioni che partono dallesperienza diretta sul terreno di Caritas Ticino e non da unanalisi asettica della realtà economica elvetica. Non si tratta del giudizio di un economista ma del tentativo di capire la nostra realtà deducendo criteri, linee, giudizi, osservazioni e interrogativi dallesperienza diretta fatta in questi ultimi ventanni attraverso losservatorio particolare di Caritas Ticino.
Lo slogan "lavorare meno per lavorare tutti" è perdente in partenza. Mi piace invece pensare che si dovrà lavorare ancora più di prima usando meglio le risorse
Economia civile, economia
e sociale: una prima considerazione è che leconomia e il sociale non sono
su fronti opposti, anzi possono viaggiare su binari paralleli. Uneconomia
sana non dovrebbe considera il sociale come una palla al piede, quindi solo
come lo scotto da pagare per zittire una fascia inutile di persone. Purtroppo
questo invece è ciò che avviene, ed è il dramma dello stato sociale, il Welfare
State, come lo abbiamo conosciuto in questi decenni; dove ci sono più mezzi
come in Svizzera, economia privata e pubblica pagano i costi di uno stato sociale
purtroppo sempre più assistenziale, mentre dove ci sono meno mezzi pagano un
po meno; in altri paesi si cerca di smantellare lo stato sociale per non
pagare niente del tutto mentre in molti paesi è ancora una conquista lontana.
Ma anche se il livello di protezione sociale è buono, la logica è troppo spesso
quella assistenziale: il sociale è in fondo considerato solo come un costo che
non produce nulla. Leconomia civile, chiamata anche privato sociale, che
sempre più si sviluppa, è una nuova via che stenta ancora ad essere compresa
nella sua prospettiva sociale ed economica. Leconomia può infatti essere
economia-sociale e il sociale può essere economicamente redditizio.
Ma lerrore di prospettiva non è voluto solo dal mondo economico che non
capisce la funzione economica del sociale se non quando lo Stato utilizza il
volontariato come forza lavoro gratuita per spendere meno; anche chi opera in
campo sociale, ecclesiale e sindacale ha spesso infatti una catastrofica concezione
assistenziale dello stato sociale ben radicata.
Il documento "Quale
futuro vogliamo costruire?" Mi sembra caschi in questa trappola almeno
per quanto riguarda lanalisi della situazione svizzera.
Non posso essere in sintonia con una analisi economica che sento unilaterale
e manichea, un po da sindacalismo sinistroide sesantottino ormai completamente
anacronistico. Semplificando un po per rendere lidea siamo di fronte
alle contrapposizioni fra capitale e gli imprenditori da una parte, che devono
per forza essere i cattivi che pensano solo ad aumentare i loro profitti e dallaltra
parte le vittime, i lavoratori, buoni per definizione, in balia dellineluttabile.
Per quello che vedo mi pare proprio che le cose non stiano così, e certamente
non in Svizzera.
La crisi economica è strutturale e non congiunturale, quindi una profonda trasformazione
è in atto. Una trasformazione che in nome di una maggiore efficienza, ha ridotto
posti di lavoro, ha automatizzato, ha chiesto flessibilità e capacità di adattamento,
per produrre di più con minori energie investite.
Ebbene non riesco proprio ad essere contrario al principio di una utilizzazione
più efficace delle risorse. Non cè nulla di negativo nel migliorare il
livello di rendimento diminuendo gli sprechi.
Per quale buon motivo bisogna fare in quattro persone un lavoro che può essere
fatto bene da due? Perché dovrei essere daccordo che si faccia finta di
niente, facendo credere alle due persone in più, che il loro lavoro è utile
quando questo non è vero affatto? È rispettoso della dignità di quelle persone
barare sullutilità del loro ruolo? Sono quindi daccordo sul fatto
che si riducano i posti di lavoro dove non sono necessari. Sono completamente
daccordo, anche se posso sembrare cinico, che uneconomia tenti di
utilizzare al meglio le risorse, correggendo gli errori e gli sprechi prima
di essere costretta a farlo quando la situazione è insostenibile e crolla. Ci
sono grosse imprese statali, parastatali e private che per anni hanno sprecato
risorse e oggi ristrutturano facendo ciò che avrebbero dovuto fare già da molto
tempo e forse avrebbero potuto fare in tempi più lunghi evitando i tagli drammatici
a cui stiamo assistendo.
Non sto semplificando indebitamente quanto sta avvenendo in Svizzera, ignorando
disfunzioni, sfruttamento e strumentalizzazioni di sorta, ma solo evidenziando
un aspetto macroscopertine/copico di questa nostra fase di ristrutturazione economica
che una certa analisi evita accuratamente di vedere e di prendere seriamente
in esame.
Non sono invece per niente
daccordo sul fatto che non si riutilizzi più in altro modo il potenziale
di coloro che non sono più necessari nei settori ristrutturati.
Lo squilibrio infatti non nasce tanto dalla riduzione di posti in un settore
ma dal non riutilizzare in altre forme quelle forze che ci sono e che rischiano
di simanere inattive.
Per utilizzare queste nuove forze disponibili bisogna prima di tutto lavorare
di fantasia partendo dal presupposto che siamo ben lontani dallaver sperimentato
tutto per utilizzarle e che cè ancora molto da fare per uscire dal vicolo
cieco del lavoro produttivo e salariato come unica forma di lavoro e di punto
di riferimento. Cè tutto un universo di produzione di ricchezza sociale
ad esempio che non è immediatamente monetizzabile: il miglioramento della qualità
di vita in una società è comunque una ricchezza indubbia. Ma non dimentichiamo
che cè anche tutta una trasformazione della produzione di ricchezza con
creazione di nuove forme di lavoro a cui però si accede solo a certe condizioni:
competenze, mobilità, flessibilità, competitività e efficienza.
Per questo non sono particolarmente entusiasta dello slogan "lavorare meno
per lavorare tutti" perché mi sembra perdente in partenza: presuppone infatti
che il lavoro produttivo sia irrimediabilmente ridotto e che lunico modello
economico e sociale sia quello attuale, quindi senza speranza. Mi piace invece
pensare che si dovrà lavorare ancora di più di prima usando meglio le risorse.
Perché unimpresa cattolica dovrebbe essere meno produttiva di unaltra? Forse perché in ambito cattolico spesso si confonde carità evangelica con assistenzialismo
Non vorrei sembrare semplicista ma lesperienza che faccio con i miei collaboratori in Caritas Ticino è quella di una continua trasformazione del lavoro di anno in anno con esigenze qualitative sempre più elevate, con la creazione di nuove forme di lavoro che neppure avremmo immaginato dieci o venti anni fa: da noi la razionalizzazione ha significato maggior produttività e più posti di lavoro e non il contrario. Evidentemente la motivazione ideale delle persone e le finalità di questo lavoro sono condizioni determinanti che non possono essere ricreate artificialmente in qualsiasi situazione di lavoro, ciononostante i meccanismi che hanno reso più produttiva questa situazione non differiscono molto da quelli di una ditta normale. Se ad esempio Caritas Ticino ha potuto sviluppare con pochissimi mezzi il settore informazione producendo una rivista e una trasmissione televisiva settimanale, questo è dovuto ad unutilizzazione delle risorse molto efficace, sostanzialmente con gli stessi ingredienti che rendono unimpresa competitiva.
E qui devo introdurre unaltra considerazione che non vi piacerà ma che parte proprio dallesperienza quotidiana di contatto con il mondo della disoccupazione, con il degli esclusi dalla ristrutturazione economica.
Allinterno della struttura
del programma occupazionale di Caritas Ticino a Lugano, Giubiasco, Cadenazzo
e Pollegio incontriamo 500 disoccupati allanno offrendo loro un sostegno
nella ricerca di un posto stabile e un lavoro temporaneo. Incontriamo la categoria
dei generici, cioè di coloro che per la maggior parte hanno una formazione professionale
molto limitata o non ne hanno affatto. Dal nostro osservatorio di Caritas Ticino
quindi, pur senza voler generalizzare, possiamo fare qualche considerazione
sulla ricollocabilità di queste persone.
Ebbene la situazione è molto grave perché una parte piuttosto rilevante di questi
disoccupati secondo noi non è ricollocabile nel mercato del lavoro, indipendentemente
dal fatto che i posti ci siano o meno, in quanto non è allaltezza di svolgere
le attività produttive proposte dal programma nonostante queste non richiedano
conoscenze preliminari ma solo affidabilità, impegno, regolarità, ritmo e una
certa flessibilità; non siamo però di fronte a situazioni di deficit o di andicap
strutturale, ma piuttosto di rifiuto di un modello di lavoro che ha la pretesa
di utilizzare fino in fondo le potenzialità di una persona. Non voglio dare
percentuali anche se un giorno credo quantificheremo questa categoria e dovremo
renderla pubblica. E dirò di più: se avessi dei posti di lavoro a Caritas Ticino
non assumerei queste persone. Non posso permettermi infatti di gestire unorganizzazione
socio-caritativa senza rispettare criteri di efficienza e di competitività al
di sotto di certi limiti, proprio come fa leconomia privata. So benissimo
che in ambito cattolico si sono fatte spesso, e si fanno tuttora, cosiderazioni
che vanno in direzione opposta, semplicemente confondendo carità evangelica
con assistenzialismo: perché unimpresa cattolica dovrebbe essere meno
produttiva di unaltra? Assumere personale inadeguato o accettare che non
sia allaltezza del ruolo affidato non è solo dannoso economicamente ma
è una mancanza di carità nei confronti di quella persona che non è rispettata
nella sua dignità e non è aiutata ad esprimere tutte le sue potenzialità anche
se potrebbe farlo. Ma ovviamente non è facile evitare di cadere in questo equivoco.
Ora noi ci troviamo di fronte molte persone incapaci di accettare che non si
possa più lavorare come hanno fatto in passato, e che non capiscono che era
sbagliato anche prima benché tollerato, e ora invece bisogna assolutamente cambiare
mentalità se si vuole rientrare nel mercato del lavoro. Non sto facendo considerazioni
moralistiche su colpe e responsabilità, mi limito qui a constatare dei fatti
e delle condizioni. Se volessimo entrare in merito a un discorso di responsabilità
evidentemente dovremmo analizzare le motivazioni che hanno fatto accettare fino
a ieri questo tipo di manodopera che oggi improvvisamente non va più bene. Il
guaio è che non va bene davvero.
Il nostro lavoro allora diventa la ricerca di quelle condizioni che possono
aiutare queste persone a cambiare modo di concepire il lavoro e modo di considerarsi
lavoratori. E questa è la sfida più grande, ben più grande di quella del trovare
loro un nuovo posto di lavoro che perderebbero comunque presto nelle condizioni
che ho descritte prima. Evidentemente non bisogna generalizzare perché cè
comunque una buona parte di disoccupati che vengono nel nostro programma e sono
di per se perfettamente ricollocabili, infatti lanno scorso più del 40%
di coloro che hanno terminato il programma sono usciti con un posto di lavoro
stabile. Questo però non sminuisce la gravità della situazione che ho descritta
e che ha dimensioni ben più gravi di quanto si possa immaginare evidentemente
anche al di fuori del nostro programma occupazionale.
Si tratta infatti di una situazione generale che dovrebbe essere presa in considerazione
seriamente da chi vuole vedere qualche via di uscita e non semplicemente consolarsi
con i dati statistici che fanno sembrare in diminuzione la disoccupazione solo
perché si fanno scomparire migliaia di disoccupati calcolandoli in unaltra
categoria chiamata di "cercatori di impiego".
Le 710000 persone che si presume vivano "nella precarietà" in Svizzera, non hanno proprio nulla a che vedere con le altre categorie di poveri nel mondo
Il documento "Quale futuro vogliamo costruire?" pur facendo riferimento a molti dati attendibili sulla situazione economica nazionale e internazionale suggerisce interpretazioni errate sulla valutazione della realtà elvetica quando accosta (pag.11) i dati sui presunti 710000 poveri svizzeri ai poveri degli altri paesi industrializzati e persino quelli dei paesi del terzo mondo come se si trattasse dello stesso fenomeno o comunque di realtà simili. Le 710000 persone che vivono nella precarietà" in Svizzera hanno ben poco in comune con le altre categorie di poveri nel mondo, per non dire che non hanno proprio nulla a che vedere soprattuto secondo parametri economici. E non si tratta di sottigliezze accademiche sulla povertà relativa ma di accostamenti indebiti di categorie non paragonabili neppure quando hanno in comune qualche definizione come quella di disoccupati che risulta completamente diversa a seconda del contesto socio-economico.