4. La comunità cristiana
4.1 La trasmissione della fede
4.2 L’ammissione ai sacramenti
4.3 Custodire la verità dell’iniziazione cristiana
4.4 Purificare il linguaggio
4.5 Il vero volto
dell’iniziazione cristiana
4.6 Attenzione alla persona
4.7 Sacramenti come cattedrali nel deserto
4.8 Spazi per un cammino cristiano concreto
4.9 Alcuni punti fermi
4.1 La trasmissione
della fede
Nell’offrire il fondamento solido e sicuro della fede alle nuove generazioni,
un compito particolare spetta, oltre che alla famiglia, alla comunità cristiana.
In questo contesto dobbiamo, come Chiesa interrogarci sulle nostre responsabilità,
soprattutto non possiamo chiudere gli occhi di fronte agli esiti così deludenti
dell’iniziazione cristiana.
Che cosa non convince, in che cosa abbiamo mancato? Di fronte ai molti sforzi
per rinnovare la liturgia e la catechesi - nella visita pastorale trovo quasi
tutte le chiese restaurate, ma vuote dei ragazzi e una pratica ridotta al
10-15%. - i risultati sono deludenti. La proposta cristiana è subita più
che desiderata ed amata, soffre di una crisi di persuasività e di incisività.
Quali rimedi possiamo prospettare?
Una prima riflessione alla quale vi invito è come possiamo ridare valore
al cammino di iniziazione cristiana. Che cosa manca, dove siamo inconcludenti,
come possiamo rinnovare il percorso dell’iniziazione cristiana?
Una delle problematiche più diffuse con le quali ho dovuto confrontarmi in
questi primi anni del mio servizio episcopale è stata certamente quella dei
sacramenti dell’iniziazione cristiana.
Le domande più frequenti che ho ricevuto dai parroci e dalla gente anche
nelle visite pastorali riguardavano:
Vorrei riflettere con voi su queste tematiche fondamentali che riguardano
la trasmissione della fede, l’aiuto che dobbiamo offrire alla nostra gente
per diventare cristiani oggi, perché “cristiani non si nasce, ma si diventa”,
diceva già Tertulliano. L’essere cristiano non è iscritto nei cromosomi o
nel DNA di una persona, ma è dono di grazia. Come possiamo garantirlo ancora
alle nuove generazioni in un mondo che certamente non è più quello di una
volta?
Di fronte ai problemi dell’iniziazione cristiana nelle difficili situazioni
di oggi, le risposte pastorali oscillano, secondo l’affermazione dell’arcivescovo
di Milano, Dionigi Tettamanzi, ma anche per le mie pur brevi esperienze pastorali,
tra una risposta “buonista”, una “equilibrista” e quella “rigorista”. Tra
la posizione, cioè, di chi da una parte indulge troppo sbrigativamente al
fatto che “i sacramenti sono a favore degli uomini” (sacramenta propter homines);
di chi, salomonicamente, cerca di stare in mezzo – in equilibrio appunto
– tra il “non spegnere il lucignolo fumigante” (cfr. Matteo 12,20
e Isaia 42, 3) e il “non dare le perle ai porci” (Matteo 7,6),
e la posizione di chi dall’altra parte nega drasticamente i sacramenti con
decisioni del tutto soggettive e discutibili. Un vecchio principio morale
diceva: “Rationabiliter petentibus denegari non potest”, “Non si
possono negare i sacramenti a coloro che ragionevolmente li chiedono”.
Ma quali criteri entrano a rendere ragionevole la richiesta di un sacramento?
Delle riflessioni seguenti sono in gran parte debitore al cardinale Dionigi
Tettamanzi e al suo libro “Mi sarete testimoni”.
4.2 L’ammissione
ai Sacramenti
La soluzione del problema non passa attraverso i criteri arbitrari e le sensibilità
diverse dei sacerdoti e dei fedeli: neppure della stessa Chiesa, che sa
bene di aver ricevuto da Cristo i Sacramenti come doni del suo amore, senza
poterne essere né padrona né arbitro. La Chiesa è chiamata, soprattutto
nei riguardi di questi doni, a seguire e rivivere l'esempio e il comandamento
di Gesù Cristo, a stare fedelmente «sulla misura del Cuore di Cristo»
(cfr. Familiaris consortio 65).
Nessuno come Gesù è entrato nelle pieghe più recondite del cuore umano -
«egli infatti sapeva quello che c'è in ogni uomo»: (Giovanni 2,25)
- e nelle situazioni più piagate e lacerate della società. Egli ha accolto
tutti, in special modo i "rifiutati", come i poveri, i malati e
i peccatori. Nello stesso tempo, nessuno come Gesù ha chiesto agli uomini,
a tutti - anche ai peccatori -, di fissare occhi, cuore e vita nell'ideale
altissimo del «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Matteo 5,48).
Un esempio solo, emblematico: è la donna adultera, che fa l'esperienza della
possibile sintesi tra questi due aspetti, quando ascolta le parole di Gesù:
«Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?... Neanch'io ti condanno; va'
e d'ora in poi non peccare più» (Giovanni 8, 10-11).
Come Gesù, la Chiesa deve essere “accogliente" con tutti.Lo esige la
maternità che le ha donato Cristo suo Sposo. Come Gesù, la Chiesa deve vivere
questa accoglienza nella verità,perché solo nella verità l'amore può volere
il bene delle persone. E in alcune situazioni il "no" - la non
ammissione ai Sacramenti - è l'espressione più coerente e forte del Sì dell’amore
autentico. Riascoltiamo il monito di Paolo VI: «Non sminuire in nulla la
salutare dottrina di Cristo è eminente forma di carità verso le anime. Ma
ciò deve sempre accompagnarsi con la pazienza e la bontà di cui il Redentore
stesso ha dato l'esempio nel trattare con gli uomini. Venuto non per giudicare
ma per salvare, egli fu certo intransigente con il male, ma paziente e misericordioso
verso i peccatori» (Humanae vitae, 29).
Proprio questo "stile cristiano" nella celebrazione dei Sacramenti
racchiude una forza missionaria singolare: proclama e testimonia
il mistero stesso di Dio, «ricco di misericordia» (Efesini 2,4)
e "tre volte santo".
Accogliere nella verità comporta, da un lato, l'adesione alla "verità" dei
Sacramenti, nel triplice senso (contenuti, soggetti, modalità) e, dall'altro
lato, la valutazione delle reali condizioni umane, morali e spirituali di
chi richiede i Sacramenti. È un discernimento non sempre facile, soprattutto
quando è in questione la fede. Si deve ricordare che la Chiesa non può misurare
la fede di nessun battezzato: la può misurare solo Dio "che scruta
il cuore e la mente" (cfr. Geremia 11,20). Non
la può misurare, ma può e deve dare un giudizio sulla presenza o meno delle "condizioni
di fede" in ordine alla validità della celebrazione dei Sacramenti.
(Dionigi Tettamanzi, Mi sarete testimoni, Centro Ambrosiano, pp.
125-126)
4.3 Custodire la verità dell'iniziazione cristiana
Sento la responsabilità di operare e vigilare affinché
non si perdano mai alcune verità di fede,tra loro intimamente connesse e
che riguardano i contenuti nuovi e sorprendenti del Vangelo e della libera
risposta dell'uomo mediante la fede. Queste verità devono entrare, senza
alcuna incertezza, nella nostra azione pastorale, se non vogliamo rimanere
imprigionati in giudizi affrettati, che pagano un indebito prezzo a tendenze,
spesso diffuse, di carattere prevalentemente sociologico e/o psicologico.
Vorrei qui richiamare tre dimensioni peculiari dell’iniziazione cristiana
che suggeriscono anche precisi orientamenti pastorali.
L’iniziazione cristiana è affidamento al Signore Gesù
Una domanda preliminare: Perché credere? perché affidarmi
ad un altro, Dio? La risposta si trova in una lucida analisi della persona:
la persona è fatta per..., è realtà.. aperta a..., realizza se stessa nell'affidarsi
a..., nel fidarsi di, in una parola nel credere in...
L'esperienza religiosa comincia quando l'uomo si riconosce pensato, amato,
creato da un Altro e a lui si affida, di lui si fida, non considerandolo
un concorrente pericoloso, ma il TU grazie al quale IO sono. L'uomo che non
si affida, che non crede, finisce per fare di se stesso il centro unico e
disperato di tutto.
Dobbiamo qui chiarire il senso del verbo 'credere'. Istintivamente pensiamo
si tratti solo di una operazione della nostra intelligenza che accetta verità
che sono al di là della sua capacità. Questo aspetto è valido, ma non è né
il primo né l'unico. Leggiamo nella Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione
del Concilio Vaticano II: "A Dio che rivela è dovuta l'obbedienza della
fede con la quale l'uomo si abbandona a Dio tutt'intero liberamente, prestandogli
il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà e acconsentendo volontariamente
alla rivelazione data da Lui" (n. 5).
Utile il confronto con la stesura precedente che riprendeva il testo del
Concilio Vaticano I: "A Dio che rivela è dovuta l'obbedienza della fede
che è pieno ossequio dell'intelletto e della volontà, cioè assenso volontario
alla verità da lui rivelata". Il testo definitivo comporta una forte
sottolineatura della fede come atto che coinvolge tutt'intera la persona.
La fede come 'abbandono', affidamento appunto a Dio. Non manca certo l'elemento
conoscitivo, l'ossequio dell'intelletto, ma l'atto del credere è globale,
investe tutta la persona.
Tale sottolineatura corrisponde perfettamente alla nozione che della divina
rivelazione ci ha dato il Vaticano II. Mentre nel Concilio Vaticano I, prevaleva
una nozione conoscitiva, intellettuale della Rivelazione, intesa appunto
come il complesso delle verità inaccessibili alla ragione umana e oggetto
di rivelazione, con il Vaticano II la rivelazione prima d'essere complesso
di verità è la persona di Cristo, è lui il rivelatore e la rivelazione. La
rivelazione si compie con parole e gesti, eventi, una storia di salvezza.
Tale più comprensivo modo di esprimere la rivelazione comporta una mutazione
nel modo di concepire la fede che non può essere ridotta solo ad atto conoscitivo-intellettuale,
ma che è risposta globale a Dio che si rivela. Anche per la catechesi vale
quanto ho già scritto a proposito di un ‘circolo virtuoso’ tra istruzione
ed educazione. La trasmissione delle ‘verità della fede’ non deve andare
disgiunta da una esperienza 'personalistica' della fede come gesto che coinvolge
l'intera persona.
E' interessante vedere come il vangelo di Giovanni parla del credere. Infatti
il verbo 'credere' ricorre ben 107 volte. La preferenza per la forma verbale
- credere - invece del termine - fede - denota una preferenza per il carattere
attivo, dinamico proprio del verbo. Inoltre Giovanni usa spesso la forma: "credere
in..." (ben 36 volte) come a notare l'intimità di tale gesto. Ci sono
anche altre espressioni interessanti perché prese dall'esperienza umana,
dalla vita quotidiana e applicate al credere: accogliere Gesù, vedere Gesù,
ascoltare Gesù, conoscere Gesù, riconoscere Gesù, seguire Gesù, rimanere
in Gesù. E' così concreto il credere in Gesù, che Giovanni lo descrive con
verbi che esprimono le azioni proprie dei sensi umani.
Interessante in Gv l'uso del verbo 'venire' come sinonimo di 'credere': "Chi
viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete" (Gv
6,35; 7,37). Quindi il credere è un atto che coinvolge tutto l'uomo, tutte
le sue facoltà. Io non mi trovo di fronte ad una cosa o ad una idea astratta,
ma di fronte ad una persona, alla quale decido di affidarmi o meno. Il credere
comporta certo l'adesione dell'intelligenza, la conoscenza: ma esige che
tutt'intera e liberamente la mia esistenza, il mio IO, si apra e si affidi
al TU di Dio: liberamente.
Se è vero che nell'iniziazione cristiana si svolge un dialogo tra Dio e l'uomo
- e non semplicemente tra uomo e uomo -, occorre ricordare che, nel realizzare
questo dialogo, l'amore di Dio ha possibilità diverse e infinitamente superiori
a quelle dell'uomo.
Sono sempre veramente fonte di stupore e di gratitudine per tutti noi, ad
esempio, i seguenti fatti: l'assoluta gratuità di cui è segnata ogni azione
di Dio verso l'uomo; i Sacramenti come dono totalmente libero di Cristo Salvatore;
il "carattere", impresso dal Battesimo e dalla Confermazione, che
configura il credente a Cristo fin nelle profondità del suo essere e lo fa
in modo permanente (indelebile) e, insieme, dinamicamente aperto al dono
della grazia; la possibilità e la capacità di accogliere il dono di Dio in
ogni età della vita, anche nell'infanzia; la presenza reale, anche quando
è invisibile, della Chiesa in ogni gesto sacramentale, proprio perché gesto
sacramentale; lo scambio dei doni e la sollecitazione reciproca a una libertà
responsabile, come frutto dell'essere inseriti, con il Battesimo, nella Chiesa
e del partecipare al mistero della "comunione dei santi". (Ibidem,
pag. 128).
L’iniziazione è cammino di libertà
Rientra nel disegno di
Dio che il suo incontro con l'uomo rispetti pienamente, anzi susciti, rinvigorisca
e perfezioni la libertà dell'uomo stesso. E questo a cominciare dalla scelta
più decisiva che alla libertà è affidata: quella di «rispondere», nella fede,
a Dio che "chiama». Per questo,
nell'iniziazione cristiana e, in specie nei suoi Sacramenti, la Chiesa
deve avere una cura tutta particolare della libertà dell'uomo: è chiamata
ad accompagnarla, sollecitarla e incoraggiarla, affinché dia una risposta
consapevole e volontaria all'iniziativa gratuita di Dio. Nel fare ciò,
la Chiesa sa che ci sono gradi diversi di libertà e, conseguentemente,
possibilità di accoglienze differenti del dono di Dio. Nello stesso tempo,
la Chiesa sa che la sua opera si limita - anzi, si deve limitare - ad assicurare
che all'uomo non manchino le "condizioni necessarie” perché possa
dare una risposta libera a Dio. È chiamata a fare tutto ciò che è possibile
- proprio tutto! - affinché si realizzino, e nel modo migliore, queste
stesse condizioni. La Chiesa ha pure il dovere di dare un giudizio su queste
condizioni e di prendere, di conseguenza, quelle decisioni operative che
si rivelano coerenti con il giudizio espresso. È necessario esercitare
questa valutazione per non esporre il Sacramento alla "invalidità",
al fatto che il dono di Dio all'uomo non possa realizzarsi seguendo la
via sacramentale!
Una volta poi che la Chiesa fa tutto ciò che le è possibile perché si realizzino
le condizioni necessarie, deve accettare di “fermarsi”, riconoscendo di non
potere fare di più. Deve affidarsi totalmente a Dio, lasciandolo operare
secondo il suo disegno libero e gratuito di amore. È questa, peraltro, una
tipica espressione di fede: così facendo, la Chiesa riconosce che solo Dio
è Dio e che solo lui può agire come tale!
Ma "fermarsi" non è "riposare", non è "un
fare nulla". È, da un lato, nutrire fiducia certa in Dio, che nella
sua sapienza e onnipotenza di amore trova tutte le strade - anche quelle
a noi sconosciute - per entrare in ogni cuore umano e donargli la salvezza.
Dall'altro lato, è riprendere sempre da capo il lavoro già fatto e impegnarsi
di nuovo per cercare di rendere possibile, finalmente, da parte dell'uomo,
la libera risposta di fede a Dio che chiama. (D. Tettamanzi, Mi sarete
testimoni, pp. 129-130). Ma i protagonisti dell’iniziazione cristiana
- neonati o bambini - sono persone che non dispongono o dispongono solo in
modesta misura dell’esercizio della libertà. Sono e non solo fisicamente,
sulle braccia dei loro genitori, padrini, madrine: la loro libertà è quella
della loro famiglia. Non c’è quindi iniziazione cristiana senza il protagonismo
della famiglia. Forse dobbiamo dedicare alla famiglia una parte del molto
tempo che oggi investiamo nell’accompagnamento dei fanciulli nella preparazione
ai sacramenti dell’iniziazione. E’ da apprezzarsi la fiducia che tante famiglie
ripongono ancora nelle nostre parrocchie e nei nostri oratori, cui chiedono
di educare cristianamente i propri figli. È, invece, da rifiutare una sorta
di "delega in bianco" da parte di genitori che non si lasciano
coinvolgere e rimangono "assenti". Pur riconoscendo e rispettando
l'eventuale difficile cammino di fede di qualche papà o mamma, è da sollecitare
e sostenere il realizzarsi di una forte "alleanza educativa” tra la
Chiesa e i genitori nel cammino di fede dei figli.
il tempo dell'iniziazione cristiana diventa sempre più,
nell'attuale situazione, un'occasione provvidenziale e un periodo prezioso
per una pastorale della Chiesa che deve affrontare, con decisione, la sfida
di aprire strade nuove per avvicinare le famiglie, per aiutarle a riscoprire
la loro fisionomia di "Chiese domestiche" e il loro compito di
trasmettere la fede ai figli; come pure per aiutarle - e non poche volte
- a ritrovare e riprendere di nuovo il loro stesso cammino di fede, impegniamoci
per una iniziazione cristiana che testimoni una comunità ecclesiale più partecipe
e più viva. Proprio perché ogni Sacramento comporta, nel suo stesso compiersi,
la partecipazione reale - anche se invisibile - della Chiesa, siamo chiamati
a dare testimonianza visibile di questa partecipazione. È, allora, da realizzarsi
un cammino di fede che veda l'accompagnamento di una comunità cristiana più
partecipe e più viva.
L’iniziazione è cammino dentro la comunità cristiana
Il credere è atto dentro la chiesa e grazie alla chiesa. Possiamo credere
grazie a coloro che hanno creduto prima di noi: "La Parola che da
la vita esisteva fin da principio: noi l'abbiamo udita, l'abbiamo vista
con i nostri occhi, l'abbiamo contemplata, l'abbiamo toccata con le nostre
mani. La vita si è manifestata e noi l'abbiamo veduta. Siamo suoi testimoni
e perciò ve ne parliamo. Vi annunziamo la vita eterna che era accanto al
Padre e che il Padre ci ha fatto conoscere. Perciò parliamo anche a voi
di ciò che abbiamo visto e udito; così sarete uniti a noi nella comunione
che abbiamo con il Padre e con Gesù Cristo suo Figlio" (1Gv 1,1-3).
Importante anche il testo di 1Tim 1ss.: siamo alle sorgenti della trasmissione
della fede, grazie appunto a coloro che già hanno creduto. Nel linguaggio
cristiano tradizione è termine decisivo per indicare anzitutto il consegnarsi
di Cristo per noi (Gal 2,20; Ef 5,2.25). La salvezza inizia con questo
consegnarsi, darsi, e continua mediante la consegna, di mano in mano, della
viva memoria di questo gesto di Cristo. Ecco alcune testimonianze: "Gli
Apostoli ci sono stati inviati come messaggeri della buona novella da parte
del Signore Gesù. Gesù è stato inviato dal Padre. Il Cristo viene da Dio
e gli Apostoli da Cristo; queste cose derivano dalla volontà di Dio" (Clemente
Romano). E Tertulliano: "Bisogna credere ciò che le Chiese hanno ricevuto
dagli Apostoli, gli Apostoli da Cristo e Cristo da Dio". E infine
Ireneo: "La chiesa disseminata in tutto l'universo fino alle estremità
della terra, ha ricevuto dagli apostoli e dai loro discepoli questa fede
in un solo Dio, Padre onnipotente e la custodisce con gran cura, come abitando
un'unica casa, infatti se le lingue sono diverse sulla terra, pure la forza
efficace della tradizione è unica". E se ognuno di noi ripensa al
suo cammino di fede non può non ricordare con gratitudine i nomi e i volti
di quanti - nonni, genitori, famigliari, preti, religiosi, amici - ci hanno
accompagnato nel cammino di fede.
Per realizzare queste dimensioni dobbiamo acquisire la consapevolezza
che esiste un linguaggio pastorale bisognoso di "purificazione",
perché, con alcune sue espressioni ricorrenti, non esprime con fedeltà la
ricchezza di quelle stesse verità, intese nella loro singolarità e unitarietà.
Così avviene, ad esempio, quando si afferma che la nostra è "un'iniziazione
cristiana che di fatto... non inizia, ma conclude", o che "la Cresima
è il sacramento della 'maturità cristiana' e, dunque, è da conferirsi all'adolescente,
anzi al giovane".
Potrei esemplificare a proposito di tutti e tre i sacramenti dell’iniziazione
cristiana. Circa il battesimo ad esempio se ci limitiamo a dire che toglie
il peccato originale o che deve essere la conquista di una fede adulta, quindi
da non più amministrare ai bambini, o per l’Eucaristia se si parla solo di
Prima Comunione, una volta fatta la quale il traguardo è raggiunto e possiamo
dispensarci dal fare le altre. Prendo in esame alcune definizioni imprecise
che riguardano la Cresima, per convincerci della loro unilateralità e insufficienza,
se non addirittura della loro pericolosità, se utilizzate per impostare la
pastorale che la riguarda, come ci ricorda Rinaldo Falsini in un suo prezioso
volumetto.
(Rinaldo Falsini, La Cresima – rito e catechesi, Edizioni O.R.,
Milano, 1986)
Potremmo fare cenno ad altri difetti riguardanti il sacramento della
cresima, ad esempio la separazione della Cresima dal battesimo, dimenticando
che quello che non può applicarsi alla cresima di un adulto, non dovrebbe
venir attribuito alla cresima di un fanciullo. E qual è la prassi prevista
per l’iniziazione cristiana di un adulto? E quale il rapporto tra la cresima
e gli altri sacramenti: ordinazione e matrimonio?
Un secondo difetto, messo in rilievo dal liturgista Padre Rinaldo Falsini,
che seguo in queste osservazioni, consiste in una teologia del sacramento
di tipo efficientista ed individualista, chiusa alla dimensione simbolica.
Mi spiego. Non dovremmo chiedere ai nostri ragazzi: “Che cosa mi dona la
cresima? Cosa ricevo?”, ma piuttosto: “Quale evento salvifico viene celebrato?
Che cosa significa per il singolo e per la Chiesa l’azione sacramentale che
compio per il singolo e per la Chiesa? Che cosa rappresenta per la mia vita
di credente?”. Trattandosi poi di un sacramento dell’iniziazione, la cresima
deve essere collocata più nel quadro dell’iniziazione e mantenuta in stretto
rapporto con gli altri due sacramenti del battesimo e dell’eucaristia.
4.5 Il vero volto
dell’iniziazione cristiana
È in questo spirito di profonda serenità e, insieme, di instancabile coraggio,
che dobbiamo tutti impegnarci per assicurare, il più possibile, all'iniziazione
cristiana quella "qualità" che è richiesta dalla grandezza e
bellezza del dono di Dio e dalla serietà della libera risposta dell'uomo.
Ciò comporta di riprendere i nostri impegni abituali e comuni, puntando
a ottenere di più di quanto di fatto si ottiene, e, nello stesso tempo,
di aprirci, con sapienza e coraggio, ad alcune “sperimentazioni innovative”.
Dobbiamo far sì che l'iniziazione cristiana realizzi il suo vero volto. Così
lo descrive il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Diventare cristiano
richiede, fin dal tempo degli Apostoli, un cammino e una iniziazione con
diverse tappe. Questo itinerario può essere percorso rapidamente o lentamente.
Dovrà in ogni caso comportare alcuni elementi essenziali: l'annunzio della
Parola, l'accoglienza del Vangelo che provoca una conversione, la professione
di fede, il Battesimo, l'effusione dello Spirito Santo, l'accesso alla Comunione
euca-ristica» (n. 1229). L'iniziazione, poi, continua nel tempo della "mistagogia",
cioè nel tempo di una più piena e fruttuosa "intelligenza dei misteri" attraverso
la partecipazione ai Sacramenti e all'esperienza della vita cristiana.
Gradualità di un cammino a tappe
Impegniamoci
per una iniziazione cristiana distesa e articolata in un arco di tempo, che
vede l'accompagnamento delle persone nelle tappe della preparazione, della
celebrazione e della prosecuzione. L'iniziazione cristiana è sì "iniziazione" -
e, dunque, una introduzione -, ma questa è ordinata alla partecipazione
all'esperienza di vita che è propria della comunità cristiana, giungendo
così al suo "compimento".
È da attuarsi una "conversione culturale e pastorale", che superi
e abbandoni la concezione, piuttosto diffusa, dell'iniziazione cristiana
semplicemente come preparazione e istruzione per ricevere i Sacramenti.
Impegniamoci per una iniziazione cristiana globale e unitaria nei suoi contenuti.
Il cammino di fede, che è la ragione stessa dell'iniziazione cristiana, è
vero e autentico solo se rispetta e favorisce la "triade indivisa e
indivisibile" della fede stessa. Questa, per sua natura, è ascolto della
Parola, incontro con Cristo nei Sacramenti e nella preghiera, obbedienza
al comandamento dell'amore come comandamento che, con la forza dello Spirito
Santo, plasma e provoca la vita nuova del cristiano nella Chiesa e nella
società.
C'è anche qui bisogno di "conversione culturale e pastorale", per
riuscire ad accompagnare e sostenere gli "iniziandi" in rapporto
al loro impegno non solo di catechesi, ma anche di partecipazione
alla vita liturgica, e di preghiera della Chiesa (ad esempio, con la presenza
alla Messa) e di inserimento attivo nell'esperienza di carità e di condivisione
della comunità cristiana (ad esempio, con la partecipazione a iniziative
di servizio e volontariato e alla vita dell'oratorio o di altre realtà o
gruppi ecclesiali).
Questa "totalità unificata" dà a ciascun contenuto della fede di
ritrovare non solo la propria specifica "verità", ma anche la propria
feconda "unità" con gli altri contenuti della fede stessa.
Le esigenze della globalità
In tal senso, ad esempio, ci si deve impegnare affinché la catechesi non
tradisca il suo primario e irrinunciabile compito di trasmettere e spiegare
la verità della fede, senza cadere, per questo, in forme indebite di mera
istruzione scolastica. In realtà e nello stesso tempo, la catechesi, facendo
risplendere la sua tipicità cristiana, è chiamata ad aprire e a introdurre
all'incontro vivo con Gesù Cristo nella preghiera e nelle celebrazioni
liturgiche. E’ chiamata, ancora, a favorire e a far sperimentare un effettivo
inserimento nella vita di comunione e di carità della comunità cristiana,
nella sua concretezza e quotidianità. Quanto qui esemplificato per la catechesi
va detto, ovviamente, anche della preghiera e delle celebrazioni liturgiche,
come pure della condivisione della vita della Chiesa e della testimonianza
di carità.
Tutto questo può e deve essere favorito anche mediante la valorizzazione
di alcuni "luoghi' e "strumenti" concreti di vita ecclesiale,
opportunamente aggiornati e rilanciati, nei quali si possa meglio sperimentare
questa osmosi e unità tra catechesi, liturgia e carità. Ci riferiamo, in
primo luogo, a quanto già avviene, per i ragazzi e gli adolescenti, con gli
oratori una volta attivi nelle nostre parrocchie, con i centri giovanili
e parrocchiali, e con altre significative esperienze di vita associativa
e/o di gruppo, ad esempio, nell’Azione Cattolica, nei movimenti ecclesiali,
nei gruppi di preghiera, nello scoutismo e nelle realtà sportive a carattere
educativo. Nello stesso tempo, occorre che esperienze di questo tipo si realizzino
e si diffondano maggiormente anche per i giovani e gli adulti.
Impegniamoci per una iniziazione cristiana attenta alle diverse persone:
alla loro età, alle loro condizioni di cammino verso la fede, alla loro individualità.
La diversità di età tra fanciulli, ragazzi, adolescenti, giovani e adulti
esige che, come già avviene, si continui a proporre itinerari differenziati,
adatti a ciascuna di queste età.
Le condizioni di cammino verso la fede, che oggi forse giungono a maturazione
in modo più lento e faticoso, chiedono maggior pazienza nell'introdurre e
accompagnare e, insieme, impegno più grande e gravoso nello svolgere, riprendere
e approfondire il lavoro educativo. Esigono anche un supplemento di saggezza
e di coraggio, da parte di tutti i responsabili e anzitutto dei presbiteri,
nel giudicare e nel decidere, secondo verità e carità, in merito all'ammissione
o meno ai Sacramenti. (Tettamanzi, pag. 130-133).
4.6 Attenzione alla singola persona
L'attenzione alla singola persona,doverosamente coniugata con la considerazione
obiettiva delle condizioni di ciascuna nel suo cammino verso la fede, esige
che i tempi del cammino e i momenti dell'ammissione ai Sacramenti non siano
stabiliti semplicemente, e tanto meno esclusivamente, in base al criterio
dell'appartenenza a un gruppo o a una classe. Occorre, invece, che questi
tempi e momenti siano precisati con una considerazione più personalizzata,
guidata da criteri autorevolmente indicati dal Vescovo e condivisi tra
tutti, non certo lasciati alla sola discrezionalità o, peggio, arbitrarietà
del singolo presbitero.
La stessa attenzione alla singola persona chiede di riservare una specifica
cura anche ai fanciulli e ragazzi che presentano difficoltà di apprendimento,
di comportamento e di comunicazione, come possono essere, ad esempio, coloro
che si trovano in particolari condizioni di "disabilità" fisica
e/o psichica e di disagio sociale (cfr. Consiglio permanente della CEI, Iniziazione
cristiana. 2. Orientamenti per l'iniziazione cristiana dei fanciulli
e dei ragazzi dai 7 ai 14 anni, 58-59).
4.7 Sacramenti come cattedrali
nel deserto
Riconosciamolo con lealtà: i sacramenti dell’iniziazione sembrano essere
cattedrali nel deserto; battesimo nei primi mesi di vita, comunione a otto
anni, cresima a quattordici-quindici.
E di mezzo tra un sacramento e l’altro? E dopo la cresima?
Non è un rimedio, ma solo un palliativo quello di posticipare di qualche
anno l’età della cresima. Può essere utile per aiutare i ragazzi ad avere
maggiore consapevolezza del gesto della cresima, ma più importante è prevedere
un cammino di accompagnamento.
Sacramenti come cattedrali nel deserto? O come piloni sui quali non corre
il nastro stradale, quindi di nessun senso, di nessuna utilità?
Il vero problema è quello della continuità, del legame tra un sacramento
e l’altro, del contesto in cui questi gesti si collocano. Occorre rinnovare
l’impegno di seguire in modo appropriato, non soffocante, ma personalizzato,
il crescere del ragazzo.
Il cardinale Martini avanzava una proposta precisa, non so quanto realistica
e praticabile, ma certo coraggiosa ed innovativa, volta a valorizzare quella
che dovrebbe essere la funzione dei padrini.
Dice di non educare genericamente il ragazzo, ma di “assegnare a ogni ragazzo,
a ogni ragazza, momentaneamente un educatore o un’educatrice che ne siano
responsabili per il periodo di preparazione e nel dopocresima”.
Ed avverte anche che “l’educazione dell’adolescente e del preadolescente
non è un problema della Chiesa, ma di tutta la società. Per questo occorre
entrare in dialogo con l’opinione pubblica, interpellare la scuola, le società
sportive, gli enti e le istituzioni che hanno impegni educativi per realizzare
iniziative su basi allargate di paese e di regione”.
Importante è non abbandonare i ragazzi, non lasciarli soli, non disinteressarsi
di loro. Oggi più di ieri.
Scopo di questa nostra riflessione è quello di porci con chiarezza il problema;
di non rassegnarci alla fuga e al deserto; di impegnarci a trovare nuove
strategie di intervento; di voler sentire come prioritario un problema dal
quale dipende il futuro del cristianesimo nel nostro paese.
4.8 Spazi per un
cammino cristiano concreto
Una volta si chiamavano oratori, oggi chiamiamoli come vogliamo: punto d’incontro;
centri giovanili; spazi aperti, ma dobbiamo far rivivere strutture di attenzione
e servizio per i ragazzi. Nella nostra realtà di organizzazione parrocchiale
polverizzata non è pensabile che in ogni singola parrocchia ci siano strutture
per i ragazzi preadolescenti, adolescenti e giovani, ma in ogni zona pastorale
è necessario far sorgere strutture che si interessino dell’accompagnamento
delle nuove generazioni.
Perché?
Queste strutture devono diventare lo strumento educativo
privilegiato per dare un’educazione cristiana ai ragazzi, agli adolescenti
e ai giovani. Nell’impegno della “evangelizzazione dei piccoli” esse devono
divenire espressioni rilevanti. Non hanno bisogno di giustificare la loro
presenza, tanto è evidente a tutti la necessità di fare vivere la pastorale
giovanile, perché svolga la sua missione educativa a favore della nostra
gioventù.
Come?
Il requisito preliminare perché queste strutture operino
con sapienza e con efficacia è quello di avere un presbitero come riferimento,
che prepari un progetto educativo e descriva le tappe indispensabili di un
itinerario umano e cristiano da proporre ai ragazzi e ai giovani per la loro
maturità umana e cristiana, per un inserimento responsabile nella comunità
adulta con l’assunzione dei corrispondenti impegni ecclesiali e sociali.
Per questo occorre consolidare il progetto e l’attività con tutte le associazioni
ed i movimenti già presenti ed operanti in diocesi. Ma è importante avere
strutture nelle quali ragazzi e giovani siano i protagonisti.
Per chi?
Poiché questi centri non sono né associazione, né movimento, è indispensabile che garantiscano questa loro destinazione universale, ma con proposte e iniziative concrete.
Con chi?
Queste strutture devono prevedere la presenza animatrice
degli adulti (preti, assistenti, religiose, famiglie, educatori e collaboratori
veri).
La loro presenza, qualificata e costante, normalmente è condizione di continuità.
Per questo è urgente suscitare e riconoscere vocazioni laicali al “ministero
educativo”, preoccupandoci di avere una cura particolarissima per la formazione
degli educatori, continuando l’azione già intrapresa dalla nostra pastorale
giovanile. Abbiamo bisogno di formare veri animatori e guide dell’esperienza
cristiana e attenti sostenitori di rapporti con le fondamentali realtà del
territorio.
4.9 Alcuni punti fermi
Riassumendo le riflessioni svolte in questo capitolo, dobbiamo ricordare:
Solo tenendo presenti questi punti, realizzeremo quella “conversione culturale
e pastorale”, di cui tutti sentiamo l’urgenza e che ci richiede di mettere
la persona, cuore della pastorale, al centro delle attenzioni e degli interessi.
Durante il Convegno di Verona della Chiesa italiana tre parole sono risuonate
come una triade indivisibile: comunione, corresponsabilità, collaborazione.
Esse delineano il volto di comunità cristiane che procedono insieme, con
uno stile che valorizza ogni risorsa e ogni sensibilità, in un clima di
fraternità e di dialogo, di franchezza nello scambio e di mitezza nella
ricerca di ciò che corrisponde al bene della comunità intera.
(Nota pastorale dell’Episcopato italiano 2007. N. 23).