I grandi temi della morale
1. La grandezza della nostra fede
2. Fede e morale. La fede come «via»
3. Il contenuto morale della fede
I
grandi temi della morale
«Quando negli anni ottanta-novanta andavo in Germania, mi si chiedevano
delle interviste, e sempre sapevo già in anticipo le domande. Si
trattava dell’ordinazione delle donne, della contraccezione, dell’aborto
e di altri problemi come questi che ritornano in continuazione. Se
noi ci lasciamo tirare dentro queste discussioni, allora si identifica
la Chiesa con alcuni comandamenti o divieti e noi facciamo la figura
di moralisti con alcune convinzioni un po’ fuori moda, e la vera
grandezza della fede non appare minimamente. Perciò ritengo cosa
fondamentale mettere sempre di nuovo in rilievo la grandezza della
nostra fede – un impegno dal quale non dobbiamo permettere che ci
distolgano simili situazioni». Così il Santo Padre Benedetto XVI,
impostando il discorso conclusivo nell’incontro con i Vescovi svizzeri
a chiusura della loro Visita ad limina. Nelle ultime battute
di tale allocuzione si trova il riferimento ai grandi temi della
morale. Per comprendere dunque i grandi temi della morale e la risposta
che ad essi fornisce la Chiesa, non si può non partire dalla grandezza
della nostra fede.
1. La grandezza della nostra fede
Sulla grandezza della nostra fede, Papa Benedetto si è
intrattenuto di continuo nei colloqui con l’Episcopato elvetico,
procedendo «a braccio» e con la sua consueta straordinaria lucidità
intellettuale. Anche in questo volume si è avuto modo di ritornarvi
a più riprese. Nel corso del viaggio in Baviera del settembre 2006,
aveva descritto così la grandezza della nostra fede: «La
fede è semplice. Crediamo in Dio; in Dio, principio e fine della
vita umana. In quel Dio che entra in relazione con noi esseri umani,
che è la nostra origine e il nostro futuro. Così la fede, contemporaneamente,
è sempre anche speranza, è la certezza che noi abbiamo un futuro
e non cadremo nel vuoto. E la fede è amore, perché l’amore di Dio
vuole ‘contagiarci’. Questa è la prima cosa: noi semplicemente crediamo
in Dio, e questo porta con sé anche la speranza e l’amore. Come seconda
cosa possiamo constatare: il Credo non è un insieme di sentenze,
non è una teoria. È, appunto, ancorato all’evento del Battesimo,
a un evento d’incontro tra Dio e l’uomo. Dio, nel mistero del Battesimo,
si china sull’uomo; ci viene incontro e in questo modo ci avvicina
gli uni agli altri. Perché il Battesimo significa che Gesù Cristo,
per così dire, ci adotta come suoi fratelli e sorelle, accogliendoci
con ciò come figli nella famiglia di Dio. In questo modo fa quindi
di tutti noi una grande famiglia nella comunità universale della
Chiesa. Sì, chi crede non è mai solo» (Omelia nella Messa del 12.IX.06).
Dei numerosi passaggi della Deus caritas est in cui si descrive
nella sua essenza la grandezza della nostra fede, basti
qui riferire il seguente, quello che la caratterizza nella sua insopprimibile
originalità e qualifica personale: «La vera novità del Nuovo Testamento
non sta in nuove idee, ma nella figura stessa di Cristo, che dà carne
e sangue ai concetti – un realismo inaudito… Nella sua morte in croce
si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si
dona per rialzare l’uomo e salvarlo – amore, questo, nella sua forma
più radicale. Lo sguardo rivolto al fianco squarciato di Cristo…
comprende ciò che è stato il punto di partenza di questa Lettera
enciclica: ‘Dio è amore’ (1 Gv 4,8). È lì che questa verità può essere
contemplata… A partire da questo sguardo il cristiano trova la strada
del suo vivere e del suo amare» (n. 12). E nell’Angelus di
inizio Quaresima del 25 febbraio scorso ha aggiunto: «Possa l’umanità
comprendere che soltanto da questa fonte è possibile attingere l’energia
spirituale indispensabile per costruire quella pace e quella felicità
che ogni essere umano va cercando senza sosta».
2. Fede e morale. La fede come «via»
Se la morale è concepita come un insieme di divieti e di obblighi,
di proibizioni e di comandamenti di cui non si comprende più la ragione,
è chiaro che essa diventa triste. Diventa un fardello troppo pesante
da portare di cui non si desidera altro che liberarsi. Ma cosa proibisce
che una tale concezione – e della sua inadeguatezza vedremo
subito il perché – si estenda al patrimonio stesso della fede?
Ecco come l’allora Cardinale Joseph Ratzinger descrive – attraverso
il racconto di un’esperienza personale e toccando con avvedutezza
il tema del presunto potere giustificativo della coscienza erronea –
la radice del problema morale nel dipanarsi dell’esistenza umana.
L’ampiezza della citazione è giustificata dalla sua importanza.
«Fu all’inizio della mia attività accademica che, per la prima volta,
divenni consapevole di tale questione in tutta la sua urgenza. Una
volta, un collega più anziano, cui stava molto a cuore la situazione
dell’essere cristiano nel nostro tempo, nel corso di una discussione,
espresse l’opinione che bisognava davvero esser grati a Dio, per
aver concesso a così tanti uomini di poter essere non credenti in
buona coscienza. Infatti se si fossero loro aperti gli occhi e fossero
divenuti credenti, non sarebbero stati in grado, in un mondo come
il nostro, di portare il peso della fede e dei doveri morali che
ne derivano. Ora invece, dal momento che percorrono un’altra strada
in buona coscienza, possono non di meno raggiungere la salvezza».
La risposta del futuro Papa a questo capzioso ragionamento è immediata
e senza tentennamenti: «Quello che mi sbalordì in quest’affermazione
non fu innanzitutto l’idea di una coscienza erronea concessa da Dio
stesso, per poter salvare con questo stratagemma gli uomini, l’idea,
per così dire, di un accecamento mandato da Dio stesso per la salvezza
delle persone in questione. Ciò che mi turbò fu la concezione che
la fede sia un peso difficile da portare, adatta solo a nature particolarmente
forti: quasi una forma di punizione, e comunque un insieme oneroso
di esigenze cui non è facile far fronte. Secondo tale concezione,
la fede, lungi dal rendere la salvezza più accessibile, la farebbe
più difficile. Dovrebbe essere felice, pertanto, proprio colui cui
non viene addossato l’onere di dover credere e di doversi sottomettere
a quel giogo morale che la fede della Chiesa cattolica comporta.
La coscienza erronea, che consente di vivere una vita più facile
e indica una via più umana, sarebbe dunque la vera grazia, la via
normale alla salvezza. La non verità, il restare lontani dalla verità,
sarebbe per l’uomo meglio della verità. Non è la verità a liberarlo,
anzi egli dovrebbe piuttosto esserne liberato. L’uomo sta a suo agio
più nelle tenebre che nella luce; la fede non è un bel dono del buon
Dio, ma piuttosto una maledizione». Da cui le ulteriori considerazioni
esposte in forma retorico-interrogativa: «Stando così le cose, come
dalla fede potrebbe provenire gioia? Chi potrebbe avere addirittura
il coraggio di trasmettere la fede ad altri? Non sarebbe invece meglio
risparmiar loro questo peso o anche tenerli lontani da esso? Negli
ultimi decenni, concezioni di questo tipo hanno visibilmente paralizzato
lo slancio dell’evangelizzazione: chi intende la fede come un carico
pesante, come un’imposizione di esigenze morali, non può invitare
gli altri a credere; egli preferisce piuttosto lasciarli nella presunta
libertà della loro buona fede». 1
La morale cristiana non può procedere per vie proprie, indipendenti
dalla via della fede. La grandezza della fede indica alla
morale la sua via propria. Si infilerebbe in vicoli ciechi,
se pretendesse di strutturarsi a prescindere dalla grandezza della via della
fede. E la fede vissuta come incontro con Cristo, lungi dall’intristire,
allarga il cuore e la mente. Allarga la ragione. È proprio questo
il magnifico invito rivolto a tutti da Papa Benedetto XVI nel discorso
tenuto all’Università di Regensburg il 12.IX.06: «Il coraggio di
aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza…
È a questo grande logos, a questa vastità della ragione,
che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori».
Riducendo invece, con la cultura soggettivistica moderna generata
dal nominalismo, la morale a legge esteriore, e negando le fondamentali
inclinazioni al vero e al bene della ragione e della volontà umane
(ecco delle strade senza uscita!), si presuppone troppo sovente – tanto
nel senso comune contemporaneo diffuso quanto nella riflessione accademica
dotta – che tra legge e libertà si dia un conflitto radicale
e insanabile. Di fronte ad una libertà concepita come «pura autonomia»
(o, in termini più sofisticati ma non infrequenti, come «creatrice
di valori»), si ergerebbe la pretesa limitante dei comandamenti di
Dio. In una simile concezione, libertà e legge si fronteggiano come
due contendenti in un campo di battaglia, laddove invece per tutta
la tradizione cristiana patristica e medioevale, così come nella
linea di una filosofia a stampo realista rigorosamente sintetizzata
da san Tommaso d’Aquino, proprio alla radice della libertà si incontra
la ragione, naturalmente inclinata al vero, per aderire al quale
la legge funge da guida e sostegno sicuro, così come la grazia soprannaturale
da indispensabile aiuto per la volontà.
Si capisce allora bene perché – per dirla con parole di Papa
Giovanni Paolo II contenute nell’Enciclica Veritatis splendor –
«l’amore e la vita secondo il Vangelo non possono essere pensati
prima di tutto nella forma del precetto, perché ciò che essi domandano
va al di là delle forze dell’uomo: essi sono possibili solo come
frutto di un dono di Dio, che risana e guarisce e trasforma il cuore
dell’uomo per mezzo della sua grazia» (n. 23). Tale risanamento
e tale trasformazione generano una vita nuova, in grado di generare
al suo interno un pensiero nuovo, generato dunque dalla via della
fede. «La fede non è pura teoria; essa è innanzitutto una ‘via’,
cioè una prassi. Le nuove convinzioni che essa offre hanno un contenuto
pratico immediato. La fede include la morale, e ciò vuol dire non
soltanto generici ideali. Essa offre molto di più: delle indicazioni
concrete per la vita umana. Proprio attraverso la loro morale i cristiani
si differenziavano dagli altri nel mondo antico; proprio in tal modo
la loro fede divenne visibile come qualcosa di nuovo, una realtà
inconfondibile. Un cristianesimo che non fosse più un cammino comune,
ma annunciasse ormai solo ideali indistinti, non sarebbe più il cristianesimo
di Gesù Cristo e dei suoi discepoli immediati. È perciò un compito
permanente della Chiesa essere una comunità di vita e mostrare concretamente
la via del retto vivere… La Chiesa, proprio a partire dalla sua natura
più autentica, deve continuamente ‘mostrare la via’. Essa deve rendere
sempre nuovamente visibile il contenuto morale della fede»2
3.
Il contenuto morale della fede
a) Nel discorso conclusivo ai
Vescovi svizzeri il Papa evoca le due grandi parti della morale nelle
quali, ai nostri giorni, essa si è come divisa, risultando, da un
lato, assolutamente disomogenea alla mentalità relativistica corrente
– per ciò che concerne
i temi della difesa della vita dal suo concepimento alla sua morte
naturale e della famiglia monogamica fondata sul matrimonio –
e, dall’altro, ritrovandosi ad essere soggetta a forti riduzioni
ideologiche – per ciò che concerne i temi della pace, della non-violenza,
della giustizia per tutti, della sollecitudine per i poveri e del
rispetto della creazione. Osserva Benedetto XVI a proposito di questo
versante «sociale»: «Questo è diventato un insieme etico che, proprio
come forza politica, ha un grande potere e costituisce per molti
la sostituzione o la successione della religione. In luogo della
religione, che è vista come metafisica e cosa dell’al di là – forse
anche come cosa individualistica – entrano i grandi temi morali
come l’essenziale che poi conferisce all’uomo dignità e lo impegna…
I mezzi che si offrono per la loro soluzione sono poi spesso molto
unilaterali e non sempre credibili…».
Mi tornano alla mente le parole, per molti aspetti profetiche, del
più grande filosofo russo ortodosso di fine Ottocento, Vladimir Soloviev.
In quello che risulterà essere il suo testamento spirituale, Il
racconto dell’Anticristo, scrive quanto segue, presentando «l’uomo
del futuro» – che verrà al culmine della narrazione svelato
nella sua natura reale, enunciata nel titolo del racconto stesso –
e «la preferenza piena di amor proprio, che egli fa di se stesso
nei confronti del Cristo»: «Il Cristo è stato il riformatore dell’umanità,
predicando e manifestando il bene morale nella sua vita, io invece
sono chiamato ad essere il benefattore di questa umanità,
in parte emendata e in parte incorreggibile. Darò a tutti gli uomini
ciò che è loro necessario. Il Cristo, come moralista, ha diviso gli
uomini secondo il bene e il male, mentre io li unirò coi benefici
che sono ugualmente necessari ai buoni e ai cattivi. Sarò il vero
rappresentante di quel Dio che fa sorgere il suo sole e per i buoni
e per i cattivi e distribuisce la pioggia sui giusti e sugli ingiusti.
Il Cristo ha portato la spada, io porterò la pace. Egli ha minacciato
alla terra il terribile ultimo giudizio. Però l’ultimo giudice sarò
io e il mio giudizio non sarà solo un giudizio di giustizia, ma anche
un giudizio di clemenza. Ci sarà anche la giustizia, ma non una giustizia
compensatrice bensì una giustizia distributiva. Opererò una distinzione
fra tutti e a ciascuno darò ciò che gli è necessario». 3
Il potere del mondo, l’Imperatore, proprio per giungere ad esercitare
un dominio assoluto e incontrastato nel suo progetto dia-bolico di
pacificazione, benessere e prosperità universale, ha bisogno del
servigio della Chiesa. Una Chiesa che diventa allora in qualche modo
assistente spirituale e morale del potere per «coprire», senza essere
in grado di salvare realmente, la divisione e la radicale infelicità
dell’uomo.
Il Cardinale Giacomo Biffi, ArciVescovo emerito di Bologna, nel corso
dei recenti Esercizi spirituali predicati al Papa e alla Curia Romana
(lunedì 26 febbraio-sabato 3 marzo 2007), ha trattato anche di Soloviev
e del suo Racconto dell’Anticristo. Ha spiegato con chiarezza:
«L’insegnamento lasciatoci dal grande filosofo russo è che il Cristianesimo
non può essere ridotto ad un insieme di valori. Al centro dell’essere
cristiani c’è infatti l’incontro personale con Gesù Cristo». È proprio
questa riduzione, d’altronde, il «pericolo che i cristiani corrono
nei nostri tempi», perché «il Figlio di Dio non è traducibile in
una serie di buoni progetti omologabili con la mentalità mondana
dominante». «Tutto ciò – ha precisato ancora – non significa
una condanna dei valori, che tuttavia vanno sottoposti ad un attento
discernimento. Ci sono, infatti, valori assoluti come il bene, il
vero, il bello. Chi li percepisce e li ama, ama anche Cristo, anche
se non lo sa, perché Lui è la verità, la bellezza, la giustizia».
E «ci sono valori relativi come la solidarietà, l’amore per la pace
e il rispetto per la natura. Se questi si assolutizzano, sradicandosi
o perfino contrapponendosi all’annuncio del Fatto salvifico, allora
questi valori diventano istigazioni all’idolatria e ostacoli sulla
strada della Salvezza».
La concezione della persona umana che soggiace ai più disparati progetti
sociali e politici è in realtà sempre qualcosa di decisivo e discriminante.
Nel suo messaggio per la Giornata mondiale della pace del
1° gennaio 2007 – dal titolo emblematico: La persona umana,
cuore della pace –, Benedetto XVI osserva che, oggi, «la
pace non è messa in questione solo dal conflitto tra le visioni riduttive
dell’uomo, ossia tra le ideologie. Lo è anche dall’indifferenza
per ciò che costituisce la vera natura dell’uomo. Molti contemporanei
negano, infatti, l’esistenza di una specifica natura umana e rendono
così possibili le più stravaganti interpretazioni dei costitutivi
essenziali dell’essere umano. Anche qui è necessaria la chiarezza:
una visione ‘debole’ della persona, che lasci spazio ad ogni anche
eccentrica concezione, solo apparentemente favorisce la pace. In
realtà impedisce il dialogo autentico ed apre la strada all’intervento
di imposizioni autoritarie, finendo così per lasciare la persona
stessa indifesa e, conseguentemente, facile preda dell’oppressione
e della violenza» (n. 11). Se «Cristo è la nostra pace» (Ef
2,14) e se «in realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova
vera luce il mistero dell’uomo» (Gaudium et spes, 22),
allora non è obiettivamente possibile pensare alla pace – realtà
che il cuore di ogni uomo ardentemente desidera –, così come
a tutti i bisogni costitutivi del desiderio infinito del cuore umano,
prescindendo (o pretendendo di sostituirsi) dall’obiettivo riferimento
a Cristo. È Lui, dunque, la grandezza della nostra fede,
un patrimonio irrinunciabile anche – e proprio – per la
difesa dell’uomo e della sua dignità.
b) «Solo se si rispetta la vita umana dalla concezione fino alla morte,
è possibile e credibile anche l’etica della pace; solo allora la non-violenza
può esprimersi in ogni direzione, solo allora accogliamo veramente la creazione
e solo allora si può giungere alla vera giustizia»: così ancora Benedetto XVI
ai Vescovi svizzeri. Si tratta perciò di «impegnarci per ricollegare queste
due parti della moralità e rendere evidente che esse vanno inseparabilmente
unite tra loro». Senza una corretta nozione di persona umana, che
consenta di riconoscerle i diritti fondamentali come pertinenti per natura all’originalità
assoluta del suo essere – e di cui il diritto alla vita è per evidenti
ragioni il fondamentale in ordine a tutti gli altri –, ogni ulteriore
intrapresa «sociale» o «ecologica» rischia di soggiacere a logiche per lo meno
parziali. A cosa attingere per questo lavoro di ricostruzione, impervio e oggi
così irto di ostacoli? Certamente a ciò che costituisce la grandezza della
nostra fede; certamente a ciò che, «pur tra difficoltà e incertezze, ogni
uomo sinceramente aperto alla verità e al bene, con la luce della ragione e
non senza il segreto influsso della grazia, può arrivare a riconoscere» (Enciclica Evangelium
vitae, 2), vale a dire: la legge naturale scritta nel cuore (cfr.
Rm2,14-15); certamente ad una idea integrale di educazione e ad educatori che
– per dirla sempre con Papa Benedetto, questa volta con parole tratte
dal suo discorso inaugurale ai Vescovi svizzeri –, «formino ad una fede
intelligente, così che fede diventi intelligenza ed intelligenza diventi fede».
Se «la formazione di una coscienza vera, perché fondata
sulla verità, e retta, perché determinata a seguirne i dettami,
senza contraddizioni, senza tradimenti e senza compromessi, è oggi
un’impresa difficile e delicata, ma imprescindibile» 4 ,
«la legge naturale è, in definitiva, il solo valido baluardo contro
l’arbitrio del potere o gli inganni della manipolazione ideologica. 5
È vero che i moralisti moderni hanno in genere insistito molto sul
dovere di sincerità e di lealtà nell’ascolto e nella sequela della
voce della coscienza. Niente di più esatto. San Tommaso, con tutta
la tradizione cristiana precedente, lo domanda con energia non minore;
ma aggiunge sempre – e ciò è invece un po’ più dimenticato –
che, appunto, occorre alla radice un grande amore per la verità
in se stessa. E il problema della verità per la coscienza non
consiste anzitutto nell’essere d’accordo con se stessi, nell’essere
sinceri e semplicemente convinti; si tratta anzitutto ed essenzialmente
di essere in accordo con l’ordine oggettivo delle cose, espresso
nella legge naturale, riflesso, in definitiva, della legge divina
eterna.
c) Nell’ambito dell’impegno per la vita, dunque della sua difesa contro
l’aborto, l’eutanasia, la manipolazione genetica e, nel medesimo contesto,
dell’impegno per la promozione della famiglia fondata sull’indissolubilità
del matrimonio, «il nostro annuncio si scontra con una consapevolezza contraria
della società» – conclude il Papa – «che si appoggia su di una concezione
della libertà vista come facoltà di scegliere autonomamente senza orientamenti
predefiniti». Libertà di scelta, scelte di coscienza, persino scelta di fede.
Senza insistere ora su di essa, vale di sicuro la pena precisare
che l’espressione «scelta di fede» non appartiene al linguaggio tradizionale
della Chiesa, volta invece a qualificare come atto la risposta
dell’uomo al dono divino della fede. La fede come atto è, per esprimerci
con i termini del Catechismo della Chiesa Cattolica, «innanzi
tutto una adesione personale dell’uomo a Dio; al
tempo stesso ed inseparabilmente, è l’assenso libero a tutta
la verità che Dio ha rivelato» (n. 150). Adesione e assenso,
dunque, all’interno della cui dinamica complessiva trova la propria
adeguata collocazione l’atto libero della scelta.
Le formule citate sono ricorrenti ai nostri giorni. La categoria
di scelta ritorna, nella società contemporanea, in qualsiasi
ambito, come un’ossessione. È necessario ricominciare a riflettere
sulla scelta – questo «totem» di fronte al quale tutti
si inchinano riverenti –, sulla natura e le correlazioni di
quello che è senz’altro un fondamentale atto della volontà, senza
necessariamente assumere a priori che sia «ciò prima di
cui non esiste nulla». Perché proprio questo è il nichilismo – il
ritenere che la scelta sia ciò prima di cui non esiste nulla («scegliere
autonomamente senza orientamenti predefiniti», appunto) –, la
filosofia oggi imperante che arriva a pregiudicare la possibilità
stessa di riflettere su cosa la scelta sia, avendo in partenza concluso
che la scelta è la condizione di possibilità stessa dell’esistenza
della realtà.
La scelta della libertà, invece, come l’esperienza quotidiana
della scelta inequivocabilmente attesta, non è an-archica – senza
principio –; si radica invece in un’in-tenzione precedente più
profonda. Si verifica sempre, la scelta, per una ragione.
Tale tensione verso il bene (vero o solo presunto tale)
della propria persona, dunque l’attesa del compimento, è esattamente
la condizione previa necessaria per l’esserci stesso di una scelta
libera. La scelta, sia in rapporto all’intenzione del fine, sia in
rapporto alla sua fruibilità per il bene (vero o solo presunto tale)
della persona, non è «ciò prima di cui non esiste nulla». La libertà
è più della scelta: dalla ragione trae quella dignità specificamente
umana e quell’orientazione al fine che la contraddistingue per natura.
Attraverso l’esercizio della ragione l’uomo partecipa di quella sapienza
che, inscritta nella sua natura personale, egli ha originariamente
ricevuto. Proprio questa è la legge naturale. Praticare
con consapevolezza tale esercizio è la più grande libertà possibile.
Occorre far propria da parte di ciascuno – per concludere –
e nei più diversi ambiti d’esercizio della propria responsabilità
personale, l’indicazione di lavoro offerta da Papa Benedetto quasi
al momento del congedo con i Vescovi svizzeri venuti in visita al
Successore di Pietro: si tratta, da una parte, di «non far apparire
il cristianesimo come semplice moralismo, ma come dono nel quale
ci è donato l’amore che ci sostiene» e, dall’altra, «in questo contesto
di amore donato, progredire anche verso le concretizzazioni», essendo
la fede – come non si è mancato di osservare anche in questo
breve contributo – via alla vita ed avendo la Chiesa
come suo compito imprescindibile quello di mostrare la via del
retto vivere.
Seguire Cristo, che del Mistero eterno che fa tutte le cose ha mostrato
il Volto buono, è allora per la coscienza umana la sfida storica
fondamentale, perché ad essa sia restituito quel posto specifico
– al di là di tutti gli inganni e gli errori possibili –
che la Provvidenza divina le ha assegnato creandola: guidare, col
giudizio della ragione, le decisioni morali, amando il bene e rifuggendo
il male. E come la fede in Cristo esalta la coscienza nella sua dignità
assoluta, così la coscienza non compie la tensione alla verità che
per natura la caratterizza se non consegnandosi a Colui che, solo,
avendola creata, le si è fatto incontro per compierla. Dio ha all’inizio
dei tempi dotato l’uomo della luce naturale della coscienza per guidare
secondo il bene le decisioni morali che sarebbe stato chiamato a
prendere; gli ha poi definitivamente fornito, «nella pienezza dei
tempi», la risposta su ciò che è bene e su ciò che è male per la
vita nella Persona del suo Figlio incarnato, «Legge vivente e personale»
(Enciclica Veritatis splendor, 15) di un’esistenza umana
integralmente compiuta.
Davvero il cristianesimo è dato all’uomo «come sintesi di fede
e ragione»! E «forse la più bella e concisa espressione di questa
nuova sintesi cristiana si trova in una professione di fede della Prima
Lettera di Giovanni: ‘Noi abbiamo creduto all’amore’ (1 Gv 4,16).
Per queste persone Cristo era diventato la scoperta dell’amore creatore,
la ragione dell’universo si era rivelata come amore, come quella
razionalità più grande che accoglie in sé e risana anche quanto è
oscuro e irrazionale».6 «Volgeranno», perciò, «lo sguardo
a Colui che hanno trafitto» (Gv 19,37), perché, «in verità, solo
l’amore in cui si uniscono il dono gratuito di sé e il desiderio
appassionato di reciprocità infonde un’ebbrezza che rende leggeri
i sacrifici più pesanti».7
1 J. Ratzinger, Coscienza
e verità, in: Id., La Chiesa. Una comunità sempre
in cammino, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1991,
pp. 115-116.
2 J. Ratzinger, La
via della fede. Le ragioni dell’etica nell’epoca presente,
Edizioni Ares, Milano 1996, pp. 81-82.
3 V. Soloviev, I
tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo, Edizioni Marietti,
Genova 19962, pp. 169-170.
4 Benedetto XVI, Udienza
ai partecipanti all’Assemblea generale della Pontificia Accademia
per la Vita, 24.II.07.
5 Benedetto XVI, Udienza
ai partecipanti al Congresso internazionale sul Diritto naturale
promosso dalla Pontificia Università Lateranense, 12.II.07.
6 J. Ratzinger, Fede,
Verità, Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo,
Edizioni Cantagalli, Siena 2005, pp. 162-163.
7 Benedetto XVI, Messaggio
per la Quaresima 2007, 21.XI.06.
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