Dal
Ticino al Giubileo dei diaconi col Papa
Nel
frastuono del Giubileo
un incontro incancellabile
Di Dante Balbo
Viaggio in superficie
Le opinioni
si dividono e, come si dice di consueto almeno due o tre volte per notiziario,
è subito scoppiata la polemica. Non era ancora stato inaugurato l’Anno Santo,
che già si discuteva sull’opportunità o meno di un pellegrinaggio a Roma.
"E’ uno spreco, un insulto alla miseria, una manifestazione trionfalistica
della Chiesa, una ghiotta occasione per rimpolpare le casse dell’industria turistica
ecc."
E’ un’occasione unica, un momento storico, una manifestazione d’unità della
Chiesa, una testimonianza d’unità e di revisione di vita, un modo per coniugare
intelligentemente turismo e ricerca del senso e dei valori della vita.
In mezzo a questo coro alterno non sapevo con chi stare, perché ragioni ce n’erano
da tutte e due le parti e ad aumentare la mia perplessità c’era l’allergia che
ho generalmente per le manifestazioni dove siano coinvolte più di un centinaio
di persone.
E’ in questo clima che un amico mi dice se non voglio unirmi a lui per celebrare
il "giubileo dei diaconi permanenti".
"Si tratta di una toccata e fuga, si parte il venerdì sera e la domenica
siamo di ritorno." Insiste lui e, vuoi perché amico mio, vuoi perché era
un’occasione di evasione dalla routine, finisco per accettare, non senza perplessità
e con la sensazione che probabilmente la cosa che avrei apprezzato di più nella
città eterna sarebbero stati i "maritozzi alla panna" e il caffè italiano.
Non ero certo irriverente, ma, a mio giudizio, realista. Sono diacono e apprezzo
il pellegrinaggio, ma, un conto è la teoria o la pratica dei pellegrini che
attraversavano a piedi le Alpi o salutavano definitivamente la famiglia per
percorrere le centinaia o migliaia di chilometri che li separavano dalla Cattedra
di Pietro nei secoli passati, altra cosa è un salto a Roma in Pendolino, albergo
prenotato, souvenir inclusi, con momento spirituale immerso in una folla di
migliaia di persone, di un uomo tecnologico del 21esimo secolo.
Al centro del silenzio, l’uomo
Ed eccomi qui, confuso e balbettante, mentre la sala intorno si è fatta
silenzio di brusio leggero, svanita in un mondo lontano, come nei sogni.
Eppure poco prima eravamo tre quattromila persone.
Sono in ginocchio, davanti ad un uomo seduto.
La sua mano è più ferma di quanto dicano le cronache della stanchezza. Si posa
sulla mia fronte e mi benedice, mentre riesco a dire qualcosa come Svizzera
... Lugano ... arrivederci.
Intorno aleggia un profumo di acqua di colonia, delicato, come portano certi
anziani.
La sua voce è lontana, come provenisse da una storia di duemila anni.
"Da dove venite?"
"Dalla Svizzera" ripeto io quasi automaticamente, senza badare troppo
alle mie parole. E’ un momento troppo importante e ogni spreco mi sembra una
bestemmia. Devo fissare il suo ricordo, i suoi calzoni di lana, la sua mano
grande, il suo sguardo che si percepisce sulla pelle come un tocco.
"Da dove venite?"
Mi sono portato la mia terra, la mia famiglia, le persone che amo, tutto qui,
in un momento breve come sono gli istanti di Paradiso che possiamo sperimentare
sulla terra.
È un uomo come me, eppure ha contribuito a cambiare la storia. E’ un
operaio polacco, che ha attraversato il regime comunista con il coraggio della
fede che non disprezza gli uomini e non sopporta le ideologie che li rinchiudono
nei lager o li strumentalizzano al servizio del capitale.
È lui che ha benedetto il mio matrimonio nel sacerdote che lo ha celebrato;
lui che per mezzo del mio Vescovo mi ha consacrato diacono.
Sono l’ultimo dei pellegrini cui, per strane circostanze che sarebbe lungo narrare,
è stato concesso di incontrarlo. Il Santo Padre si alza, mentre dalla folla
dei convenuti nell’aula Paolo VI, piove un applauso, scrosciante.
Sono tornato nel mondo.
Ma il suo profumo mi segue, il senso di calore ed impatto della sua mano benedicente
mi accompagnano per tutto il giorno e il giorno seguente, mentre cammino per
la città, visito chiese, partecipo a celebrazioni, mi confesso e recito i vespri
del pellegrino.
"Da dove venite?" E un ponte si è stabilito, un legame in cui la nostra
casa si è fusa con quella di tutti coloro che sono qui a Roma.
Compriamo cartoline e ridiamo, mangiamo, ci raccontiamo le emozioni del giorno;
giochiamo a carte, inseguiamo un treno troppo in anticipo, per noi che siamo
in ritardo; chiacchieriamo con una suora e scegliamo una stella di plastica
che, lanciata, diventa una palla colorata per i nostri bambini; ma tutto è diverso,
tutto ha un altro sapore, il sapore di un incontro con la storia.
Il ritorno, per spalancare le porte allo stupore
Sono a letto, la domenica sera. Mia moglie accanto a me, respira piano di un
sonno rassicurato dall’avermi di nuovo a casa.
Cerco di fare ordine nel groviglio di pensieri che mi attraversano la mente.
Ero partito per una gita, o quasi, e sono tornato da un ritiro spirituale di
intensità inaudita.
Credevo di trovare confusione e ho vissuto momenti di pace profonda; non mi
aspettavo nulla di più di un bel weekend d’amicizia con i due diaconi venuti
con me e ho ricevuto il dono di un incontro straordinario.
Pensavo che il pellegrinaggio fosse un retaggio storico e scopro che è una condizione
della vita di ognuno.
La razionalità lascia il posto alla gratitudine per un Dio che ha voluto che
la logica che regolasse il mondo fosse quella dell’incarnazione.
L’inesprimibile, quel divino che non si può non intravedere nella realtà che
ti sorprende, nella storia che ti supera, ha scelto la strada dell’umanizzazione,
della confusione con la nostra pochezza, con il nostro bisogno di segni, di
mani, di profumi, di sguardi.
Lo straordinario incontro con il Santo Padre, non è speciale solo perché ho
potuto toccare con mano un uomo che indubbiamente è fuori del comune, ma perché
ho intuito in quell’incontro il valore del segno.
Nella paradossale pretesa di condensare nella stessa persona l’unità della Chiesa
e la fragilità di un anziano, se accolta, si scopre tutto il valore della realtà.
Il divino e l’umano si intrecciano allora nella storia, nella storia di papi
e di contadini, di chiese e di baracche, nel canto delle mondine che si accontentavano
di amori ubriachi e nel respiro mistico del Coro Ortodosso di S.Pietroburgo.
Tutto diventa segno, unità ineffabile di terra e cielo e, dentro il segno, il
pellegrinaggio.
Pellegrinaggio di segno in segno, di incontro in incontro, di scelta in scelta.
Tornare sempre a Gerusalemme, la città delle origini, del tempio ove riposa
il nome del Signore, per poi partire per Gerusalemme, la città santa, la sposa
che scenderà dal cielo, non ancora donata eppure già qui.
E tutto questo non si può fare in testa, né leggendo un articolo, ma vivendolo
concretamente, magari viaggiando fino in Cattedrale per abbracciare il nostro
Vescovo, altrettanto provato e amante dei suoi figli al contempo.
Tutto si scioglie, nel canto sommesso di un sonno quieto, mentre penso a domani.
Incontrerò una collega con le mani grandi, che non scriverà mai un’Enciclica
e ha faticato a tirar grande un figlio, da sola.
Se riuscirò a fare un pellegrinaggio verso di lei, forse lo stesso profumo d’acqua
di colonia si spanderà leggero come una benedizione.