Ma
guarda che bel dramma!
Quando la solidarietà sui mass media diventa
un inganno
Di Giovanni Pellegri
Non
ci sono mai stati tanti programmi di "solidarietà" come in questi
anni: sui quotidiani troviamo gare di solidarietà per salvare i bambini vittime
delle guerre, la TV e la radio celebrano il coraggio dei volontari oppure la
generosità dei donatori. Il portatore di handicap, con le sue patologie, è da
svariati anni al centro di una non stop di raccolta di fondi, le tombole e i
giochi a premi fanno più audience se il ricavato è devoluto ai più sfortunati,
l’AIDS è combattuta a suon di fiocchi rossi puntati alle camicette e ai colletti
di migliaia di persone, persino le star del rock o del cinema cantano e recitano
per gli ultimi. Ecco la nuova solidarietà: cuore e sentimenti formato business
e spettacolo.
La solidarietà è entrata nel mondo dello spettacolo con emissioni televisive È un tentativo di promozione della solidarietà oppure è una forma di spettacolo? La solidarietà può diventare spettacolo?
C’è chi sostiene che va benissimo parlare di povertà, fame e miseria tra gli artificiali sorrisi delle presentatrici che propongono tra un dramma e l’altro la promozione di un detersivo oppure del cibo per gatti. L’alternativa sarebbe di non parlarne affatto.
Ma
esistono due differenti tipi di messaggi. Il primo consiste nella divulgazione
di un progetto, al fine di raccogliere dei fondi. In questo caso anche lo show
televisivo è lecito, anzi utile poiché, trenta secondi di promozione all’interno
di un varietà guardato da milioni di persone equivalgono, dal punto di vista
della diffusione di un’informazione, a migliaia di conferenze in gruppi parrocchiali
e missionari. Il secondo tipo di messaggio, invece, non mira solo alla raccolta
di fondi ma cerca di fornire alcuni strumenti per una presa di coscienza dei
gesti solidali, in altre parole promuove un'educazione alla solidarietà. In
questi casi, lo spettacolo è un insulto alla sofferenza e alla miseria degli
uomini e banalizza il concetto di solidarietà. La promozione di una società
più solidale non può quindi utilizzare solo gli spazi già esistenti ma deve
poter sviluppare un suo specifico per non cadere nell’umanitario-spettacolo.
Per dar voce a chi non ne ha
I media sono un’opportunità per la solidarietà
perché l’informazione "coincide con un elemento fondamentale della democrazia.
In assenza di informazioni uno è più povero, e più povero significa che è più
soggetto agli altri. In assenza della possibilità di comunicare uno è più povero
perché non può trasmettere se stesso, non può dar notizia agli altri dei propri
valori e in qualche modo è più isolato" 1. Ma non basta dar voce agli
ultimi, un’informazione volta a promuovere un mondo più solidale offre occasioni
di riflessioni, strumenti di analisi, affinché il dar voce a chi non ne ha permetta
di creare un dialogo e una maggiore comprensione della problematica. Paradossalmente
un dar voce generico, inserito in gare di solidarietà, dove ad attirare le attenzioni
del pubblico non sono le situazioni di ingiustizia, fame o miseria, ma l’aumento
del montepremi e il raggiungimento di nuovi record di donazioni, non danno voce
a nessuno, anzi mettono a tacere tutti. La miseria di milioni di persone viene
soffocata sotto il peso dei soldi raccolti e alimenta in noi la certezza che
un mondo più solidale può essere comperato grazie alla nostra generosità.
L’affamato, l’andicappato e il malato:
vendono bene
Le attenzioni giornalistiche collegate alle problematiche
umanitarie o sociali rientrano in una logica disarmante: una spruzzatina di
drammi del mondo non guasta mai, interessa e fa audience. L’approfondimento,
invece, è possibile solo quando l’umanitario assume dimensioni bibliche o finisce
sulla cronaca nera distorcendo così la realtà. Un esempio: quando l’Africa finisce
in TV è per veicolare immagini di bambini con il ventre gonfio, uomini che brandiscono
un macete, donne analfabete e sottomesse. Come farebbero senza di noi?
Non
è possibile passare dai volti sofferenti in TV di un popolo che muore di fame,
al primo piano del fiocco rosa appeso alla gabbia di un elefantino nato in cattività.
Le cronache dal Terzo Mondo, suscitano emozioni, commuovono il pubblico allo
stesso modo di due occhi grandi di un cucciolo di foca o del tenero passo di
un elefantino appena nato. Questo è solo spettacolo, un tocco esotico che i
diversi da noi ci regalano. Italo Calvino nelle sue Lezioni Americane scriveva:
"Gran parte di questa nuvola di immagini si dissolve immediatamente
come i sogni che non lasciano traccia nella memoria, ma non si dissolve una
sensazione di estraneità e di disagio. Ma forse l’inconsistenza non è nelle
immagini o nel linguaggio soltanto: è nel mondo... rende tutte le storie informi,
causali, confuse, senza principio né fine".
La solidarietà in TV: utile o strappalacrime?
La povertà deve scioccare, sconvolgere, non è
ammesso un silenzioso e raccolto sentimento di rispetto verso la sofferenza.
In un campo profughi vogliamo vedere bambini spaventati, sofferenti, senza giocattoli,
non persone che, nonostante le drammatiche situazioni combattono e vivono con
dignità la loro dura realtà. Ci accontentiamo di appagare la nostra curiosità
con delle immagini senza fare uno sforzo per capire l’origine di quello che
vediamo.
La solidarietà scatta su un principio semplice: dobbiamo vedere il dramma con i nostri occhi. Ma occorre fare i conti con il mercato. Il dramma infatti dal punto di vista mediatico durerà solo pochi giorni, di conseguenza le immagini devono essere accuratamente selezionate, secondo la sensibilità e le aspettative del pubblico. Così, un armeno sotto le macerie della propria casa sconvolgerà di più di un iraniano, al primo presteremo le nostre premurose attenzioni, mentre al secondo, vittima di un identico terremoto, passerà nella quasi totale indifferenza. È quanto è realmente successo con i devastanti sismi avvenuti a poche settimane di distanza in Armenia e in Iran.
Non bisogna infatti dimenticare un’altra regola della solidarietà business, "Non più di un dramma alla volta" . Il principio dell’innocenza della popolazione colpita da un dramma è un terzo fattore scatenante la nostra solidarietà. Siamo più sensibili agli armeni, rispetto agli iraniani perché quest’ultimi generano il fantasma collettivo del fondamentalista islamico che mette le bombe nei mercati.
In
presenza di questi ingredienti, si aggiungono un po’ di immagini stereotipate
della povertà e della miseria e con la dovuta semplificazione della problematica
nasceranno le nostre forme di aiuto più o meno inutili: paracaduteremo sui campi
profughi tonnellate di giocattoli che i nostri figli non adoperano, oppure andremo
al concerto rock in favore degli affamati con il sentimento che abbiamo contribuito,
nel nostro piccolo, alla risoluzione del dramma. In seguito il problema svanirà
nel nulla e non lascerà più traccia né sui giornali né alla TV.
Morire sterminati mentre il pianeta canta
We are the world
Rony Brauman, presidente di "Médecins sans
frontières" dal 1982 al 1994, descrive molto bene gli ingredienti indispensabili
per trasformare un dramma in spettacolo2. Rony Brauman ricorda a questo proposito
i fatti successi in Etiopia nel 1984. La fame faceva strage e i media sollevarono
un’immensa ondata di solidarietà. Nessuno si domandava la causa di una situazione
simile, tutti celebravano il successo di un’operazione di salvataggio che ha
permesso di raccogliere tonnellate di viveri e medicinali trasportandole nelle
aree colpite dalla carestia. Pochi capirono che lo spostamento di centinaia
di migliaia di uomini provocato dalla fame, era un’arma nelle mani di un governo
che cercava di sterminare migliaia di persone. Paradossale il fatto che proprio
lo stesso governo etiope fu elogiato per la modalità in cui affrontò la crisi,
convogliando i disperati verso i centri di distribuzione degli aiuti. In questi
luoghi, centinaia di migliaia di persone furono rapite dalla milizia, separate
dai famigliari e deportate al sud del Paese. "In una passività complice
e quasi generale, più di 700’000 persone furono rapite in pochi mesi sotto gli
occhi di coloro che venivano per aiutarle. Almeno 200’000 (...) sono morte,
mentre tutto il pianeta si inteneriva davanti alla propria generosità, cantando
We are the world" 3. Siamo il mondo cantavamo, ma quello descritto
da Todd Gitlin: "Un mondo in cui le guerre tra alcuni sono uno spettacolo
per altri" 4.
È
insito nella natura umana, siamo convinti che un fatto sia reale perché l’abbiamo
visto con i nostri occhi, purtroppo il mezzo televisivo è virtuale come tanti
altri e di conseguenza non può esistere la notizia oggettiva. "Esiste
al contrario la manipolazione della realtà perché assuma forma di notizia"
come affermato da Paolo Brivio 5. Molte manipolazioni non sono nemmeno disoneste,
sono solo un tentativo soggettivo di lettura di una realtà, interpretata in
maniera errata o semplicemente semplificata.
Dal patologico al reale: un impegno per
i comunicatori
La televisione guardata distrattamente oppure
utilizzata come strumento formativo plasma le nostre scelte, gli orientamenti
culturali e educa i nostri giudizi. Così ci viene mostrato un mondo fatto di
luoghi comuni che noi assimiliamo come reale.
Ecco perché chi desidera veicolare un messaggio, dalla vendita di un detersivo alla promozione di una società più solidale, non può sfuggire dalla "galassia dei media" e dovrà familiarizzarsi con queste tecniche elaborando strategie di comunicazione.
Daniele La Barbera, della Facoltà di Medicina di Palermo (Cattedra di Psicoterapia), non esita a definire questi atteggiamenti come infantili e patologici e aggiunge "In una dimensione temporale che privilegia il consumo dall’esperienza, piuttosto che il suo vissuto profondo e che tende a dilatarsi sempre di più nel presente, tutto passa molto in fretta ed è cancellato completamente, sia nella vita del singolo, sia in quella delle mode, dei gusti delle ideologia. Nella civiltà dell’effimero e della non permanenza, svuotata di ideali e dominata dal desiderio, sarà allora indispensabile trovare nuovi modi e nuovi canali per risignificare la relazione umana, l’incontro, il valore della storia e del passato (...). Sarà fondamentale il recupero di una dimensione simbolica che restituisca alla vita senso, scopi, consapevolezza e tensione morale, che riscopra il senso del vivere e del morire all’interno di un universo simbolico e che apprezzi assieme al senso del limite, il rapporto ineludibile tra gioia e dolore come indispensabile elemento maturativo della personalità umana." 6
Trovare
nuovi modi e nuovi canali non significa spegnere internet e la TV ma cercare,
proprio con questi strumenti, di veicolare messaggi che sappiamo ricondurci
ad una vita reale. Nell’introduzione di un interessante libro edito dalla Piemme7
, Geraldo Fazzini affermava che "oggi non possiamo più permetterci il
lusso di chiederci se i mass media servano o meno alla causa della solidarietà.
Il fatto è che nella civiltà della comunicazione ci siamo immersi fino al collo.
Con tutte le conseguenze del caso." Il flusso delle informazioni diretto
ai giovani, garantito fino a vent’anni fa dalla scuola, dalla famiglia e dalla
Chiesa oggi è assicurato dai mezzi di comunicazione. Per gli adulti, i mass
media sono una delle poche vie informative e formative, quindi la questione
non è se i mass media siano buoni o cattivi, ma semmai è come utilizzarli in
modo intelligente.
Solidarietà: quando l’altro ha qualcosa
da dire
Per promuovere la solidarietà non è sufficiente
mettere una telecamera in faccia a chi non ha voce o un microfono che amplifica
l’urlo della miseria umana. Le immagini stereotipate degli show televisivi,
il ragazzo in carrozzella, le donne africane con il seno prosciugato che cercano
di allattare il bimbo affamato, sono una forma di spettacolo che attira l’attenzione
per un meccanismo più vicino al voyeurismo che alla solidarietà. Questa è una
forma di "carità" che zittisce tutti, la voce dei disperati e la nostra
coscienza.
I responsabili dell’informazione non possono nascondere la verità del mondo. E l’evangelico "ditelo sui tetti " si deve trasformare in ditelo nei microfoni davanti alle telecamere, sulla pagina Web, in radio e sui giornali. E chi ascolta ha il dovere di ricercare la verità, sondando il reale.
Dar voce significa creare le condizioni affinché ci sia un vero ascolto, e soprattutto un confronto, perché le parole dell'altro entrando nelle case di tutti possano essere un incontro di nuove realtà, pensieri e culture
A questo proposito diceva Mons. Bello: "Il marocchino, il tossicodipendente, l’altro in genere, non sono solo destinatari della nostra esuberanza oblativa. Sono soggetti che hanno da darci anche loro qualcosa".
È appunto la dimensione del riconoscimento della libertà e del valore dell’altro, come persona unica, che permette di aumentare la solidarietà che va oltre la spettacolarizzazione del diverso o la donazione di soldi. La solidarietà oltrepassa tutto questo e i media sono una occasione per comunicarlo.
Note:
1.
Piero Scaramucci, Educarsi a comunicare. Il posto degli ultimi nei mass media,
convegno organizzato dalla Caritas Ambrosiana il 30 maggio 1992, citato in "Come
tradurre la solidarietà nei mass media", di Gerolamo Fazzini; Mass Media
e solidarietà ed. Piemme (1995).
2. Rony Brauman e René Backmann, Les médias et l’humanitaire, ethique de
l’information ou charité-spectacle. Ed CFPJ, 1996
3. Rony Brauman, La pitié dangereuse, in "Les médias et l’humanitaire"
(p. 41), Ed CFPJ, 1996
4. Todd Gitlin, La tv e la falsa coscienza globale, in Reset (luglio
- agosto 1995) citato in "Dal villaggio globale al pianeta solidale"
di Gerolamo Fazzini - Mass media e solidarietà, ed. Piemme 1995
5. Paolo Brivio, Nella Galassia dei media, in Mass media e solidarietà,
ed. Piemme 1995
6. Daniele La Barbera, Il vaso di Pandora della civiltà digitale: nuovi media,
nuovo disagio? Ott.1998 in Psychiatry on line (POL.it) Indirizzo web: www.priory.co.uk/ital/riviste/bolletino/barbera.htm
7. Mass media e solidarietà, a cura di Gerolamo Fazzini, Ed. Piemme 1995