Di Giovanni Pellegri
Il
lavoro va anche inventato, non bastano due braccia o le competenze professionali.
Il mercato chiede, come elemento nuovo e sempre più prioritario, delle competenze
personali. Meglio un operaio senza formazione ma che ci “mette del suo”, con
un’umanità viva, attento alle persone e alle cose, che un operaio con formazione
ma che offre sole due braccia. Il lavoro oggi deve investire ancor di più
la vita e la vita deve investire il lavoro. Per capire il nuovo mondo del
lavoro, abbiamo chiesto a Sergio Montorfani, capoufficio cantonale del lavoro,
Christian Marazzi, economista e Martino Rossi, direttore della Divisione dell’azione
sociale, di aiutarci a leggere i cambiamenti in corso.
Sergio Montorfani: “Il lavoro non finirà mai”
D.:
Qualche anno fa tutti dicevano che la disoccupazione era di natura strutturale,
cioè dovuta ad una profonda riorganizzazione del mondo del lavoro, e non congiunturale
cioè dovuta ad una crisi passeggera dell’economia. Oggi la disoccupazione
è fortemente diminuita, non trovi che sono state smentite queste analisi?
R.:
Durante la crisi si pensava che questa disoccupazione fosse dovuta soprattutto
a motivi strutturali e non congiunturali. Oggi possiamo dire che in realtà
erano motivi essenzialmente congiunturali, tanto è vero che con la ripresa,
la disoccupazione è stata in gran parte riassorbita. Ma non è nemmeno sbagliato
affermare che vi sono state delle componenti “strutturali”, in quanto in questi
anni il mercato del lavoro è cambiato molto. Il mercato attuale, malgrado
che sia statisticamente in termini di disoccupazione simile a quello che avevamo
nel ’91, è ben diverso. Per certe fasce professionali, il lavoro è molto più
precario, molto più improntato sul temporaneo, sul lavoro ad interim, ecc.
Quindi c’è del vero in tutte due le versioni.
D.:
In Ticino intere generazioni hanno educato i propri figli al posto di lavoro
sicuro vicino a casa, possibilmente statale. Come possiamo far interagire
i frutti di questa mentalità con un mondo del lavoro completamente cambiato?
R.:
È utile essere realisti e costatare che c’è stato un cambiamento e che, soprattutto
per i posti statali e quelli parastatali come poste, ferrovie e telecomunicazioni,
i cambiamenti sono molto radicali con risvolti a livello contrattuale. Evidentemente
chi ha vissuto per tanti anni con questo tipo di sicurezza di rapporto di
lavoro, si trova spiazzato. Capire a chi dare la colpa non è molto utile.
Ognuno troverà sicuramente qualcuno a cui dare la colpa: al mercato, agli
azionisti, ai sindacati, a chi si vuole. Però l’importante è rendersi conto
che il lavoro sta cambiando, e che non possiamo fermare questa evoluzione
che tocca il Ticino, come la Svizzera e il mondo intero.
Le
riflessioni che vanno fatte devono coinvolgere le singole persone, non solo
a livello statistico. E’ chiaro che se una persona non si rende conto che
è richiesto un cambiamento o se non vuole approfittare al massimo delle opportunità
che vengono offerte dalle aziende, rischierà, dopo due o tre anni di percorso
di reinserimento, di trovarsi ancora fuori dal mercato. So bene che non è
facile, soprattutto per chi ha lavorato per tanti anni in un’azienda convinto
che il suo lavoro, il suo destino fosse solo quello. Però se non avviene questo
salto personale, se una persona non si gioca in modo convinto, rischierà di
trovarsi ben presto al margine del mercato o costretto a una maggiore precarietà,
cercando soluzioni verso vicoli cechi quali l’assistenza o l’assicurazione
invalidità.
Bisogna
quindi essere molto realisti, reagire, sapere che comunque tutti abbiamo qualcosa
da dare sul mercato del lavoro.
D.:
Il lavoro sta cambiando non solo come concetto economico ma forse ancor di
più ad un livello di significato. Ma non trovi che davanti ad una società
diseducata al lavoro il problema sia innanzitutto culturale?
R.:
Il lavoro dovrebbe essere una condizione normale per vivere, per diventare
uomini, per contribuire alla crescita personale, ma anche sociale. La maggior
parte delle persone lavora con questo spirito. Quindi non subiscono il lavoro,
ma lo vivono come la loro condizione per partecipare alla società. Se invece
pensiamo ad alcuni giovani che vivono il lavoro con fastidio, come se fosse
una pena da passare per poter vivere la vita in altro modo, si scontreranno
sempre con la realtà, con la realtà che ti dice che comunque ognuno è chiamato
a dare il proprio contributo, secondo le proprie possibilità e che viene anche
remunerato in base a queste possibilità, in termini di soldi, ma anche in
termini di soddisfazione e di riuscita. Se non si capisce che la nostra vita
è fatta soprattutto di questo e che in questo modo diamo un contributo alla
nostra società, allora ci troveremo sempre in difficoltà con il mondo, non
solo del lavoro, ma con il mondo della società tout court.
D.:
Il lavoro allora non sta finendo?
R.:
C’è anche chi teorizza la fine del lavoro, lasciamoglielo fare. Io non credo
che il lavoro finirà mai, semplicemente il lavoro cambia. Il concetto del
lavoro salariato, come lo abbiamo vissuto in questi ultimi decenni, forse
nell’ultimo secolo, evidentemente cambia e sta diventando sempre di più un
lavoro dalle molte facce. In parte sarà salariato, in parte sarà indipendente,
in parte sarà anche considerato lavoro quello che noi diamo per la società,
parliamo anche di volontariato, o di contributo all’interno della propria
famiglia. Sono tutti ambiti che non sono mai stati quantificati a sufficienza,
anche se fanno parte del lavoro che ogni persona è chiamato a dare durante
la sua vita. Il concetto di lavoro è molto più ampio e non finirà mai, perché
non si può vivere senza lavorare.
D.:
Dopo un periodo di forte disoccupazione, improvvisamente tutto riparte apparentemente
come prima. Cosa è successo all’economia svizzera?
R.:
Dopo anni di disoccupazione, il tasso è diminuito perché in realtà è cambiato
proprio il modo di lavorare, il lavoro si è molto flessibilizzato e la stessa
domanda di competenze, di qualifiche professionali, si è rivelata alla fine
degli anni 90, molto meno costrittiva di quanto si credeva. Si è quindi passati
dalla disoccupazione a un concetto nuovo di mercato del lavoro che sta prendendo
sempre più piede, trasformando i tassi di disoccupazione elevati ad un tasso
di precarietà che ovviamente non conosce ancora degli indicatori tali da poterlo
misurare. Recentemente sono stati pubblicati i dati relativi alla domanda
di mano d’opera qualificata in Svizzera: rispetto a 10 anni fa, è diminuita
di molto. Questo è un indice di trasformazione, significa che si sta facendo
ricorso al bacino di forza lavoro precaria e all’esternalizzazione di funzioni
lavorative. Qualche anno fa le stesse persone che oggi si ritrovano in forme
di freelance o di lavoratori indipendenti, erano parte dell’organico delle
imprese. La disoccupazione quindi
si è rovesciata nella precarietà. Una
parte importante della popolazione attiva è stata costretta a piegarsi alle
nuove esigenze dell’economia di mercato. Per esempio ad adeguarsi e accettare
dei salari più bassi. Questo era un obiettivo prioritario importante, più
importante di altre motivazioni, come quelle che affermavano che la trasformazione
in corso, era una ristrutturazione del modello economico che andava nella
direzione di un aumento delle esigenze dal punto di vista della qualifica
e della formazione. Non si spiegherebbe altrimenti il passaggio da una situazione
nella quale si affermava di non avere sufficienti impiegati qualificati, a
una situazione nella quale sembrerebbe che tutte le persone precedentemente
disoccupate, si ritrovino in un qualche modo riassorbite nel circuito produttivo.
Purtroppo questo conferma una legge che sembra ormai eterna: l’uso della disoccupazione
proprio per ridurre il costo del lavoro.
D.:
Quale tipo di qualifica professionale è richiesta da questo nuovo modo di
lavorare?
R.:
Più che qualifica professionale si richiede competenza, nel senso di una crescente
adattabilità, flessibilità, capacità di spostarsi da una situazione non solo
lavorativa, ma anche esistenziale. Il concetto nuovo è proprio la priorità
delle competenze di tipo extra lavorativo, piuttosto che le qualifiche e le
specializzazioni professionali. In un mercato del lavoro che è continuamente
sollecitato e costretto a rinnovarsi, le qualifiche professionali sono a volte
delle camicie un po’ strette.
D.:
Per non essere tagliati fuori bisogna quindi giocarsi con tutte le risorse
a disposizione, anche quelle personali che normalmente non figurano sui curriculum
vitae?
R.: Direi di sì, la polivalenza, la versatilità sono delle parole chiave nei kit della nuova forza lavoro flessibile. E queste sono competenze che spesso si acquisiscono in ambito extra lavorativo, magari facendo attività di volontariato, attività politica, attività culturali, di vicinato o di prossimità. Queste sono qualità sempre più richieste dai datori di lavoro. Le imprese infatti devono respirare con il mercato, devono recepire anche le più minute modificazioni dell’atmosfera, del clima, delle domande e dei bisogni dei consumatori, le imprese, in un certo senso, stanno cercando una maggiore osmosi proprio con la sfera della vita.
R.:
L’impiego globalmente non è aumentato di molto, però si è frazionato. I tempi
parziali sono in forte crescita nel Cantone Ticino, quindi due persone che
non ritroviamo più in disoccupazione, sono per esempio diventati due occupati
a metà tempo, quindi un solo posto di lavoro al 100% ma occupato da due persone.
D.:
Ma è sufficiente per spiegare la scomparsa di migliaia di disoccupati?
R.:
Molti fattori concorrono. C’è anche una parte di disoccupati che arriva in
assistenza. Però non è una parte maggioritaria. Un’altra parte di disoccupati
finiscono in altri ambiti di sostegno sociale come l’assicurazione invalidità,
ci sono poi delle persone che usufruiscono e beneficiano delle reti di solidarietà
primaria.
Il
numero di persone per economia domestica che ha un’attività lavorativa diminuisce,
quelli che riescono a conservarla o ritrovarla, provvedono poi anche al sostegno
degli altri. Quindi esiste una rete tradizionale primaria di solidarietà,
oltre che la solidarietà pubblica che può spiegare il fatto che nonostante
la situazione non sia ancora rosea, non siamo in presenza, credo, di fenomeni
dirompenti di emarginazione sociale evidente.
D.:
Per quanto riguarda il sostegno per le persone disoccupate in assistenza come
proseguono i programmi di inserimento?
R.:
Si è potuti passare da 40 programmi nel 1997 a quasi 400 nel 1999. Ricordiamo
che il Cantone Ticino ha circa 150mila occupati ordinari nella sua economia
privata e pubblica e quindi si tratta di una frazione molto ridotta della
popolazione, che non ha altrimenti possibilità di attivarsi in un ruolo produttivo
soddisfacente. Grazie a questi programmi le persone possono ritrovare proprio
equilibrio personale e contribuire, sia pure in misura modesta, alla produzione
di valore reale, di utilità e talvolta anche di valori di scambio.
C’è
un certo numero di persone per le quali questo programma di inserimento professionale
è una tappa intermedia verso una riacquisizione di quelle competenze, di quella
disciplina anche lavorativa, che permette di trovare un posto di lavoro non
più sovvenzionato, un posto di lavoro normale. Bisogna pur ammettere che per
una parte delle persone in età avanzata, magari con una salute cagionevole,
da molto tempo emarginate dai ritmi produttivi usuali, la collocabilità nel
mercato del lavoro ordinario è problematica. Tuttavia il senso che rimane
di queste iniziative è proprio quello di poter ottenere il meglio che è possibile
ottenere da queste persone. Non sono persone inutili, non sono persone che
rappresentano un peso per la società, sono delle persone che desiderano e
possono contribuire anch’esse, sia pure con potenzialità limitate, al benessere
comune oltre che a ottenere situazioni di maggior benessere personale per
loro stessi.
D.:
Un tentativo per far viaggiare su binari paralleli sociale ed economia?
R.:
Direi di sì. Effettivamente l’economia segue delle regole che sono sempre
più aspre dal punto di vista della competizione nazionale ed internazionale,
tuttavia nella nostra società ci sono dei bisogni, come quelli ecologici o
sociali, che le aziende che operano sulla base di criteri di mercato, talvolta
trascurano. Quindi si tratta di far incontrare dei bisogni insoddisfatti e
delle capacità produttive, magari ridotte ma reali, che sono inutilizzate
e che possono invece essere valorizzate.