Non lasciamo soli i bambini della Sierra Leone


Di Marco Fantoni

 

 

Abbiamo parlato spesso di bambini sfruttati, nel lavoro minorile, oppure come “merce” per rimpolpare gli eserciti nazionali o di gruppi paramilitari, o semplicemente nella presentazione dei nostri progetti di sostegno a favore dell’infanzia. Questi bambini e bambine si ritrovano con un’infanzia derubata, con un passato da dimenticare, un presente da sopravvivere ed un futuro che ha poche prospettive. Spesso chi passa da questo inferno non ha futuro, o se l’avrà, sarà sicuramente in salita.

Anche in queste pagine, vogliamo tornare sul problema dei bambini soldato, o meglio dei bambini ex soldato. Lo spunto ce lo suggerisce l’ultima iniziativa della COOPI - Cooperazione Internazionale, una delle più grandi ONG italiane. Di essa abbiamo già parlato sull’ultimo numero della nostra rivista proponendo la campagna “Un volto per la vita” a favore delle donne sfigurate del Bangladesh.

Ora COOPI, che continua con il progetto in Bangladesh, si propone con l’iniziativa “Non lasciamoli soli i bambini della Sierra Leone”. Gli obiettivi di questo intervento ce li ha esposti Ennio Miccoli, responsabile progetti della COOPI, che abbiamo incontrato lo scorso 21 ottobre a Milano, proprio durante una giornata organizzata dall’ONG italiana per lanciare quest’iniziativa:

In Sierra Leone siamo presenti da più di 30 anni e ci siamo occupati di tanti progetti, soprattutto di sviluppo. Negli ultimi anni, a seguito della guerra civile, siamo stati costretti anche a rioccuparci di emergenza. Uno degli aspetti sui quali siamo molto impegnati in questo periodo è il problema dei bambini ex soldato, bambini che per anni hanno vissuto nella foresta, bambini che hanno ucciso, che hanno tantissimi problemi, che hanno una grande difficoltà a reinserirsi nella vita normale, nella vita di tutti i giorni. Noi interveniamo per cercare di capire quanto sia possibile un reinserimento di questi bambini. Sicuramente ci troviamo davanti ad una generazione probabilmente persa, una generazione che per tanti anni ha vissuto nella foresta, ha commesso tante violenze e ne è anche stata vittima. Il recupero di questi bambini non è facile, però siamo impegnati a cercare di recuperarli. Il problema della Sierra Leone non è solamente dei bambini soldato, è un problema di un paese che  non ha più futuro e quindi il nostro impegno è soprattutto per cercare di creare delle condizioni per dare un futuro a questo paese e dare un futuro alla sua popolazione.

 

E come intendete farlo?

Siamo impegnati con interventi a favore dei bambini ex soldato, stiamo iniziando tutta una serie di interventi, di progetti per cercare di avviare delle attività di sviluppo, delle attività in campo sanitario, in campo agricolo, in campo educativo. Stiamo, ad esempio, riaprendo alcune scuole che da anni oramai erano chiuse. Questo fatto di riaprire delle scuole in alcuni villaggi, dà sicuramente maggiore speranza, dà un futuro alla gente, alla popolazione.

 

Intravvedete, grazie anche alla vostra trentennale esperienza, dei risultati nel vostro lavoro?

Sicuramente lavorare con i bambini è un intervento, un progetto estremamente entusiasmante. Quando arrivano nei nostri centri, sono impauriti, violenti, bambini che si sentono dei “superman”, dunque il loro recupero è difficile e delicato. Però vediamo che col passare del tempo, col passare delle settimane, questi bambini recuperano tutto quello che sono stati costretti a dimenticare, cioè di essere bambini, di essere adolescenti, di dover giocare, di avere un certo tipo d’interesse e questo sicuramente ci dà grande speranza, ci conforta nel nostro lavoro che è un lavoro estremamente difficile e duro. In termini di speranza, per quanto riguarda la gente, essa vuole la pace, vuole cercare di ritornare ad un discorso di normalità e quindi, il lavorare con loro ci porta a migliorare, a portare avanti delle situazioni che sino ad alcuni mesi fa erano assolutamente impensabili ad avere una soluzione e qualsiasi miglioramento.

 

In che modo operate per riabilitare questi bambini?

Attualmente abbiamo un’equipe di personale specializzato, non solo italiano. Con noi lavorano anche dei volontari francesi, inglesi, personale molto qualificato, molto specializzato proprio per poter intervenire al meglio sui problemi, sulle necessità dei bambini. Stiamo però facendo, da un anno a questa parte, un lavoro molto importante di formazione di personale locale che in qualche modo aiuta e soprattutto diventa protagonista per il recupero dei bambini. Quindi, personale locale che in futuro sarà sicuramente importante per continuare l’attività e incidere sempre maggiormente sul recupero di queste situazioni di trauma, sia per quanto riguarda i bambini, sia per quanto riguarda gli adulti.

 

Quali fattori negativi incontrate nel vostro operato in Sierra Leone?

Le dinamiche negative sono tante. La Sierra Leone è un paese, ma si può dire che non esiste. Dopo quasi 10 anni di guerra, la classe politica non esiste, è una classe politica che è stata praticamente inventata, quindi, a livello politico, a livello amministrativo, non si ha nessun referente ed è una grossa difficoltà  poter intervenire. C’è poi tutto un problema internazionale sulla Sierra Leone, ci sono grandi appetiti in termini di equilibri geo-politici e anche e soprattutto in termini di risorse economiche. La Sierra Leone, non dimentichiamolo, ha tantissime miniere di diamanti è un paese con delle risorse petrolifere non indifferenti, quindi ci sono tanti paesi, tante potenze interessate. Sicuramente non sono interessate ad una Sierra Leone libera, democratica, che cresce, sono sicuramente interessate a mantenere, forse a migliorare un pochino la situazione, però neanche tanto, perché fino a quando la situazione rimane difficile e complicata come adesso, probabilmente è anche più facile poter utilizzare e sfruttare il Paese.

 

All’interno di questa situazione, che rispecchia anche altre simili del continente africano, pensate di riuscire a raggiungere gli obiettivi che vi siete prefissi?

Noi ci siamo prefissi due obiettivi;  intervenire per dare delle risposte concrete alle sofferenze della gente, dai bambini, dalle donne, dagli uomini che vivono in Sierra Leone. L’altro è quello di far conoscere in Europa e in Italia i problemi della nazione. È per questo che siamo molto impegnati in attività d’informazione, in attività che portano a far conoscere le problematiche, tutto quello che c’è dietro al problema Sierra Leone. Credo che questi sono i due nostri grandi obiettivi sui quali vogliamo misurarci.

 

Un grosso impegno dunque quello della COOPI, una grossa scommessa per dirla con il suo presidente Padre Vincenzo Barbieri che nella presentazione del progetto, sulla speciale pubblicazione, riporta anche alcune testimonianze di bambini. Bambini che hanno visto tutto. Hanno visto i padri massacrati, le madri stuprate e uccise. Hanno visto dare fuoco alle case con dentro le persone. Hanno visto i ribelli ridere e gridare spargendo distruzione e terrore. Molti sono stati rapiti e condotti nella foresta, i più piccoli come schiavi, i più grandi e forti arruolati come soldati. Sono stati minacciati, drogati, plagiati e infine, addestrati all’orrore.

E sono cresciuti così: nella giungla, nella guerra, nella confusione dei valori, nell’annientamento affettivo, psicologico e morale.

La Sierra Leone ha una storia simile a quella di altri Paesi del continente africano. Una terra con molte risorse naturali, tra cui quei diamanti che attraggono multinazionali estere che provocano lotte sottobanco, ma neanche poi tanto e che permettono ai vari potenti del Paese di gestirlo con corruzioni e il non rispetto dei diritti umani. Così il Paese si trova in guerra dal 1991, dove i ribelli, nel tentativo di destabilizzare il governo, saccheggiano villaggi prendendo i bambini rendendoli schiavi e soldati.

Vi proponiamo due brevi testimonianze di bambini vittime, riportate da COOPI nella sua pubblicazione:

 

“Sono stato catturato dai ribelli, che mi hanno costretto a diventare un combattente. Mi hanno insegnato ad usare il mitra e la pistola e a fare attacchi ed ammazzare molte persone. Prima degli attacchi, mi facevano fumare o mi iniettavano droghe, poi mi facevano discorsi sui militari che dovevo ammazzare”.
Idrisa, 14 anni

 

“Mi hanno portato via insieme a mia sorella e per mesi siamo stati insieme. Siccome evamo piccoli, non ci hanno obbligati a fare i soldati, ma dovevamo occuparci del campo, prendere l’acqua, la legna, lavare i vestiti… Era molto duro. Poi, un giorno, mia sorella l’hanno portata via e io non l’ho più vista. Nella foresta, piangevo sempre. Loro erano davvero cattivi, si drogavano, bevevano alcool e hanno ucciso un sacco di gente davanti ai miei occhi”.
Moses, 6 anni

 

Davanti a queste testimonianze, possiamo immaginare il difficile lavoro di recupero a favore di questi bambini, sotto tutti i punti di vista, da quello psicologico a quello educativo e morale.

L’intervento mira dunque all’accoglienza, all’assistenza ed al reinserimento di questi bambini che sono rifiutati dalla società e spesso dalla loro stessa famiglia.

I bambini, che arrivano con i camion a Freetown, con ancora nella mente il loro passato, vengono registrati e ricevono un primo controllo medico e psicologico ed i generi di prima necessità. La COOPI attorno a Freetown ha quattro centri d’accoglienza dove i bambini si fermano fino al ritrovamento della loro famiglia.

In particolare, uno di questi quattro centri, in collaborazione con una ONG locale dei missionari Saveriani, ospita, per periodi più lunghi, coloro per i quali non si è riusciti a trovare i parenti. I bambini sono mandati a scuola o inseriti in corsi professionali e svolgono attività ricreative. Un altro centro è finalizzato all’accoglienza delle ragazze madri che durante il loro rapimento hanno subito violenze. In questa casa possono vivere con i loro figli ed hanno la possibilità d’imparare una professione in modo da facilitare il loro reinserimento nella società.

I dati del lavoro svolto da COOPI risalenti a prima dell’estate, dimostrano come sono stati riunificati 2500 bambini, di cui 2200 nella famiglia d’origine e 300 in famiglie adottive. I bambini riunificati assistiti, 1250 e le bambine assistite vittime di abusi 500.

Oltre ai consueti canali per sostenere questo progetto, che può essere sostenuto anche attraverso Caritas Ticino, la COOPI prevede in collaborazione con il Laboratorio di Teatro Mascherenere, una rappresentazione dal titolo “Un po’ come Idriss”. Un teatro di Leonardo Gazzola che vuole attirare l’attenzione sulla guerra in Sierra Leone. Si tratta di una rappresentazione con tre personaggi, due africani ed un italiano che con un linguaggio intenso ed ironico, mescolano narrazione africane, musica, scene visive e cabaret. La storia è incentrata su Adamasay, una bambina rapita dai ribelli, costretta a diventare un guerriero invicibile. Una proposta diversa dalle solite che può avvicinare tutti al problema ed al sostegno dell’iniziativa.