Chi me lo fa fare?

 

Di Dante Balbo



Il professor Graziano Martignoni, psichiatra, psicoanalista, uomo di cultura che non ha bisogno di presentazioni, ha voluto condividere con noi qualche idea sul volontariato e sul volontario, invitato dalla Unitas, Associazione Ciechi e Ipovedenti della Svizzera italiana, ad una giornata di formazione per i volontari il 15 giugno scorso, nella suggestiva cornice della cima del monte Tamaro, all’ombra della chiesa edificata dall’architetto Botta.

Abbiamo parlato di questo argomento con il professor Martignoni in un’intervista che ha rilasciato a Caritas Insieme, andata in onda il 30 giugno 2001. E’ emersa una prospettiva interessante e gli abbiamo chiesto di sintetizzare la sua posizione per le pagine della nostra rivista. Ecco il risultato.

 

 

Volontari, combattenti e curanti

 

Volontario è un termine che ci rimanda con la memoria alla prima guerra mondiale, quando migliaia di giovani partirono per il fronte, volontari, appunto, per difendere la Patria.

Ma in quella stessa grande guerra volontari erano anche coloro che si occupavano dei perdenti, dei feriti, di coloro che avevano bisogno di cure.

Entrambi avevano in comune la passione, l’ideale, lo slancio verso una meta difficile, ma anche l’altro versante di questa parola greca, la condivisione delle sofferenze, il con-patire.

Anche oggi il volontario “soldato” è chiamato ad una guerra, la battaglia per cambiare il mondo, per affrontare il disagio alla radice, mantenendo questa unità fra compassione solidale con l’altro e ideale di rinnovamento per una società intera più umana.

 

 

Pre-occupati

 

Prima del fare, di ogni atto concreto di aiuto all’altro sta la preoccupazione, cioè quel lavoro preliminare che mi permette di prendermi cura dell’altro.

La dimensione della cura, essenziale nel volontariato, non riguarda le cose da fare, le diverse possibilità di agire a seconda del bisogno a cui ci rivolgeremo, ma quel processo che mi porta verso l’altro e che distingue il volontario dal filantropo o dall’indifferente, le due facce della stessa terribile illusione di onnipotenza.

Questo lavoro, che precede l’azione, consiste nella scoperta che l’altro è dentro di me, che aiutare lui, significa accettare di fare parte del medesimo destino. E’ la fragilità umana, apparentemente il nostro più grave handicap, che si mostra invece essere la nostra forza, il motore che ci mette insieme, che ci fa scoprire fratelli.

La croce è metafora dell’esistenza, qui evocata per il suo valore di patrimonio culturale, dalla quale possiamo partire per il nostro pellegrinaggio alla scoperta delle ragioni per un volontariato degno di questo nome.

 

 

Eloi, Eloi, lamma sabactani!” la prima stazione: l’abbandono

 

Nel grido del Crocifisso, si ritrova una corrente di esistenze che attraversa la storia, con la forza di innumerevoli testimonianze che ci dicono la nostra condizione di abbandono.

Simone Weil ebbe a scrivere un giorno: “se Dio non li abbandona (gli uomini), infatti, essi non esisterebbero. La sua presenza li priverebbe dell’essere stesso, come una farfalla bruciata da una fiamma troppo potente.

Si potrebbe spaziare dal tremila avanti Cristo fino al nostro tempo e si scoprirebbero mille espressioni di questo tormento che agita il cuore dell’uomo, perché tocca una delle dimensioni più profonde della sua anima, la solitudine che si accompagna all’abbandono.

Così ne scrive Rainer Maria Rilke, nella prima elegia udinese:

Se io gridassi, chi udrebbe mai dalle sfere degli angeli? E seppur d’un tratto uno mi stringesse al suo cuore, perirei della sua più forte esistenza. Ogni angelo è tremendo.”

Quante volte anche nella nostra esperienza abbiamo invocato gli angeli e abbiamo trovato il cielo vuoto.

 

 

Implacabilmente soli: seconda stazione

 

L’abbandono porta inevitabilmente con sé la solitudine, l’altra stazione nera del nostro percorso, implacabile, senza apparente scampo, che ci consegna il quadro della nostra esistenza, in cui fin dall’inizio siamo soli.

Nasciamo soli, moriamo soli, nel dolore siamo soli, anche se abbiamo accanto qualcuno, ma addirittura nella gioia siamo come feriti da una sensazione di transitorietà, di volatilità di quei momenti felici, da non riuscire mai a goderli a pieno.

L’incertezza della vita è la casa, non la causa della solitudine.

E’ questa incertezza che ci ricorda, al di là di ogni illusione che non siamo padroni di nulla, tanto meno del mondo, in cui, semmai siamo ospiti.

Ma è da questa condizione esistenziale e psicologica che nascono i fiori bellissimi dell’amicizia, dell’amore e della cura dell’altro, fino alla ricerca di stare insieme.

Se non fossimo soli, se sapessimo in fondo al cuore di essere abbandonati, saremmo paghi delle nostre letizie, bastevoli a noi stessi.

I volontari prima di chiamarsi così, erano fratelli, nelle confraternite, accogliendo questa fratellanza di destino, tragico nella sua essenza, ma capace di generare solidarietà autentica.

 

 

La solitudine accompagnata: terza stazione

 

Vi sono tre vie per affrontare la solitudine esistenziale di cui stiamo parlando:

la rassegnazione, disperata e disperante, senza scampo e via d’uscita;

la fuga nel fare, nel correre senza mai tempo, per non vedere, per non sentire, per non dover soffrire. Si racconta in una storia Iddisch che vi era un villaggio in cui la gente si prendeva così tanto tempo che diceva di “Bagnarsi nel tempo”: un’altra vita rispetto all’epoca dei palmari o dei millisecondi risparmiati con un computer più potente.

Infine, la solidarietà, che in francese singolarmente offre delle assonanze alla solitudine, (solitarie, solitario, solidarie, solidale).

La solitudine,  nutrita dalla presenza dell’altro in cui mi ritrovo, che riconosco fratello in questa condizione umana, diventa dunque solidarietà.

Gli angeli, tremendi per la loro esuberanza di vita, diventano umani, compagni di viaggio, come nel libro di Tobia, in cui l’angelo del Signore si mostra come un viandante che si accompagna al giovane Tobia per guidarlo nella sua missione.

L’angelo si chiama Raffaele, che significa Dio cura. La dimensione della cura dunque è possibile quando diventiamo angeli gli uni degli altri, nella quotidianità, nella compagnia di un viaggio, in cui è importante, fondamentale, la reciprocità, riconoscere se stessi nell’altro e andargli incontro per noi stessi, prima ancora che per lui.

 

 

La cura per dialogare con la morte

 

La cura, questo atteggiamento che precede il fare del volontario, porta con sé il manto nero dell’angoscia, ma per dialogare con la sventura, per confrontarsi con il disagio, senza fuggire, senza negarlo.

Ancora una volta ci viene in aiuto la grande letteratura, in particolare un libro scritto da un medico, Luca, in quella pagina magistrale che è la parabola del Samaritano.

C’è un verbo in questo testo, che descrive bene le ragioni che hanno mosso il samaritano verso il malcapitato aggredito dai briganti: in greco “explangnistze”, che significa si mossero le sue viscere.

Prima di ogni ragione teologica, politica, filosofica, di buona cittadinanza, sta dunque la compassione, che non ha nulla  a che fare con la commozione.

Noi siamo facili a commuoverci, ma è più difficile essere compassionevoli, in grado di partecipare realmente alla sofferenza altrui, nella comunione di destino che ci lega all’altro.

Il samaritano ci insegna che la partecipazione alle sofferenze del prossimo non è autentica se gli toglie spazio. Egli infatti, portato il ferito alla locanda, diede dei soldi all’albergatore e se ne andò, senza aspettare un grazie, né tentare di strumentalizzare il suo gesto per ottenere qualcosa dall’altro, fosse anche la conversione religiosa o la gratificazione della riconoscenza.

Compassione e gratuità, dunque, sono elementi essenziali della cura, per evitare tutti i rischi di una solidarietà che altrimenti si fa “pelosa”, radicalmente falsa, anche se piena di gesti e di attività apparentemente generose.

 

 

L’accoglienza beduina e l’ospite nuovo di ieri: quinta stazione

 

Perché la cura sia tale bisogna imparare ad essere ospiti, ospitanti di colui che andiamo a visitare. Questa parola, doppia, in cui l’ospite è sia chi accoglie che chi è accolto, è ricca di senso per il nostro discorso.

Ci viene in aiuto un poeta francese, Edmond Jabes, di origine egiziana, nella cui opera si sente il sapore del deserto.

L’autore francese racconta di un beduino che lo accolse nella sua tenda, invitandolo a bere un tè. Stranamente lo trattava come se non lo conoscesse, anche se lo aveva visto il giorno prima e il giorno prima ancora, avevano già parlato e addirittura fatto affari insieme e bevuto il tè.

Ma questa è l’ospitalità beduina: fingendo di non conoscerlo, l’ospite del deserto, aveva impedito che il loro incontro si trasformasse in un ritrovarsi effimero.

Noi impoveriamo l’idea di ospitalità, convinti di conoscerne bene la geografia, ma essa è una condizione essenziale della vita, un modo che trasforma non solo le relazioni di volontariato, ma anche i rapporti fra marito e moglie, fra genitori e figli, fra medico e paziente.

Porsi nella condizione di accogliere l’altro come atteso sconosciuto, ci aiuta a non banalizzare l’incontro.

Il contrario di questa attesa feconda, di questo incontro sempre nuovo è lo spazio anonimo del caffè, evocato da un altro filosofo, Emanuel Levinas.

Il caffè, infatti, è quel luogo all’altezza della strada, nel quale si entra senza necessità, si beve senza sete, si socializza facilmente, senza impegno, senza reciproca responsabilità.

Il caffè, dice Levinas, è un non luogo, per una società senza solidarietà.

Nulla contro i caffè, naturalmente, che qui sono solo una metafora del non comunicare.

Non ridurre il nostro operare di volontari o semplicemente il nostro incontrarci ad un caffè, significa dunque assomigliare ai beduini, nella novità dell’accoglienza e superare l’anonimato nella responsabilità reciproca di questo rapporto.

 

 

Amico, sii noto e ineffabile a un tempo: ultima stazione

 

Il nostro cammino si conclude riscoprendo una parola ormai in disuso, la fratellanza. Questo termine che preferisco a volontariato, rimanda il tema dell’amicizia.

Amicizia, una parola che contiene in sé un’ambiguità di fondo, perché un amico nel quotidiano è conosciuto, quasi scontato, eppure nella sua perdita è imprendibile, impagabile, riconosciuto per il suo valore più essenziale, che nell’ordinaria successione dei giorni era nascosto sotto il velo della consuetudine.

L’amicizia è come un fiume che scorre lento da un luogo d’origine, che spesso è dimenticato, difficilmente situabile, per accompagnarci e rendere più famigliare questa vita, soprattutto nei momenti più oscuri, senza bisogno di parole. L’amicizia dunque è il segno più evidente di quella che abbiamo chiamato la solitudine accompagnata.

Un amico è fedele, al di là della frequentazione quotidiana, più fedele di un amore.

Nell’amore si sopportano i tradimenti, ma un amico tradito è incapace di perdonare il traditore.

A ragione si è attribuita all’amicizia una funzione curativa, non nello scioglimento dei nodi dell’esistenza, che ad altri chiedono aiuto, ma nella sua capacità di essere presente, senza ambivalenze.

Quattro sono le qualità di questa medicina: la fedeltà, che abbiamo appena evocato;

la continuità, che fa sì che un amico sia stabile dimora per me, al di là del nostro essere vicini;

la gratuità, che impedisce alla solitudine di riarpionarci con l’evidenza di un interesse;

la reciprocità, che ci fa angeli, l’uno dell’altro, senza il tremore di un incombente giudizio.

 

Fedeltà, continuità, gratuità, reciprocità, sono dunque le quattro chiavi che ci aiutano a conservare quell’altro amico dentro di noi, in cui un amico, esterno, può rispecchiarsi ed essere accolto.