Kosovo non solo abitazioni da ricostruire
A cura di Marco Fantoni
Caritas Ticino continua la collaborazione con Caritas Italiana per i progetti all’estero. Parallelamente al progetto di alfabetizzazione in Ruanda, si sta sviluppando un sostegno (ITL 20 mio.) alla situazione in Kosovo per quanto riguarda gli interventi del dopoguerra. In effetti, Caritas Italiana non si è preoccupata solo dell’emergenza, ma sta tuttora lavorando per un ritorno alla normalità. Lo sta facendo in diversi modi. Uno di questi è l’accompagnamento alle diverse parrocchie in collaborazione con Caritas Kosovo. Ricordiamo che Caritas Ticino in precedenza aveva pure sostenuto attività della Caritas Italiana, con CHF 50’000, contribuendo alla ricostruzione in Kosovo, di 10 case e la riparazione di altre 10 nel villaggio di Samadraxhe, grazie ad offerte specifiche ricevute nel 1999.
Il Programma di accompagnamento della Caritas Kosovo si inserisce nel Programma Paese Kosovo, a sua volta integrato nel più ampio progetto Balcani della Caritas Italiana. Il Programma nasce dalla ripetuta richiesta della Chiesa locale, nelle persone del Vescovo e del direttore della Caritas Kosovo, perché sia attivata in questo territorio una forma di sostegno e di accompagnamento alla Caritas diocesana e a quelle parrocchiali. E’ dunque opportuno fornire la maggiore sollecitazione possibile per collegare le progettualità parrocchiali e diocesane. Ne deriva così che ogni programma di supporto/formazione rivolto alle Caritas parrocchiali, deve essere condiviso con la Caritas Kosovo che ne ha la titolarità.
La realtà della Caritas Kosovo è pienamente coerente con l’identità della Chiesa kossovara. Evidentemente iniziative come queste incontrano problemi di diverso tipo, non da ultimo il confronto con il clero locale, per il quale la Caritas è percepita spesso come organizzazione, sì della Chiesa, ma al di fuori dell’azione pastorale della stessa, identificandola invece in una sorta di ONG (Organizzazione non governativa) ecclesiale. La tradizione, la cultura locale e le mediazioni cui spesso la Chiesa cattolica kossovara deve attenersi rende il clero disattento ad alcune problematiche sociali gravi. La visione tradizionalista della Chiesa non permette posizioni di responsabilità pastorale del laicato, ma ha evitato anche talune forme di assistenzialismo peculiari del clero di altre realtà balcaniche. Nonostante ciò la Chiesa kossovara ha mostrato la volontà di crescere e rafforzare l’organismo della Caritas. La comunità laica, beneficiaria degli aiuti delle Caritas estere, esprime interesse e volontà per azioni di solidarietà concreta da parte della Chiesa. La particolare condizione politica del Kosovo fa sì che la Caritas diocesana sia di fatto considerata alla stregua di una Caritas Nazionale (il Kosovo è un’Amministrazione Apostolica della Conferenza episcopale della Federazione Jugoslava di Serbia e Montenegro) mentre le 23 parrocchie, date le particolari condizioni storico-ecclesiali e territoriali, hanno spesso atteggiamenti, modalità di pensiero ed azioni molto autonomi.
Programma di accompagnamento Caritas Kosovo
In una prima fase, gli obiettivi di questo Programma sono diversi. La creazione delle condizioni per l’assimilazione e approfondimento dei fondamenti teologico-pastorali e dei principi ispiratori della Caritas, da parte dell’équipe diocesana e parrocchiali del Kosovo; questo primo obiettivo si concretizza con l’avvio di un centro operativo della Caritas diocesana del Kosovo per la presa di coscienza da parte del direttore e dei collaboratori, del ruolo e dei compiti necessari all’avvio ed il consolidamento della Caritas diocesana. Ciò attraverso; la capacità di lettura del territorio, la capacità tecnica-metodologica di programmazione, verifica e rendicontazione. La capacità di collegamento, coordinamento e formazione delle Caritas parrocchiali ed infine la capacità di relazione con le istituzioni e le organizzazioni.
Un secondo obiettivo è l’avvio di centri parrocchiali propedeutici per la presa di coscienza graduale, da parte del parroco e dei collaboratori, del ruolo e dei compiti necessari all’avvio ed al consolidamento della Caritas parrocchiale. Il tutto attraverso l’installazione di una sede operativa all’interno della parrocchia; il coinvolgimento di persone laiche per la formazione di una commissione parrocchiale; la capacità di lettura del territorio, i rudimenti tecnico-metodologici di programmazione, verifica e rendicontazione, come pure la capacità di collegamento-coordinamento con la Caritas diocesana.
Il terzo obiettivo di questa prima fase è il lavoro in rete da parte delle Caritas parrocchiali e della Caritas diocesana.
La seconda fase prevede l’assimilazione dei fondamentali teologici e dei principi ispiratori della Caritas da parte delle équipes diocesane e parrocchiali.
La situazione in Kosovo
Non c’è molta chiarezza di cosa e come sarà il Kosovo in futuro. Di fatto, ci troviamo di fronte ad un protettorato delle Nazioni Unite garantito da un’occupazione militare della Nato e i possibili sbocchi di questa situazione sono alquanto incerti.
Le aspettative dei kossovari sono tra le cose più chiare della situazione: nella loro visione, dopo anni e anni d’oppressione da parte del regime di Slobodan Milosevic, caratterizzata da una spirale di violenza che è andata via via peggiorando e dalla sanguinosa guerra in cui è sfociata, il Kosovo non può che essere uno stato indipendente. Rispetto a tale posizione non sembra ci siano spazi per mediazioni di sorta. Tutti i partiti politici protendono per questa soluzione con sfumature nazionaliste più o meno marcate.
La posizione di Belgrado è altrettanto semplice ma diametralmente opposta: il Kosovo è parte indivisibile della Serbia. I serbi del Kosovo sono, per forza di cose, più realisti e cercano di sopravvivere in un ambiente a loro completamente ostile, senza però cedere di un palmo sulle questioni di principio; è un atteggiamento da barricata, nella speranza che le cose cambino in qualche maniera a loro favore. Attualmente partecipano al JIAS (Joint Interim Administrative Structures), condizionando la loro presenza alla richiesta di maggiore sicurezza e protezione da parte della KFOR (forze NATO in Kosovo).
La recente svolta democratica non facilita per niente il cammino verso l’indipendenza della regione: il presidente serbo Vojislav Kostunica si presenta come un democratico, aperto alla comunità internazionale, esattamente la persona giusta del momento. Troppi sono gli interessi e le logiche che impediscono di mettere in agenda la questione dell’indipendenza del Kosovo.
L’amministrazione UNMIK (Amministrazione ad interim della missione ONU) è insediata ormai da oltre un anno e mezzo, ma i risultati del lavoro svolto sono perlomeno contrastanti rispetto allo sforzo umano e finanziario impiegato. Alcuni servizi essenziali sono stati ripristinati: la nettezza urbana funziona nelle maggiori città, l’elettricità e l’acqua sono erogate con maggior continuità; si sta lavorando molto sulla formazione di una forza di polizia locale e grande è lo sforzo nell’attivazione di 20 dipartimenti amministrativi.
L’altro lato della medaglia presenta un’amministrazione della giustizia ancora praticamente inesistente, la legalità e l’ordine pubblico non sono garantiti. Atti di violenza sono riportati quotidianamente sui giornali, specialmente omicidi etnici, politici e mafiosi. La polizia multinazionale circola su potenti automezzi ma non riesce a tenere il paese, sebbene piccolo, sotto controllo.
Elezioni municipali si sono svolte nell’ottobre 2000, monitorate dall’OSCE che ha garantito un pacifico svolgimento. I risultati sono stati incoraggianti, hanno ottenuto poco i partiti politici più estremisti ed intransigenti (PDK e AK), mentre la Lega Democratica del Kosovo di Ibrahim Rugova ha ottenuto quasi il 60% dei voti. Più democratico ed aperto al dialogo Rugova non si è mostrato disposto a transigere sulla questione dell’indipendenza.
La situazione sociale
È ovviamente legata a quella politica. Il clima di scarsa legalità che vige nel paese lascia spazio ai gruppi ultranazionalisti, a vendette personali e traffici illeciti di ogni sorta, dalla droga alla prostituzione, dallo sfruttamento dei bambini alle intimidazioni etniche.
Lo stato di fatto è chiaro per tutti: la tensione e la violenza non si sono placate ma anzi stanno aumentando di tono. Le forze della Nato, fino ad oggi, non sono riuscite ad ottenere un efficace disarmo dell’UCK e molti si chiedono se la creazione del TMK, corpo con funzioni di protezione civile sorto dalle ceneri dell’UCK, non sia stato, di fatto, il riconoscimento dello stesso sotto altro nome. Diverse agenzie di stampa hanno denunciato che questo corpo abuserebbe del proprio ruolo per compiere assassini, torture ed estorsioni.
I locali sentono di vivere in un paese in stato di semi-anarchia, dove nessuno è in grado di far rispettare la legge e dove comanda ancora il fucile. La scarsità di lavoro genera un senso d’insicurezza e di frustrazione in molti giovani. Molte famiglie vivono ancora esclusivamente sulla base di aiuti o di rimesse dall’estero.
La prigionia di molti albanesi in Serbia mantiene uno stato d’ansia in molte famiglie e per loro la guerra non è ancora finita; peggio ancora per le famiglie che hanno dei dispersi dopo il conflitto: moltissime continuano a sperare in un improbabile ritorno.
Economia
La ricostruzione realizzata dalle organizzazioni umanitarie genera un notevole flusso di denaro, che va per lo più a beneficio degli stati confinanti dai quali sono importati i materiali per la costruzione. La ripresa economica è lenta e difficile da avviare per diversi motivi. La circolazione della moneta è resa difficile dall’assenza di un sistema bancario efficiente (solo a Pristina, Prizren e Peje funziona una banca); le industrie e le grandi aziende agricole statali sono quasi tutte ferme e non si prevede un riavvio delle attività produttive nel medio periodo, data anche la vetustà di molti impianti.
In pratica solo il commercio ha trovato rapido impulso sulla spinta degli aiuti stranieri. Alcuni ricevono stipendi sproporzionati rispetto alla media locale, perché assunti dal sistema ONU, dalla KFOR e dalle organizzazioni umanitarie; un autista delle Nazioni Unite può guadagnare fino a cinque volte più di un medico. Si corre così il pericolo di creare una parte di privilegiati mentre la maggioranza vive in situazioni di estrema povertà. Questa dicotomia è evidente anche nella disparità tra gli agglomerati urbani e i villaggi rurali: in questi ultimi i servizi sono spesso inesistenti e le opportunità di lavoro scarsissime.
Servizi
I servizi sanitari sono ancora parziali e funzionano per lo più nei grandi centri, mentre molti villaggi periferici hanno accesso a questi servizi con grande difficoltà.
Ancora una volta lo squilibrio tra centri urbani e campagna è significativo: in moltissimi villaggi pochi hanno l’acqua corrente ed il bagno in casa. Gli acquedotti sono scarsi e molti sono costretti ad affidarsi a pozzi in cui la qualità dell’acqua è dubbia.
Le scuole stanno riprendendo con una certa regolarità anche se gli stipendi degli insegnanti erano pagati con mesi di ritardo. Sembra che ultimamente la situazione stia migliorando.
Con queste iniziative oltre al supporto umano, pastorale, tecnico e finanziario si lavora affinché le persone colpite dalla guerra possano ritrovare la loro dignità nel paese in cui sono nati e cresciuti e non debbano essere costrette ad emigrare in luoghi dove spesso sopravvivono in condizioni precarie e sotto la gestione di organizzazioni illegali.
Sostenere le persone là dove vivono, con azioni mirate e sensate, parallelamente ad un discorso politico che metta al centro la persona e non l’interesse individuale, è la via da percorrere affinché l’ingiustizia sociale non continui a crescere.
(Fonti Caritas Italiana)