Casa per anziani Paganini-Rè di Bellinzona
75 anni per un generoso servizio alla vita

Di Gianni Ballabio


Qu
est'anno la Casa per anziani Paganini-Rè di Bellinzona ha compiuto i 75 anni: un bel traguardo. Anzi, una bella tappa, perché l'orizzonte davanti è ancora molto ricco.
La sua storia è collegata al legato testamentario della bellinzonese Flora Paganini-Rè, che lasciava i suoi stabili, siti nel quartiere San Giovanni, a favore delle persone bisognose di assistenza.
Nasceva così una Fondazione, che, nel 1919, acquistava l'ex-convento della Madonna delle Grazie, dove, nel 1929, entravano i primi ospiti, assistiti dalle Suore Guanelliane, sostituite nel 1964 dalla Suore Poverelle del Beato Palazzolo di Bergamo.
Nel 1972 veniva inaugurata la nuova costruzione, mentre negli anni ottanta (tra il 1983 e il 1989) si procedeva alla ristrutturazione del vecchio convento, al restauro del chiostro e all'aggiunta di una nuova ala. E' di quest'anno la ristrutturazione dello stabile alzato nel 1972.
Nel 1921, all'apertura della Casa, gli ospiti erano 14: 7 uomini e 7 donne. Il loro numero è poi progressivamente cresciuto negli anni. Infatti nel 1930 erano 62, nel 1950 salivano a 76, e nel 1979 a 117. Dal 1921 al 1995, la Casa ha accolto complessivamente 2051 ospiti. Nel 1995 vi erano ospitati 27 uomini e 74 donne.

Il Vescovo di Lugano, monsignor Giuseppe Torti, è membro da diversi anni del Consiglio di Fondazione e ha seguito, con particolare attaccamento e impegno, la positiva evoluzione conosciuta dalla Casa negli ultimi decenni.
A lui rivolgiamo qualche domanda.

D: Come è entrato nella vita di questa istituzione?

Mons. Vescovo
: Da trent'anni seguo da vicino il Paganini-Rè. Sono entrato in contatto con la vita di questa benemerita istituzione della città di Bellinzona (per diversi decenni unica casa per anziani della capitale e dei comuni limitrofi), alla morte del canonico Davide Meuli, che nel Consiglio rappresentava colui che, per statuto, era il primo responsabile della Fondazione Paganini- Rè, ossia il Vescovo diocesano. Sono quindi entrato a far parte del Consiglio per incarico dell'allora Vescovo, mons. Angelo Jelmini e quale suo rappresentante.
L'Istituto, che oggi raggiunge il centinaio di ospiti, è sempre stato in tutti questi anni uno degli enti privilegiati della mia attenzione. In modo particolare da un ventennio, ossia da quando ho l'onore di presiedere la Fondazione stessa.
La Casa si avvale della collaborazione e del servizio di una sessantina di persone, distribuite nei vari compiti, nonché di sei Suore Poverelle della Congregazione del Beato Luigi Palazzolo di Bergamo. A loro va tutta la riconoscenza di tante persone che affidano i rispettivi familiari alle loro cure, il più delle volte non avvertibili nella profondità del loro servizio. Gratitudine che si estende a tutto il personale, a quanti collaborano in diversi modi alla vita della Casa, a coloro che l'hanno seguita e la seguono con amore e dedizione, con un grazie particolare all'avv. Paola Franscini, per la sua direzione preparata, competente e sicura.

D: Come ha visto la Casa in questi trent'anni?

R: Una delle preoccupazioni iniziali è stata quella di guardare realisticamente allo svolgersi della vita degli ospiti e alle loro esigenze, prestando una spiccata attenzione non solo alle cure mediche, ma anche al trattamento alimentare, attraverso un'ottima cucina, per niente affatto secondaria in istituti del genere. Attenzione pure ad una logistica rispondente alle esigenze minime di una ospitalità dignitosa, rispettosa e serena, cercando di rispondere in modo adeguato alle esigenze peculiari e diversificate delle persone, specialmente di un'età più avanzata. Dando ai loro bisogni, interessi e richieste, risposte generose e pertinenti, che sovente nemmeno nel loro domicilio potrebbero facilmente incontrare.
E' scaturita da queste attenzioni la necessità dell'ampliamento della casa pluricentenaria, attraverso un intervento in tre fasi, corrispondenti ad altrettante tappe e epoche di ristrutturazioni ed aggiunte. In risposta alle indicazioni giuridiche fornite dai Dipartimenti cantonali competenti e soprattutto ai suggerimenti scaturiti dalla esperienza pratica di chi lavora nella Casa e non costruisce teoricamente a tavolino esigenze superflue e soprattutto inutili e dispendiose.
Proprio in questi tempi è in fase esecutiva un ultimo perfezionamento nella trasformazione e nell'ampliamento delle camere della parte centrale del complesso. Si cerca in particolare, con un aumento di spazio reso possibile dalla trasformazione delle terrazze, di consegnare all'ospite una camera più agevole e più personalizzata, dandogli anche la possibilità, finora non permessa dalla superficie disponibile, di introdurre elementi personali e affettivi.
Ovviamente tutto questo avrebbe poco senso e sarebbe ben presto vanificato, se non ci fosse la componente di uno sforzo costante perché il rapporto fra ospiti e servizio non rimanga a livello tecnico, ma diventi un rapporto familiare e amichevole, perché nessuno si senta "un numero", ma persona viva e amata da persone, che il più delle volte sostituiscono l'affetto dei familiari assenti o scomparsi. Ecco perché non passa settimana senza che ci siano incontri ricreativi adeguati alle esigenze degli ospiti, intrattenimenti e frequenza di visitatori. Tra questi i privilegiati sono i giovani delle nostre scuole, capaci di sintonizzarsi molto bene sulla lunghezza d'onda dei nostri anziani. I giovani infatti si fanno da loro attendere o per giocare a tombola o per assistere a un piccolo spettacolo preparato dagli stessi allievi o per altre trovate, che la fantasia dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze sa in maniera impensabile costruire. Il tutto per offrire un momento di gioia o un po' del loro tempo nella maniera più preziosa, come un vero dono del loro cuore.

D: Cosa ha ricevuto da questa esperienza e da questo impegno?

R: L'esperienza personale del rapporto con la Casa mi fa sovente pensare che la persona anziana, nonostante le apparenze, ha delle grandi ricchezze.
Una preziosità a volte anche inaspettata. Infatti queste persone, anche quando non sanno esprimersi con il nostro comune linguaggio per debilità fisica, per stanchezza o per altri ovvi motivi, rivelano sempre che la vita è un grande dono. Apprendo direttamente da loro che la persona, ritenuta ormai "messa in pensione", può ancora offrire, come uno dono vero, la ricchezza interiore accumulata, attraverso le esperienze, di gioia e di dolore, vissute lungo i molti anni.
Cosicché ogni volta che si accosta una di queste persone, chi crede di fare un atto di carità, finisce con il rendersi conto, se ha un minimo di sensibilità, che è lui personalmente beneficiario di un amore singolare. Un dono che riceve da chi forse non dice più "grazie" con le parole, ma lo sa dire con uno sguardo forte negli occhi e con il sorriso convinto, sincero e pieno di riconoscenza, anche se a volte velato di mestizia.