D: Organizzazioni
umanitarie che, dal 1994 sono affluite in massa per i bisogni urgenti del Ruanda.
La Caritas Italiana ha creato dei progetti che stanno continuando tutt'ora,
basati sull'aiuto immediato e sullo sviluppo della persona. Ci puoi dire come
state lavorando attualmente?
R: Sicuramente la Caritas, non solo quella italiana, non è una ONG,
non è un'organizzazione umanitaria o assistenziale. È un organismo
pastorale, un organismo di Chiesa e questo non è indifferente, perché
l'aiuto che si porta ad una Chiesa sorella, ad una comunità, società
in difficoltà, parte da questo presupposto, parte dal presupposto di
un rispetto nel progetto di vita che questa comunità, una parrocchia,
una città, un campo profughi ha, e quindi nell'accompagnamento e nel
sostegno perché questo progetto si realizzi. Questo progetto esiste anche,
l'abbiamo constatato di persona nelle situazioni più disumane, nei campi
profughi di Goma, nelle prigioni sovraffollate ruandesi. Gli uomini, le donne,
i bambini hanno un loro progetto individuale, famigliare, collettivo di vita
di speranza, di resistenza al male. Allora è questo progetto, questi
micro progetti che noi in qualche modo dobbiamo sostenere, altrimenti si rischia
che diamo per scontato anche la buona fede. L'aiuto umanitario oggi può,
non solo non aiutare, ma anche fare danno fino ad uccidere.
D: In
queste situazioni i più colpiti, i più deboli sono normalmente
le donne ed i bambini. Siamo stati sollecitati per questo incontro anche da
un sacerdote della diocesi di Gikongoro che ci ha proposto un progetto a sostegno
dei giovani, dell'educazione. Uno dei problemi maggiori oltre quelli immediati,
attualmente, in Ruanda è quello dell'educazione. In che direzione va
questa educazione, anche in prospettiva di un futuro nel mondo del lavoro?
R: Sicuramente uno dei frutti più terribili del Ruanda è stato
l'annullamento di generazioni di bambini. Bambini che hanno visto uccidere i
loro genitori, i loro amici, a volte partecipato ai massacri, a volte essi stessi
hanno preso le armi sotto l'effetto di costrizione psicologica per uccidere.
Questi bimbi, e sono centinaia di migliaia, bimbi che sono passati attraverso
questa esperienza, a questi bambini è stata sottratta l'infanzia. Io
credo che non bisogna permettere che sia rubato loro anche il futuro. In questo
senso la formazione, l'educazione, nella sua forma più vasta, la scuola,
ma anche l'educazione, la socializzazione attraverso per esempio l'agricoltura,
la formazione professionale, sia la sola strada, l'unica strada perché
non avvenga che a questi bambini sia tolto anche il futuro, oltre l'infanzia.
Per cui credo che ogni progetto serio, di sostegno alla formazione, all'educazione,
sia un gradino verso la riconciliazione, verso la coabitazione, quindi verso
il futuro. Anche noi stessi come Caritas, stiamo sostenendo diversi progetti
di Caritas diocesane, associazioni locali che lavorano coi bambini, in particolare
con le categorie più vulnerabili dei bambini. I bambini di strada, un
fenomeno quasi sconosciuto prima della guerra del 1994 in Ruanda, oggi uno dei
grossi problemi di ordine pubblico delle autorità cittadine, per esempio
di Kigali. A Kigali, la capitale, si registrano dai due ai quattromila bambini
di strada. L'aleatorietà, l'incertezza della cifra è proprio perché
ogni giorno a causa di una situazione pesante e persistente di guerra e di violenza
ancora oggi 1998, nel Paese, fa scattare questo fenomeno. I bambini che vengono
espulsi, molti orfani, molti che vengono espulsi dalla famiglia a causa della
povertà, oppure che vengono mandati a mendicare e diventano il reddito
famigliare. Accanto a questo si sta sviluppando in maniera preoccupante il fenomeno
delle bambine di strada, mondo legato soprattutto alla prostituzione. Quindi
intervenire in questo modo, cercando di strappare i bambini alla strada è
abbastanza aleatorio, però di rendere la strada un luogo comune sicuro,
un luogo di vita, invece di un luogo di paura e di morte, va nello spirito dei
progetti che stiamo sostenendo appunto a Kigali e Butare, attraverso, anche
con la presenza di operatori della Caritas italiana sul campo.
D: Ruanda, Paese a maggioranza cattolica. La Chiesa è stata penalizzata,
anche lei come tutta la popolazione, ultimamente abbiamo sentito delle uccisioni
di suore, di un francescano croato. Come si sta muovendo in questa situazione?
R: Direi che la Chiesa ruandese, la Chiesa locale e missionaria sono, prima
di essere Chiesa, ruandesi. Quello che è successo in Ruanda nel 1994,
e da allora ad oggi anche questa paura, questa disinformazione, questi massacri
continui che avvengono, hanno toccato, non solo i cristiani ed i fedeli ma anche
i preti, le suore, i vescovi anch'essi nella loro carne, sia chi personalmente,
chi attraverso la sofferenza dei propri famigliari. Quindi è una Chiesa
che comunque ha dato prova nella sua globalità, di grossa resistenza,
di non resa al male, al genocidio, ma di cammino verso una speranza.
D: Ne
abbiamo già accennato in precedenza, il ruolo che hanno avuto i mezzi
di comunicazione, dove nel 1994 erano tutti presenti ed ora marginalmente. Come
reagisce la popolazione locale ad un fenomeno di questo genere?
R: Diciamo che l'informazione, oltre che la paura e la povertà è
uno dei grossi problemi del Ruanda, lo è stato e lo è tutt'oggi.
L'informazione a tutti i livelli, quella internazionale che dà un'immagine
e dà un monitoraggio di quello che sta succedendo che è completamente
assente, si accende a sprazzi solo su grosse tragedie, su grossi numeri e quindi
dà un'immagine falsata della realtà, ma anche l'informazione interna.
La radio in particolare, che in Ruanda è il mezzo più diffuso
ed ascoltato da tutti e che è stata una degli artefici dei mezzi di preparazione
più sofisticati del genocidio perché in Ruanda manca nei mass
media una indipendenza ed una libertà che dà loro un'autorità
morale. Sono piuttosto nella mente di strumenti di propaganda. Il genocidio
in Ruanda nonostante sia stato effettuato con mezzi a prima vista primitivi,
i bastoni, le mazze, i maceti, è stato, se si studiano i meccanismi e
le dinamiche di preparazione, un genocidio moderno, molto sofisticato, dove
la manipolazione delle coscienze e la preparazione psicologica all'assassinio
di massa è stato un lavoro scientifico fatto da esperti della comunicazione
attraverso la tristemente famosa Radio Televisione des Milles Coliines, i cui
responsabili sono oggi citati davanti al Tribunale penale internazionale di
Aruge, come menti ed artefici del genocidio
D: Davanti
ad una situazione del genere, ad una situazione che hai così descritto,
che speranza ha il popolo ruandese, il popolo in generale della Regione dei
Grandi Laghi?
R: Nonostante il clima pesante, molti sono i segnali di speranza, soprattutto
la voglia di vita della gente, la voglia di futuro dei bambini, la voglia di
crescere i propri figli delle vedove, delle madri e dei padri. Ci sono degli
esempi, delle comunità, delle persone che sono nel silenzio, proprio
perché c'è questa paura a mettersi in mostra, che hanno salvato
a rischio della vita, tante persone. Sono questi credo i germi di speranza su
cui in qualche modo il Ruanda ed i ruandesi in primo luogo, possono costruire
il loro futuro e credo che, se vogliamo, la speranza sia racchiusa nelle parole
di un amico ruandese che mi ha detto, poco prima di lasciare l'aeroporto di
Kigali: "La nostra speranza è che noi ruandesi possiamo un giorno
tutti morire di vecchiaia, morire seppelliti dai nostri figli e non viceversa".
Su questo augurio i ruandesi e chi in qualche modo vuole aiutare in maniera
libera e anche convinta il Ruanda, debba muoversi. Chi vuole veramente che non
ci siano più Ruanda debba in qualche modo muoversi in questa direzione
e debba imparare che il Ruanda in fondo, non è un'esperienza che appartiene
ai ruandesi, ma appartiene a tutta l'umanità e quindi anche a noi. E
se usiamo un'altra immagine di un sacerdote ruandese, il Ruanda deve essere
visto da noi stranieri, come uno specchio, uno specchio che ci ha riflesso immagini
orribili, ma se guardiamo da vicino, dietro le immagini del Ruanda, riusciamo
a vedere dei volti più bianchi che ci richiamano altre immagini orribili
a noi più vicine, quelle della Bosnia per esempio e se guardiamo ancora
più in fondo forse vediamo noi stessi riflessi in queste immagini con
le nostre chiusure, la nostra paura dell'altro, il nostro chiudere la porta
al vicino di casa, perché in fondo il Ruanda, come anche la Bosnia è
stata per tutta l'umanità la guerra del vicino di casa, una guerra che
potrebbe scoppiare in qualsiasi parte del mondo anche in Ticino, in Italia,
in un piccolo villaggio qualsiasi.