Working
Poor: non i poveri lavoratori, ma i lavoratori poveri!
Di
Dani Noris
Caritas Svizzera lancia la sua campagna di dicembre con uno studio sui working
poor in Svizzera. Doveroso chiederci: e a Caritas Ticino a partire dal nostro
lavoro e dagli incontri con le persone che stanno dietro le centinaia di dossier
seguiti, che visione abbiamo di questo fenomeno? Guardiamo tutti, senza capire
granché, alla ristrutturazione dell'economia mondiale e ai miliardi di
benefici e di risparmi che i potenti dell'economia, banche e industrie, realizzano
attraverso le fusioni, mentre i posti di lavoro vengono decimati, quelli che
restano sono precari e il numero dei salariati mal pagati, i working poor, aumentano
costantemente. In alcuni settori anche chi lavora a tempo pieno non riceve un
salario sufficiente per mantenere una famiglia e pur usufruendo di sussidi per
la cassa malati, appartamento sussidiato ecc. è costretto a far ricorso
all'assistenza pubblica. È vero che i poveri svizzeri non sono poveri
se confrontati a quelli di altri Paesi o se si si fa un confronto con la situazione
vissuta da noi fino a qualche decennio fa. Ci basti ascoltare i racconti dei
nostri genitori che in prima persona hanno vissuto in ristrettezze estreme,
o ricordare i nostri primi anni d'infanzia nell'immediato dopoguerra: molti
di noi si sono portati a scuola le pantofole tagliate sulla punta affinchè
durassero un altro anno scolastico e il vestito della festa ricavato da un pezzo
ancora buono di un vestito smesso da qualcun altro. Oggi i figli dei working
poor non hanno le pezze ai pantaloni o le scarpe tagliate, mangiano a sufficienza,
vanno a sciare, sono iscritti nelle associazioni sportive, hanno accesso agli
studi. La povertà è relativa, lo stato sociale compensa con i
suoi interventi la differenza fra il salario insufficiente e il minimo vitale
necessario per vivere. Se poi ci sono dei bisogni ulteriori si può far
richiesta di aiuto, a secondo dell'età e della situazione a Pro Juventute,
a Pro Senectute, a Pro Infirmis, e a una serie di associazioni a favore dei
poveri che permettono anche ai più sfavoriti di avere la risposta necessaria.
Per molti lavoratori che si presentano al servizio sociale di Caritas Ticino,
la causa dell'indigenza e del bisogno di intervento non è mai dovuta
al salario basso, e quando è il caso la situazione si risolve proprio
facendo ricorso a quanto descritto prima e a quello che lo Stato ha messo in
atto. L'introduzione recente dell'assegno integrativo e di prima infanzia, il
sussidio per il pagamento dei premi della cassa malati o per l'alloggio, il
condono di tasse quando c'è stato una reale e dimostrabile diminuzione
del reddito, il sostegno per una riqualifica o le prestazioni complementari
sono strumenti che una volta attivati permettono di vivere in modo decente.
La maggior parte delle persone di cui dobbiamo occuparci è nei guai a
causa di debiti accumulati principalmente attraverso il piccolo credito che
continua a mietere vittime, ad acquisti fatti tramite carte di credito o a una
generale cattiva gestione finanziaria. Mala questione che qui ci interessa capire
è un altra: come vive il suo rapporto con il lavoro chi ha un salario
da venditore, da lavapiatti o da cameriere? Chi cioè fa un mestiere dignitoso
e utile ma che non gli basta per mantenere la sua famiglia? II problema non
è strettamente finanziario perché appunto attraverso gli aiuti
sociali uno bene o male il minimo vitale ce l'ha garantito, il problema sta
nel fatto che qualunque impegno uno metta nel far bene il suo lavoro questo
comunque non gli permette di essere autosufficiente. Chi è costretto
a vivere così il suo rapporto col lavoro, vive inevitabilmente una sorta
di frustrazione che lo porta spesso a essere demotivato: il non rispetto della
propria dignità di persona capace di costruire, è ben più
grave delle ristrettezze economiche o del problema strettamente finanziario.
Uno può tirare la cinghia e fare sacrifici per raggiungere un obiettivo
ma è difficile accettare che qualunque cosa si faccia questo non porta
da nessuna parte. E' difficile impegnarsi quando non c'è un riconoscimento
del proprio lavoro, e il giusto salario è la base di questo riconoscimento.
Una riflessione da fare sui working poor forse va ricondotta a quella più
ampia della ripartizione del lavoro in una società avanzata dove la produzione
di ricchezza è concentrata in attività particolari e ristrette
ma il contributo al bene comune è dato da tutti coloro che operano. In
una società sana il contributo di ciascuno al bene comune diventa un
valore, anche se non facilmente monetizzabile. Questa diversità dovrebbe
essere riequilibrata affinchè ci sia posto per tutti e perché
tutti possano essere con pari dignità protagonisti della storia comune:
abbiamo bisogno di venditori, di camerieri, di lavapiatti quanto abbiamo bisogno
di produrre alta tecnologia. Una società che invece non fosse capace,
nella trasformazione economico sociale in atto, di andare verso questo equilibrio
non farà che creare, oltre ai disoccupati, un numeroso popolo di working
poor, una fascia che diventerà sempre più grande di persone che
vivranno una dequalifica del proprio impegno lavorativo. li interrogativi da
porsi sono molto vasti e ampi e riconducono alla concezione del senso del lavoro
e in ultima analisi del senso della vita. Per noi costruire un tipo di società
che rispetti la dignità delle persone e che riscopra i valori fondamentali,
oggi significa far diventare la dottrina sociale della Chiesa e le indicazioni
del Papa per una promozione umana, lo strumento ispiratore per un ripensamento
globale dei nuovi modelli di società che vorremmo caratterizzassero il
prossimo millennio.