PARROCCHIE:
DOVE VANNO LE FINANZE?
Dopo l'introduzione
dell'imposta di culto "facoltativa"
Di Marco Fantoni
Il 10 novembre 1992 il Cantone, tramite un Decreto legislativo, entrato in vigore
l'1 gennaio 1993, concernente l'imposta di culto delle Parrocchie e delle Comunità
regionali della Chiesa evangelica riformata, regolava il prelievo di un'imposta
per la copertura del fabbisogno per le spese di culto. Quest'imposta che è
basata sul reddito e sulla sostanza delle persone fisiche e dei contribuenti
ad esse parificate, nonché sull'utile e sul capitale delle persone giuridiche
e dei contribuenti ad esse parificati, come pure dei fondi d'investimento immobiliare,
è prelevata in percento dell'imposta cantonale ordinaria del medesimo
anno. L'aliquota dell'imposta è determinata in base al fabbisogno votato
dall'Assemblea parrocchiale, rispettivamente dall'Assemblea della Comunità
evangelica regionale.
Le persone assoggettate all'imposta, sono quelle iscritte all'inizio dell'anno
civile nel catalogo tributario della Parrocchia, rispettivamente della Comunità
evangelica regionale. (In questa sede il riferimento è alle Parrocchie,
ma naturalmente il discorso vale anche per le Comunità evangeliche).
Di fatto però, quest'imposta, è facoltativa. In effetti le persone
fisiche e giuridiche possono dichiarare, il primo anno, entro un mese dall'intimazione
della decisione d'iscrizione nel catalogo tributario, l'esenzione dall'imposta.
Questa situazione non ha certo favorito quelle Parrocchie che in precedenza
potevano avere una certa garanzia finanziaria per far fronte alle necessità
e non godevano di apporti di tipo statale (vedi finanziamenti comunali). Necessità
che sono molteplici e vanno dall'impegno più legato al culto, dunque
le celebrazioni, Messe, matrimoni, battesimi, funerali a quelle di evangelizzazione
e attività di tipo più sociale o culturale, legate al volontariato,
all'impegno a favore di tutte le fasce della popolazione, dai giovani agli anziani
ed ai vari gruppi che ruotano all'interno di una Parrocchia. Senza dimenticare
quegli impegni finanziari che servono a mantenere gli immobili come le chiese
o stabili di utilità pubblica e naturalmente le congrue per i sacerdoti
o i salari per i collaboratori parrocchiali necessari. In effetti non tutto
è possibile con il volontariato.
Dunque dopo il 1993 si è assistito ad un regolare aumento di persone,
sia fisiche che giuridiche, che hanno approfittato di questa nuova legge per
sottrarsi all'impegno nei confronti delle Parrocchie. Le motivazioni possono
essere diverse, da chi si dichiara non credente a chi ha già troppe cose
da pagare o a chi non porta nessuna motivazione. L'aspetto più triste
della vicenda è legato forse a chi, pur frequentando le chiese e facendo
parte di una Parrocchia ritiene di non dover versare l'imposta di culto, chiedendo
lo stralcio dal catalogo tributario. Queste persone dal punto di vista della
legge hanno tutto il diritto di farlo, ma guardando da un'altra angolazione,
le cose cambiano. In effetti i costi per gli scopi citati in precedenza ci sono
e dunque è anche un impegno morale del credente contribuire al buon funzionamento
delle Parrocchie. Capita infatti di sentire delle critiche, su presunte mancanze
e mal funzionamenti di strutture, proprio da persone che l'imposta di culto
non la vogliono versare. È bene ricordare a queste ultime che un sacerdote
deve essere pagato, che l'illuminazione ed il riscaldamento delle chiese hanno
un costo e le sole offerte durante le Messe non sono sufficienti.
Non saranno certo i sacerdoti a rifiutare i servizi della Chiesa a chi non paga
l'imposta, ma va detto chiaro che i costi ci sono e non si può sperare
solo e sempre nella Provvidenza, anche, ma non solo.
Un discorso di questo tipo può essere fatto anche per le persone giuridiche
che si sottraggono all'imposta di culto. È vero, una società anonima
come tale non è credente, non beneficia di un battesimo o di un'istruzione
religiosa, ma nemmeno di un impianto balneare comunale oppure dell'insegnamento
delle scuole elementari e ciononostante paga le imposte comunali.
Dobbiamo renderci conto che non si tratta solo di imposte per un servizio liturgico
ma di un contributo più ad ampio respiro che le Parrocchie offrono, con
ricadute positive anche su chi non ne fa uso. Si pensi ad esempio alle attività
sociali giovanili, alle colonie invernali o estive, agli oratori che coinvolgono
una larga fascia di giovani, non necessariamente credenti. Oppure alle proposte
culturali che regolarmente nascono.
Al momento del dibattito politico ed in seguito al messaggio del Consiglio di
Stato, nel rapporto della Commissione speciale in materia tributaria che l'ha
esaminato, traspariva una soluzione scaturita da mediazioni politiche che non
hanno certo favorito Parrocchie o Comunità. Si lasciava intendere che
questo decreto sarebbe stato uno strumento adeguato per sopperire alle necessità.
Questo segue forse quell'impressione che le Chiese siano ricche. Sicuramente
ce ne sono di benestanti ma non sono certo la maggioranza. Anche le Chiese,
come gli Enti pubblici risentono delle crisi finanziarie, se poi si emanano
leggi che contribuiscono ad aumentare le difficoltà non si facilita loro
certo il compito. Questa scelta politica, come altre, è stata presa nei
rispetti della democrazia, ma a volte anche la democrazia ha le sue pecche che
in questo caso hanno portato a non pochi sforzi le Parrocchie e le Comunità
che sono state portate a livello di qualsiasi società di volontariato
sportivo o culturale che sia. In realtà però si tratta di tutt'altro.