DIOCESI DI LUGANO E CARITÀ: SGUARDO AL
FUTURO
(estratto dal libro del 50° di Caritas Ticino pag. 199)
Mons. Eugenio Corecco
L'assillo di guardare al futuro, "alla ricerca di strade nuove per esprimere
la carità", potrebbe nascere da un nostro dubbio interiore.
La carità è ancora atta a garantire la presenza della Chiesa
nella società tenendo conto del contributo che essa deve dare alla soluzione
dei problemi sociali del mondo contemporaneo? Una risposta semplicistica e perciò
palesemente inadeguata, potrebbe essere quella di ricordare che la Chiesa, in
realtà, dà il suo contributo alla soluzione dei problemi sociali
non solo attraverso la Caritas, ma anche e soprattutto attraverso i sindacati
cristiani, i quali, da sempre, lottano per la realizzazione della giustizia
sociale.
Questa risposta potrebbe ingenerare l'equivoco di credere che il sindacato
cristiano sia preposto alla realizzazione della giustizia, mentre la carità
e la Caritas abbiano, come compito, solo quello di garantire il superfluo. Di
qui il dubbio sottile, eventualmente contenuto nella formulazione del tema di
questo Convegno.
In una società che pretende (almeno nei paesi ricchi come il nostro)
di realizzare in modo sempre più globale il Walfare State (malgrado le
ricorrenti crisi congiunturali), in uno Stato cioè sempre più
sociale, la Caritas ha ancora una prospettiva di avvenire? Per definizione,
infatti, il superfluo potrebbe anche non esistere, mentre sempre essenziale
e imprescindibile è la giustizia.
Ma noi sappiamo che per il cristiano la virtù della carità non
appartiene al novero delle cose superflue. Il pilastro fondamentale della vita
del cristiano non sono le quattro virtù cardinali della prudenza, giustizia,
fortezza e temperanza (formulate dalla filosofia stoica, da Seneca in particolare)
e recepite anche dal pensiero cristiano. Il pilastro fondamentale della vita
del cristiano sono le tre virtù teologali della fede, della speranza
e della carità.
La carità appartiene perciò all'essenza stessa dell'esperienza
cristiana. Non è possibile, di conseguenza, per il cristiano, regredire
semplicemente al livello della pratica delle virtù cardinali (cui appartiene
anche la giustizia) e muoversi perciò solo sul terreno della razionalità
umana e del diritto naturale, prescindendo dalla pratica della carità,
che appartiene all'ambito della esperienza soprannaturale, cioè della
redenzione e della grazia.
La carità non coincide con il superfluo, è l'essenza stessa della
vita del cristiano. Costituisce perciò l'elemento essenziale della presenza
del cristiano e della Chiesa nel mondo e del suo contributo alla realizzazione
del bene comune.
Non esiste dubbio sul futuro della carità e perciò, in modo derivato,
della Caritas, in quanto forma istituzionalizzata per attivare questa virtù
teologale. La Caritas è un albero che non può essere tagliato;
anzi, deve crescere e dare frutti sempre più abbondanti, così
come ci insegna la parabola del Vangelo. Siamo tuttavia tutti consapevoli che,
in una cultura positivista come quella in cui viviamo, un argomento "a
priori" non ha più la forza convincente di un tempo. Dobbiamo di
conseguenza reperire la risposta alla nostra domanda, percorrendo altri itinerari
di ricerca.
La dottrina sociale della Chiesa che, paradossalmente, sembrereb be essere
stata elaborata per porre le fondamenta di una concezione cristiana non della
carità, ma della giustizia, ha subito, proprio su questa tematica, una
profonda evoluzione.
La svolta nevralgica è avvenuta nel 1963 quando Papa Giovanni XXIII,
nella Pacem in Terris, per fondare la dignità della persona umana non
ha più utilizzato solo gli argomenti classici della filosofia, ma ha
fatto ricorso anche alla Rivelazione. Il fondamento ultimo della dignità
della persona umana, salvata dal sangue di Cristo versato sulla croce, sta nella
sua filiazione divina.
Questa argomentazione di Giovanni XXIII ha introdotto nella dottrina sociale
un nuovo criterio epistemologico. Da quello puramente filosofico razionale (sia
pure illuminato dalla fede), il Magistero pontificio è passato alla adozione
di una conoscenza direttamente derivata dalla Rivelazione, perciò dalla
fede. Dalla filosofia è avvenuta una evoluzione verso la teologia.
Il risultato è sorprendente. Se la prima pagina della dottrina sociale
della Chiesa, quella scritta da Leone XIII con la "Rerum Novarum"
parla della giustizia, l'ultima pagina della stessa, se si prescinde dalla "Centesimus
annus", quella scritta da Papa Giovanni Paolo II, cinque anni or sono,
con la
"Sollicitudo Rei Socialis", propone il discorso della carità.
Per liberare il proletariato dalla schiavitù in cui, nel secolo scorso
(secolo del progresso), era stato assoggettato dal mondo padronale, Leone XIII
ha invocato il criterio della giustizia e, su questa linea, si sono mossi anche
i Papi successivi. Pio XI, commemorando la "Rerum Novarum", quarant'anni
dopo (1931), con la "Quadragesimus Annus", affermava ancora, e giustamente,
che non si può nascondere l'ingiustizia con la carità e che alla
carità non spetta l'obbligo di coprire con un velo la violazione della
giustizia.
Tutto ciò è profondamente vero, ma è evidente che in quel
contesto il discorso sulla giustizia e sulla carità erano ancora condotti
su due piani diversi, senza convergere verso una sintesi. Ciò dipende
dal fatto che l'analisi della situazione di ingiustizia sociale, in cui versava
la società, era fatta con criteri di natura prevalentemente economica
e politica, mentre nella "Sollicitudo Rei Socialis", Papa Giovanni
Paolo II ha introdotto un altro criterio di analisi.
Nel solco di Papa Giovanni XXIII, che, come abbiamo visto, aveva dichiarato
la Redenzione di Cristo quale fondamento ultimo della dignità della persona
umana, Giovanni Paolo II, nei numeri 35 40 della "Sollicitudo Rei Socialis",
invece di una lettura economica, ha dato una lettura teologica delle cause della
ingiustizia sociale esistente nel mondo.
Papa Giovanni Paolo II sostiene che la radice più profonda dei disordini
sociali non è di natura economica o politica, ma di natura morale e teologica.
Alla radice sta il peccato personale degli uomini; stanno le "strutture
di peccato" che via via si sono consolidate nella società, ma alla
cui origine emerge sempre il peccato personale dell'uomo.
La nozione di peccato non è filosofica, ma teologica, poiché
il peccato non ha come referente valori impersonali, come potrebbe essere per
es. quello della giustizia, ma sempre il Dio personale; anzi, il Dio trinitario,
dal cui seno si è rivelato il Figlio, nella incarnazione, per portare
all'uomo la Grazia della redenzione.
Con la "Sollicitudo Rei Socialis" la dottrina sociale della Chiesa
è stata così collocata all'interno del binomio con il quale da
sempre è stata fatta la lettura cristiana della storia: il binomio del
peccato e della Grazia. La Grazia, intesa come perdono e aiuto dell'uomo, per
la conversione del suo cuore.
La storia dell'umanità, in effetti, è la storia del coinvolgimento
di tutti gli uomini nelle conseguenze, sia del peccato che della Grazia.
Il coinvolgimento nel peccato si realizza, socialmente e politicamente, nelle
"strutture di peccato" che creano condizionamenti e ostacoli per la
realizzazione del bene comune e dello sviluppo dei popoli.
Il coinvolgimento della Grazia avviene, socialmente e politicamente, nella
solidarietà tra gli uomini. Quello della solidarietà è
l'unico criterio possibile per superare la brama del profitto e la sete del
potere, in quanto aspetti negativi più caratteristici della vita sociale
contemporanea. Si tratta, infatti, di una solidarietà che deve realizzarsi
non solo tra le singole persone, ma anche tra i gruppi intermedi e tra le nazioni,
tra Nord e Sud; di una solidarietà intesa come opzione preferenziale
per i poveri, nel senso non solo materiale ma anche spirituale della parola.
Dalla nozione di giustizia, la dottrina sociale della Chiesa è evoluta
perciò verso la nozione di solidarietà.
Ma di quale solidarietà intende parlare la "Sollicitudo Rei Socialis?"
La solidarietà è senza dubbio una virtù umana, che potrebbe
essere anche annoverata accanto alle quattro virtù cardinali già
menzionate, attorno alle quali Seneca ha tentato la sintesi di tutta la sua
filosofia morale.
Tuttavia, la solidarietà, afferma Giovanni Paolo II, tende a superare
se stessa per rivestire la dimensione specificamente cristiana della gratuità
totale, e perciò della carità, che è il segno distintivo
dei discepoli di Cristo (Gv 13, 35). Il re ferente di questa solidarietà
cristiana non è più perciò soltanto l'individuo umano,
con i suoi diritti e la sua fondamentale uguaglianza rispetto a tutti, ma l'uomo,
in quanto viva immagine di Dio Padre; in quanto persona riscattata dal sangue
di Cristo e posta sotto l'azione permanente dello Spirito Santo.
Questo uomo, non più definito filosoficamente, ma teologicamente, deve
essere amato, anche se nemico, con lo stesso amore con cui lo ama il Signore.
Per lui bisogna essere disposti anche al sacrificio supremo: "dare la vita
per i propri fratelli" (1 Gv 3, 13). Non è un caso che la "Sollicitudo
Rei Socialis", a sostegno di questi concetti, introduce l'esempio di Massimiliano
Kolbe, che ha dato la vita per un uomo a lui estraneo, in nome di Cristo, considerandolo
come fratello.
Su questa base teologica si prospetta l'emergere di un nuovo modello di solidarietà
e di unità del genere umano, al quale deve ispirarsi l'azione sociale
del cristiano. Un modello che va al di là dei vincoli umani naturali,
poiché ha come fondamento la carità. Per la prima volta nella
dottrina sociale della Chiesa, la "Sollicitudo Rei Socialis" propone
al mondo, come modello di riferimento, la forma della socialità tipica
dell'esperienza cristiana; propone la comunione come modello per realizzare
il bene comune di tutta l'umanità.
Se la Chiesa osa segnalare il proprio modello di comunione come esempio valido
universalmente per realizzare la giustizia sociale, lo fa perché possiede
la coscienza di essere chiamata dal Signore ad essere, come dice la Lumen Gentium,
segno e sacramento di salvezza per il mondo intero.
"I meccanismi perversi" della società e le "strutture
di peccato" potranno essere vinte, afferma la "Sollicitudo Rei Socialis",
solo mediante l'esercizio della solidarietà umana che, per il cristiano,
può logicamente configurarsi solo come comunione e perciò solo
come frutto della carità.
A questo punto non possiamo non sottrarci, ancora una volta, ad una domanda
precisa: ma cos'è la carità?
Come per la solidarietà, anche in merito alla carità le possibilità
di equivoco sono grandi.
La carità non consiste solo nel fare qualche cosa per gli altri. È
più di questo. Non può essere confusa con altruismo. Il fare,
l'agire, l'intervenire, il dare, sono solo i modi in cui si realizza la carità,
non sono la sua origine.
Non rileggeremo mai con sufficiente attenzione il celebre testo del cap. 13
della prima lettera ai Corinzi: "Anche se parlassi le lingue degli uomini
e degli angeli... anche se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti
i misteri e tutta la scienza... anche se trasportassi le montagne con la fede,
ma non avessi la carità, non sarei niente. E se anche distribuissi tutte
le mie sostanze e dessi il mio corpo alle fiamme per gli altri, ma non avessi
la carità, non mi gioverebbe a nulla".
È un testo che non lascia scampo. Il cristiano in quanto cristiano,
non è nulla anche se facesse le cose più grandi di questo mondo,
anche se distribuisse tutti i suoi beni in elemosina, o realizzasse la perfetta
giustizia sociale. Non saremmo nulla, poiché per vocazione non siamo
stati chiamati a dare o a realizzare la giustizia in quanto tale o a praticare
l'elemosina, bensì a condividere con gli altri la nostra persona, in
nome di Cristo.
La virtù teologale della carità esige dal cristiano di riconoscere
l'altro come parte di se stesso; parte della propria persona e della propria
umanità. Il cristiano deve lasciarsi determinare dal fatto che Cristo,
sulla croce, ha stabilito un'unità oggettiva tra lui e gli altri. Il
punto genetico della carità sta nel riconoscere l'unità stabilita
tra gli uomini da Gesù Cristo. Il cristiano è chiamato ad amare
l'uomo ed a fare unità con lui e, così, a realizzare anche la
giustizia sociale, non grazie alla propria generosità, ma in nome di
Gesù Cristo. La carità consiste nell'aprirsi all'altro, non in
nome dei propri sentimenti naturali, ma in nome di Gesù Cristo. Per questo
il cristiano è chiamato addirittura ad amare anche il suo nemico.
La carità è, di conseguenza, un gesto che nasce da una concezione
diversa di noi stessi. Il punto che siamo perciò chiamati a convertire
è prima di tutto la concezione che abbiamo di noi stessi. Una concezione
capace di generare in noi una coscienza nuova circa la nostra persona, diversa
da quella presente nel mondo.
La carità, così intesa, è la conseguenza della nostra
adesione, nella fede, alla persona di Gesù Cristo, e della nostra speranza
circa il fatto che, come afferma S. Paolo, "le tribolazioni del tempo presente
sono senza paragone rispetto alla gloria che ci attende nella vita futura"
(Rm 8, 18).
Solo in forza delle virtù teologali della fede, della speranza e della
carità è possibile per il cristiano valutare in modo adeguato
il destino globale dell'uomo. Sono i criteri che ci permettono di realizzare
questo destino, dando una risposta adeguata anche alla "questione sociale".
La nozione di solidarietà, proposta dalla "Sollicitudo Rei Socialis",
sfocia nella nozione di comunione e di carità cristiana, superando tutti
gli schemi dottrinali precedenti. Rimane evidentemente vero che non è
possibile praticare la carità se non si realizza la giustizia, ma l'enciclica
"Sollicitudo Rei socialis" afferma chiaramente anche che, per il cristiano,
la giustizia deve essere vissuta e realizzata come, e in forza della carità.
È l'insegnamento inequivocabile di S. Paolo: "Anche se dessi tutti
i miei beni agli altri, ma non avessi la carità, non sarei nulla".
Perché nulla? Perché senza la carità non mi porrei come
segno di Cristo di fronte alle esigenze di giustizia sociale presenti nel mondo.
In quanto cristiani siamo, infatti, chiamati a rendere presente Cristo nel mondo.
Attraverso ogni intervento sociale siamo chiamati a porre nel mondo un segno
rivelatore della salvezza.
Il vero problema perciò non è quello di sapere se continuerà
ad esistere, anche in avvenire, uno spazio di intervento sociale per la Caritas,
ma piuttosto di riuscire a precisare sempre meglio la sua modalità di
intervento nel mondo. La Caritas, in effetti, ha come missione di essere lo
strumento istituzionale attraverso il quale la Chiesa interviene nel mondo,
ponendosi esplicitamente come attuazione concreta delle virtù teologali
e, in particolare, della carità.
I settori e i criteri d'intervento della Caritas, in seno alla società,
possono cambiare, come, del resto, sono costantemente cambiati, anche nel corso
di questo primo mezzo secolo di esistenza della nostra Caritas diocesana. L'esperienza
non lascia nessun dubbio sul fatto che in via primaria, oppure anche solo in
via di supplenza rispetto alla società civile e allo Stato, esisterà
sempre uno spazio di intervento specifico della Caritas. Ciò è
vero anche nell'ipotesi che avvenisse una totale realizzazione del Welfare State.
La ragione sta sia nel fatto che l'uomo è irriducibile ad un progetto
culturale, sociale e politico di ogni tipo, sia nel fatto che l'amore per il
prossimo è costitutivo dell'esperienza cristiana. La Caritas ha perciò
un ruolo insopprimibile, indipendentemente dal fatto che si esprima secondo
forme istituzionalizzate oppure solo individuali.
Il problema dell'avvenire non è quello della sopravvivenza della Caritas
in quanto istituzione. Sarà sempre possibile individuare nuovi bisogni
dell'uomo e della società e nuovi spazi d'intervento. Il vero problema
è quello di riuscire a fare della Caritas un'espressione sempre più
eloquente della missione pastorale della Chiesa. Anche se la Caritas copre un
settore particolare, non può mai limitarsi a fare gesti solo particolari.
Ogni gesto deve, nella misura del possibile, contenere ed esprimere il tutto.
La transizione, nella dottrina sociale della Chiesa, da una visione d'intervento
fondata sul diritto naturale e perciò sulla virtù della giustizia,
ad una visione fondata sulla solidarietà cristiana e perciò sulla
comunione e la carità, rende il ruolo della Caritas insostituibile, perché
è chiamata a realizzare non solo la giustizia umana, ma la solidarietà
cristiana, che nella sua espressione più precisa assume la caratteristica
della comunione e della carità.
Qualunque dovesse essere la natura e il settore dei suoi interventi in campo
sociale, la Caritas è chiamata, con urgenza sempre più grande,
ad esprimere nella società due valori specifici del cristianesimo, la
cui rilevanza sociale non è misurabile infatti con criteri puramente
razionali.
Il primo è la gratuità verso l'uomo in difficoltà, poiché
è stata gratuita anche la redenzione offertaci da Cristo. Il secondo
è quello dell'eccedenza, poiché eccedente è l'amore di
Cristo verso di noi. La carità non ha come misura il bisogno dell'altro,
ma la ricchezza e l'amore di Dio.
È, infatti, limitante guardare all'uomo e valutarlo a partire dal suo
bisogno, poiché l'uomo è di più del suo bisogno e l'amore
di Cristo è più grande del nostro bisogno.
Sarà sempre possibile dare nei confronti dell'uomo e dei suoi bisogni,
spirituali e materiali, una testimonianza di gratuità e di eccedenza.
Anzi, è un dovere al quale siamo chiamati in forza della nostra vocazione
cristiana.
Ne consegue, più che mai, che la carità, anche nella forma istituzionale
assunta nella Caritas, non può essere eliminata dall'esperienza di una
Chiesa particolare e non può perciò essere eliminata dalla nostra
Diocesi.
Eugenio Corecco, vescovo della diocesi di Lugano dal 1986, dr. jur. can. già
professore all'Università di Friborgo e all'Università Cattolica
del Sacro Cuore di Milano, presidente della Consociatio internationalis Studio
Juris Canonici Promovendo, fondatore nel 1992 e Gran Cancelliere dell'Istituto
Accademico di Teologia di Lugano.
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