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Il libro del Cinquantesimo "DIOCESI DI LUGANO E CARITÀ: DALLA STORIA UNO SGUARDO AL FUTURO" |
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INDICE GENERALE |
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In memoria di Monsignor Angelo Jelmini Riconoscenti a Monsignor Corrado Cortella |
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DIOCESI DI LUGANO
Comprende gli atti del convegno del cinquantesimo
Se la comunità cristiana si radica su tre elementi fondamentali, inscindibilmente congiunti per costituzione naturale, quali sono l'annuncio della Parola, la liturgia con tutta la sua preziosa realtà sacramentale e la carità, espressione insostituibile dell'ascolto della Parola, della vita sacramentale vissuta e della credibilità della fede che proclamiamo, è ovvio che la carità occupa un posto decisivo nella costituzione della Chiesa e nella edificazione della vita cristiana. Così è mediante la carità che la Chiesa fa veramente realmente, operosamente "memoria" di Gesù e ognuno di noi diventa capace di donare se stesso totalmente e personalmente per il bene dei fratelli. Perciò Caritas può e deve costantemente emergere come uno dei tre "pilastri" fondanti la nostra Chiesa! Chi si accosta al "libro del cinquantesimo" non solo con intelligenza, ma anche con cuore (buon volontà!...), spassionatamente e senza condizioni avverte l'importanza della sua chiamata al servizio della Chiesa nella carità. Ovviamente la storia della carità, in diocesi, non si può scrivere tutta, come pure la storia di Caritas Ticino i cui atti del convegno non intendono andar oltre una finalità: essere luce, efficace spunto di riflessione sulla carità in diocesi, sulle capacità attuali e sulle possibilità di domani di esprimere tutta la potenziale ricchezza non ancora scoperta della Caritas diocesana. Il libro non è quindi la storia della carità in diocesi, ma vuol essere uno strumento di lavoro e una occasione di riflessione e di dibattito sul sociale e sulla carità. Un dibattito che deve esser portato avanti oggi più che mai sia all'interno della comunità cattolica sia con la società in generale, cioè con tutti coloro che credono nell'urgenza di trovare nuovi modelli di solidarietà. L'auspicio che formula è che di fronte alle sfide della povertà materiale e morale che si esprime a livello mondiale nei tragici squilibri con i quali siamo confrontati (guerre, fame, miseria, migrazioni,...) e nel nostro piccolo con forme di egoismo, chiusura e nuova povertà (disoccupazione strutturale), l'esperienza e l'insegnamento della Chiesa, la sua dottrina sociale siano sempre più accolti come il "luogo" dove attingere la forza di creare e vivere segni di solidarietà e di speranza per tutti gli uomini. Questo libro, modesto contributo, sia un tassello del lungo e difficile cammino di riflessione e di concretezza operativa. Un ringraziamento vero, sincero esprimo ai direttori di Caritas, a tutti i Vescovi che l'hanno voluta e sostenuta, agli operatori e volontari che hanno fatto la storia di Caritas Ticino. Grazie agli storici Aldo Abächerli, Antonio Gili e Antonio Lepori coordinati in questo lavoro di ricerca da Alberto Gandolla. Grazie ai relatori del convegno del cinquantesimo, del 21 novembre 1992 a Lugano: Mons. Eugenio Corecco, Pierpaolo Donati, On. Renzo Respini, Christian Marazzi, Edoardo Bressan, Giacomo Contri, Mons. Juraj Petrovic, Jean Luc Trouillard, Mons. Giuseppe Pasini e Hubert Bausch. Grazie a Mimi Lepori Bonetti e Roby Noris, di Caritas, per i loro contributi. E grazie a tutti gli operatori, volontari e amici (sono tantissimi...!) che hanno reso possibile sia il convegno che la realizzazione di questo libro e che continuano a portare avanti l'opera della nostra Caritas diocesana perché sempre più sia il fermento di espressioni di carità che segnano la comunità e tutta la comunità nel solco della carità evangelica. Concludo con un augurio ripreso da un passaggio dell'enciclica "Veritatis splendor" (nr.88): "Urge ricuperare e riproporre il vero volto della fede cristiana, che non è semplicemente un insieme di proposizioni da accogliere e ratificare con la mente. È invece una conoscenza vissuta di Cristo, una memoria vivente dei suoi comandamenti, una verità da vivere. Del resto, una parola non è veramente accolta se non quando passa negli atti, se non quando viene messa in pratica. La fede è una decisione che impegna tutta l'esistenza. È incontro, dialogo, comunione di amore e di vita del credente con Gesù Cristo, Via, Verità e Vita (cf.Gal.2,20), ossia nel più grande amore a Dio e ai fratelli." Né posso non ricordare almeno una delle preziose esortazioni sulla carità di Papa Paolo VI: "... la carità ha in sé una grande forza evangelizzatrice. Nella misura in cui sa farsi segno e trasparenza dell'amore di Dio, apre mente e cuore all'annuncio della parola di verità. Desideroso di autenticità e concretezza, l'uomo di oggi apprezza di più i testimoni che i maestri e, in genere, solo dopo esser stato raggiunto dal segno tangibile della carità si lascia guidare a scoprire la profondità e le esigenze dell'amore di Dio", come spesso ricorda il nostro Vescovo Eugenio: "la fede passa attraverso la carità!"
Presidente di Caritas Ticino Diocesi di Lugano e carità: Parte prima
CARITÀ ED ASSISTENZA NELLA STORIA E NELLA CULTURA ATTIVITÀ CARITATIVE CATTOLICHE IN TICINO NEI PRIMI
CINQUANT’ANNI
INTRODUZIONE
Questi contributi mettono in rilievo, in modi e anche con "stili" diversi, alcuni aspetti della questione. Antonio Gili fa un interessante discorso di ampio respiro sull'assistenza a partire dal medioevo, con una serie di riflessioni generali sul tema. Aldo Abächerli, inoltrandosi in un campo sostanzialmente inesplorato, illustra nel particolare il complesso e differenziato intervento dei cattolici nel campo assistenziale durante i primi cinquant'anni (1885 1935) di esistenza della nostra Diocesi. La nascita di Caritas (avvenuta per un bisogno preciso avvertito in tempo di guerra, per iniziativa di monsignor Jelmini) e il suo sviluppo sono descritti dal sottoscritto, mentre Antonio Lepori traccia un utile riferimento sintetico dell'evoluzione della legislazione sociale del nostro cantone. Restano così fuori molti e importanti altri aspetti di tutta la problematica legata all'assistenzialismo ma, come già detto, la nostra preoccupazione non è stata quella di costruire un quadro storico esaustivo. Va da sé, per concludere questa breve nota introduttiva, che i responsabili dei singoli giudizi storici espressi in questi contributi sono gli autori stessi e non i dirigenti di Caritas Ticino.
di Antonio Gili Preliminari critici per una storia dell'assistenza ticinese dal Medioevo all'età moderna e contemporanea Parlare di carità significa parlare della "cultura della sofferenza", una cultura particolarmente viva nella tradizione sociale dei cattolici. Quando cinquant'anni or sono la nostra autorità religiosa decise di creare un'opera assistenziale diocesana, le diede significativamente il nome "Caritas", la grande virtù teologale esaltata da una celebre epistola di san Paolo. L'anima, il cuore di questa cultura marcata dalla carità è la partecipazione gratuita alla sofferenza e agli infiniti bisogni da essa suscitati. L'epoca nostra ha cercato di trasformare la "cultura della sofferenza" in statalizzazione, in sindacalizzazione, finendo spesso non solo per non saper risolvere i problemi assistenziali, ma addirittura per non saperli più affrontare nella loro dolorosa complessità d'evento totalmente umano. L'assistenza statalizzata o sindacalizzata si è tragicamente privata del suo cuore, la carità, quasi vi si è costretta; si è a volte persino vantata di abbandonarla. Se è vero che senza un'efficiente struttura assistenziale la carità finisce con il cadere in una spinta puramente sentimentale, emotiva e inerte, è altrettanto vero e sotto gli occhi di tutti che senza carità l'assistenza diviene una fredda, cieca e cinica utopia di potere. La ricognizione storica mostra in modo incontrovertibile che ad ogni epoca carità ed assistenza sono inseparabili: l'assistenza trova la sua origine e il suo alimento nella carità, così come la carità trova il suo compimento nell'assistenza (1). Lungo i secoli i due termini hanno costituito un inscindibile connubio, le cui motivazioni ideali hanno conosciuto rotture, mutamenti, ma anche permanenze, da un'epoca all'altra. Il dibattito sugli interventi assistenziali che negli ultimi due secoli ha occupato i politici e gli operatori sociali è stato spesso viziato da un'insufficiente conoscenza, se non addirittura ignoranza, dei presupposti storico culturali che sorreggono oggi la concezione dei rapporti tra pubblico e privato, tra campo laico e campo religioso. Questo ha permesso l'instaurarsi di un certo schematismo entro il quale i termini suddetti sono stati completamente ideologizzati mettendoli in assoluta contrapposizione. Chi crede di illuminare senza la necessaria consapevolezza storico culturale, ignaro degli schemi ideologizzati ereditati dal passato, in realtà non getta luce alcuna sulle questioni aperte del presente, non le chiarisce affatto ma tutto abbaglia. Sono grato ai promotori di questa pubblicazione che si sono con accortezza preoccupati di offrire agli operatori sociali, cui questo volume principalmente si rivolge, una dimensione anche storica dei problemi che si pongono oggi all'intervento assistenziale. Riandare al passato nell'individuare i nodi epocali e le motivazioni ideali che hanno caratterizzato carità ed assistenza nel corso dei secoli, darà scampo dagli schemi angusti e spero contribuirà ad una maggiore consapevolezza culturale dei non facili problemi posti dalla nuova e vecchia povertà della nostra epoca.
Chi ha avuto modo di scorrere quelle più o meno ingiallite pubblicazioni d'epoca riguardanti opere di beneficenza e carità ed istituzioni assistenziali ha certo in mente i termini di glorie municipali, civili o religiose, che caratterizzano quasi sempre la letteratura memorialistica e cronachistica locale. La storiografia erudita e tradizionale, municipalistica o agiografica, celebrativa nel suo approccio, teneva a richiamare alla memoria la cura e le attenzioni degli avi verso i bisognosi, interessata ad elogiare la generosità dei fondatori, dei promotori e del campanile, all'ombra del quale era sorta una determinata opera. Merito della più recente storiografia è stato quello di abbandonare l'angusta ottica "araldico genealogica" e "municipalistica" tradizionale, per situare la singola opera di carità, il singolo istituto d'assistenza, dentro la molteplicità degli interventi in quel campo e dentro la più vasta storia del pauperismo, fenomeno di così ampie dimensioni nelle società pre industriali. Analizzando l'atteggiamento istituzionale della società di fronte al fenomeno della povertà e le strutture assistenziali che le sono proprie, la letteratura storica ha sempre più tenuto conto delle interrelazioni tra l'aspetto giuridico formale dell'istituzione esaminata, l'aspetto tipologico economico nel quadro dei diversi sistemi di assistenza e l'aspetto storico sociale inteso a cogliere il rapporto tra la struttura assistenziale e i gangli vitali dell'organizzazione demica e umana, le relazioni tra l'ambito territoriale dei rapporti sociali e i caratteri storici del singolo insediamento assistenziale. Questi metodi di analisi hanno contestualizzato la singola realtà assistenziale nel più generale quadro di riferimento costituito dall'organizzazione della società, dai suoi moduli mentali, dalle concezioni generali, dai valori e dagli orientamenti ideali che l'hanno percorsa alle varie epoche. La storiografia ticinese ha finora poco studiato il tema dell'assistenza, integrandolo quale capitolo di opere di storia sociale più generale (2) ed esaminandolo soltanto per quel che concerne l'intervento legislativo pubblico e statuale. La stessa storiografia legata al filone del movimento cattolico ticinese (3) pur chiamata largamente in causa per le numerose opere caritative sorte in ambito religioso e "privato" non si è mai molto interessata alla storia dell'assistenza, privilegiando piuttosto gli aspetti del movimento sociale relativi al complesso di dottrine e di realizzazioni pratiche immediata mente influenti sugli equilibri politico istituzionali. Gli storici di tendenza cattolica si sono infatti occupati prevalentemente dei partiti politici o dei sindacati. Gli aneliti di riforma sociale volti all'eliminazione delle ingiustizie sociali e degli abusi economici prodotti dal capitalismo e dall'industrialismo e al miglioramento materiale e morale delle classi lavoratrici e più sfavorite, attraverso l'attività dei gruppi politici e sindacali hanno infatti una diretta ripercussione sugli equilibri di potere. Gli aneliti caritativi e assistenziali non hanno invece come fine immediato gli equilibri e le riforme politico istituzionali, ma nascono dall'urgenza umana del sollievo di certe miserie inevitabili, quali la vecchiaia, la vedovanza, l'orfanezza e la malattia, fermo restando che questi stessi mali traggono indubbi rimedi da una riforma sociale. Questo spiega in parte la grande rilevanza data dalla storiografia ticinese al movimento sociale di partiti e sindacati, a scapito dell'azione assistenziale e caritativa, settore altrettanto importante e significativo per una conoscenza più esauriente degli sviluppi storici e culturali complessivi della società ticinese. I contributi a carattere storico presenti in questa pubblicazione possano essere di stimolo nell'incentivare l'interesse per future e più compiute ricerche storiche sull'assistenza nel nostro paese.
Nel Medioevo l'attività assistenziale è definita dalla hospitalitas, concetto cui concorrono l'eredità romana e quella cristiana. Nella concezione romana prevale l'utilitas publica: plebi e fanciulli vengono nutriti ed assistiti per le evenienze belliche, preparati a soddisfare le esigenze eminentemente politiche e militari dell'impero. Nella concezione cristiana, di carattere morale e non semplicemente giuridico, viene esaltata la dignità della persona umana, così che il servizio reso al povero e al sofferente viene esemplato sul modello del servizio reso al Cristo stesso. La carità cristiana, oltre ai suoi aspetti teologicamente vincolanti attraverso cui si concretizza l'amore tra Dio e l'uomo, è vista anche come metodo di vita per una più compiuta realizzazione dell'uguaglianza sociale tra gli uomini. La storia ha divulgato ad esempio dell'innesto cristiano nella cultura romana la famosa Villa languentium, l'ospedale romano della patrizia Fabiola. L'hospitalitas è però soprattutto prerogativa di vescovi, monaci, canonici e, col tempo, anche di laici. La chiesa del primo Medioevo sancisce attraverso diverse disposizioni il dovere del vescovo di ben amministrare i beni destinati ai poveri e agli ammalati, prevedendo l'istituzione presso lo stesso episcopio di strutture idonee allo scopo e prescrivendo di destinare un quarto delle decime all'esercizio dell'ospitalità. A partire dal X secolo intervengono altre istituzioni, sia religiose, sia laicali, nell'esercizio dell'attività ospedaliera, mentre il ruolo diretto del vescovo scompare gradualmente. Agli episcopi subentrano sempre più i monasteri, le canoniche regolari e singole iniziative laicali. Sul modello delle grandi regole, benedettina o agostiniana, applicate alle esigenze proprie dei poveri e degli ammalati, l'attività assistenziale del monaco si delinea, accanto a quella del culto, a quella lavorativa e contemplativa volta alla santificazione personale, come una consacrazione religiosa, con ruoli (minister, fratres, conversi) che corrispondono realmente ad un servizio prestato. Esemplare al riguardo è la spiritualità benedettina. La Regola di san Benedetto detta infatti precise norme circa il dovere dell'ospitalità: la cura degli ospiti è affidata ad un monaco e un apposito edificio d'accoglienza è adibito nel complesso del monastero. L'attività assistenziale negli ospedali monastici è fondata sul principio dell'accoglienza di chiunque. L'ospite è tale alla stessa stregua di Cristo, per cui non è fatta alcuna distinzione sociologica, ponendo sullo stesso piano sia colui che accoglie, sia colui che dell'accoglienza è destinatario. La struttura ospedaliera medievale va intesa nel senso più ampio del termine, dagli xenodochia alle diaconie, dai nosocomi agli ospedali veri e propri. Hospitale, hospitium derivano infatti dalle radici latine di hospes e hospitalitas, dove l'ospite non è solo colui che è accolto ma al contempo anche colui che accoglie: l'ospedale è dunque istituto che significa molte cose. Identificato con Cristo stesso, per la pietà cristiana medievale il povero è "signore". Di conseguenza il povero, fuori da rigide categorie, è chiunque si trovi nel bisogno, sia esso fisico o spirituale: poveri e pellegrini, nei quali si ritrova con maggiore aderenza il Cristo; dove i poveri possono essere ammalati, vecchi, infermi, bambini abbandonati, prostitute, viaggiatori e indisposti d'ogni sorta cui dover dare alloggio gratuito, attenuando la loro solitudine, anche con la cura medica e con il soccorso di viveri, vestiti, legna e altro presso la loro dimora, preguardando nel limite del possibile la loro indipendenza ed autonomia. Questi riferimenti benedettini, almeno come ispirazione originaria, ricorrono in tutti i testi di consuetudini monastiche. Molto vicina allo spirito dell'ospitalità monastica è pure quella esercitata dal movimento canonicale nei secoli XI e XII, anche se con diverse motivazioni, tenuto conto del diverso rapporto con il mondo e la società. Mentre la hospitalitas monastica rientra tra le forme attraverso le quali vivere compiutamente l'ideale monastico in quanto tale, l'hospitalitas dei canonici facenti vita in comune è uno degli aspetti della cura animarum e rientra quindi tra i compiti pastorali della comunità sacerdotale che, attraverso di essa, cerca di sviluppare un'azione sacramentale nei confronti degli uomini del mondo. Accanto all'attività assistenziale svolta dalle strutture ospedaliere rispettivamente di vescovi, monasteri e canoniche, si affianca quella laicale, indipendente dagli ordini religiosi tradizionali. Si tratta di uomini e donne, liberi dall'impegno dei voti, uniti dal desiderio di manifestare il proprio attaccamento religioso ed ecclesiale, seguendo semplicemente la regola di vita evangelica degli apostoli, che danno vita ad associazioni ospedaliere per il servizio di carità ad ammalati, mendicanti, pellegrini, neonati abbandonati, orfani, vecchi, infermi, vedove, meretrici, tutti pauperes Christi (poveri di Cristo), immagini del Signore che danno occasione anche a queste persone laiche di esercitare la carità pro remedio animae (a salvezza della propria anima). L'esempio di Cristo, sempre pronto ad aiutare e guarire, guida la vita apostolica di questi movimenti laicali, che prendono le mosse dalla riforma ecclesiastica gregoriana del secolo XI, tesi al rinnovamento religioso di una Chiesa, alla cui vita vogliono avere parte più attiva. I secoli XI e XII sono un'epoca di ripresa economica e sociale, segnata dalla feconda esperienza comunale e dall'intensificarsi degli scambi commerciali e dei traffici, la cui scena è dominata dalle città. Il nuovo ordinamento comunale, la crescente domanda di inurbamento delle classi provenienti dal contado, i nuovi ceti emergenti dei mercanti, dei commercianti e dei nuovi proprietari terrieri, sono tutti fattori che concorrono a trasformare profondamente l'assetto cittadino. Sorgono allora nuovi ospedali, la cui fondazione non è più dovuta o non soltanto all'iniziativa vescovile o a quella degli altri enti ecclesiastici (monasteri, canoniche), ma a laici facoltosi (artigiani e commercianti), corporazioni e fraternità laicali. L'ospedale di Lugano, la cui fondazione risale allo scorcio del XIII secolo (4), è un esempio a noi vicino, che rispecchia pienamente quanto descritto finora. Esso è aperto da una fraternità di Umiliati, il movimento laicale allora fiorente di iniziative ospitaliere in tutta la Lombardia fino ai valichi alpini e attivissimo nel commercio della lana (5). L'ospedale luganese, intitolato a Santa Maria, dava ospitalità ai poveri e ai pellegrini. La sua gestione, un po' dopo la metà del XV secolo, passa infine nelle mani dell'amministrazione borghigiana stessa, rappresentata da suoi delegati nel governo dell'istituto. A Lugano, come dappertutto, questo fenomeno di corporativizzazione e di privatizzazione laicale delle strutture ospedaliere porta all'esplodere di tensioni con il vescovo, al quale per l'ordinamento canonico o comunque per tradizione di riconoscimenti statuali spettava sempre il controllo degli enti ospedalieri. D'altro canto lo stesso fenomeno prelude alla politica di concentrazione, di controllo e di gestione diretta della rete ospedaliera, specialmente urbana, condotta tra la fine del Medioevo e l'inizio dell'età moderna, dalle realtà di potere incarnate vuoi dai nuovi Stati monarchici e regionali, da noi in primis il ducato di Milano e, più tardi, i Cantoni svizzeri sovrani cui i nostri territori sono sottomessi a partire dal XVI secolo.
Il passaggio dal Medioevo all'età moderna segna, nel campo assistenziale, mutamenti profondi e durevoli, che per molti versi costituiscono il presupposto stesso dell'attuale tipo di civiltà. Cambiano infatti la concezione e la modalità dell'assistenza, con l'effetto tanto di una maggiore durezza nei confronti dei poveri quanto di un crescente controllo statale nei riguardi degli istituti benefici. Nel XIV secolo l'intervento dei poteri civile ed ecclesiastico si dispiega sempre più nelle grandi concentrazioni ospedaliere e si pongono così le basi istituzionali nuove dell'età moderna che sta per cominciare. Parallelamente la situazione sociale conosce allora un rapido deterioramento, con l'accentuarsi degli squilibri sociali prodotti da un processo di accumulazione primitiva del capitale: i poveri assumono le caratteristiche di un ceto definibile in rapporto alla sua mancata partecipazione alla distribuzione della ricchezza. Peggiora la qualità della vita, cresce l'insicurezza delle popolazioni in un'Europa preda di ricorrenti crisi alimentari e di epidemie devastatrici. I ceti dirigenti avvertono la pericolosità di questa situazione esplosiva e la conseguente esigenza di un controllo sociale, che trova un primo e significativo riscontro nell'immediata ristrutturazione degli interventi assistenziali. Le autorità pubbliche concentrano le loro preoccupazioni più sui pericoli della miseria che sulla miseria stessa, individuando nei poveri un fattore decisivo di stabilità e di equilibrio politico, sociale ed economico. Accanto a un problema di "soccorso", si pone un problema di ordine pubblico, di "polizia", come dimostrano i provvedimenti che accompagnano o che comunque seguono la riorganizzazione assistenziale del XV secolo. In questo mutato orizzonte di valori, entro cui assumono un ruolo anche l'importanza attribuita al denaro e il culto dell'attività umana, il povero non è più il "povero di Cristo" della precedente respublica christiana, al quale era dovuto assistenza e ospitalità per il fatto stesso di essere nel bisogno, ma un soggetto potenzialmente pericoloso, da reprimere o da internare, oggetto di crescente sospetto e di attenzione poliziesca. Gli intenti di globalità, uniformità e segregazione si affiancano a quello di assistenza, e sempre più spesso si usa il sostantivo "carcere" come sinonimo di ospizio e il verbo "rinchiudere" come sinonimo di "soccorrere". Il povero ha diritto all'assistenza solo se la sua povertà è incolpevole, provocata cioè da vecchiaia, malattia o invalidità; in caso contrario, scatta per lui il meccanismo dell'internamento coatto con il lavoro obbligatorio. La parola d'ordine è l'assistenza per mezzo del lavoro; sembra diventi obsoleto il precetto di Sant'Agostino: "L'elemosina cancella il peccato come l'acqua spegne il fuoco", si cita invece più volentieri quello di san Paolo: "Chi non vuol lavorare stia a digiuno". La maggior parte degli ospizi settecenteschi epoca in cui giunge al culmine quella che Michel Foucault (6) ha definito politica della "grande reclusione" sembra basarsi sulla definizione usata da Montesquieu nell'Esprit des Lois: "Un uomo non è povero perché non possiede niente, ma perché non lavora" (7). La nuova linea di condotta, chiaramente attestata dalle varie legislazioni sui poveri che si susseguono in Europa dal XVI al XVIII secolo, è dettata principalmente da esigenze di conservazione sociale, di equilibrio fra dominanti e dominati, che, all'interno di un contesto in rapido sviluppo, si pongono con assai maggiore urgenza che non nella "statica" società medievale. Dalla rinascita comunale in poi, all'interno di questo processo, viene realizzandosi sempre più compiutamente il tentativo, da parte delle nuove classi in ascesa, di controllare a proprio vantaggio l'aumento del benessere: chi ne è forzatamente escluso, resta emarginato a poco a poco dalla stessa vita civile. Nei bandi contro i poveri emanati dai capitani reggenti (lanfogti) nei baliaggi ticinesi durante l'antico regime (8), analoga mente a quanto avviene allora in tutti gli altri paesi europei, scompare, in un certo senso, il povero e nasce la figura dell'"ozioso", del "pitocco", del "vagabondo" o del "pazzo", con risultati analoghi a quelli ottenuti agli albori della stessa età moderna dalla lotta contro le streghe o dalla persecuzione nei confronti degli ebrei. Questi provvedimenti contro la mendicità da parte dei Cantoni svizzeri sovrani si inquadrano tanto nel contesto europeo cui si è fatto cenno, quanto nell'ambito delle preoccupazioni morali e religiose del periodo post tridentino. Il punto di rottura tra amore cristiano, così come l'aveva avvertito il Medioevo, e la filantropia dell'età moderna, sta nella concezione dell'assistenza. Si può affermare che fino alla controriforma la funzione di riequilibrio sociale era svolto dalla carità medievale nelle sue molteplici espressioni cittadine o borghigiane associative, solidaristiche: ospizi, ospedali, confraternite. Dopo tale epoca, specie a partire dal XVII secolo, a tali espressioni subentrano forme di aiuto gerarchizzate e centralizzate, nelle quali l'ideale non è più tanto la salute dell'anima di chi offre assistenza, di chi da, ma quella di chi riceve l'assistenza, di chi, in quanto peccatore, deve essere accolto e mutato nel carattere. La cesura storica fra carità cristiana da una parte e filantropia moderna dall'altra, trova affermazione in una nuova concezione dell'assistenza in epoca moderna, in cui non è più tanto in gioco la "santificazione personale" nell'aiuto recato all'altro, quanto piuttosto un progetto di controllo sociale, di natura ideologica. Il povero è gradualmente privato di ogni connotato sacrale e diviene sempre meno il bisognoso che la carità cristiana accoglie, mossa dall'esperienza suscitata dall'avvenimento dell'Incarnazione. Il povero diviene piuttosto l'individuo socialmente pericoloso che l'organizzazione costituita preoccupata di salvaguardare l'immagine sempre più ideologizzata e moralizzatrice che ha di se stesa intende in vario modo emarginare e, in un secondo tempo, se possibile, reinserire nella vita attiva della società. Naturalmente bisogna stare attenti a non cadere in uno schematismo forzato nel distinguere la carità come accoglienza (come hospitalitas), propria del Medioevo cristiano, dalla carità come controllo sociale, che caratterizza invece l'età moderna. Nonostante le forme apertamente repressive di assistenza, maturate con i moderni stati assoluti e gestite direttamente da organismi pubblici in un'ottica di polizia, persiste nel tempo una mentalità ancora legata ai tradizionali valori della charitas: i pauperes Christi, formula cara alla tradizione medievale, cosi ricca di contenuto etico e religioso, non è del tutto debilitata dall'idea di assistenza dell'età moderna. La linearità percorsa dalla nuova immagine del povero in età moderna, con la "grande reclusione" che caratterizza gli interventi del potere, al di là delle dichiarazioni teoriche, incontra infatti anche ostacoli, resistenze, o anche soltanto lentezze, dovute al permanere del riferimento alla tradizione medievale nella concezione della povertà. La società medievale non è soltanto una determinazione temporale, ma anche un riferimento ideale, che, come tale, riesce a sopravvivere. Ogni città europea, ogni paese, presenta caratteri nel rapporto con il pauperismo che possono essere assai specifici, per situazione, per mentalità, per cultura, per l'organizzazione economica. Occorre dunque evitare semplificazioni e generalizzazioni, vero che alla fermezza repressiva verso i poveri del potere sul piano nazionale, contrastano le difficoltà incontrate in ambiti locali nel realizzare pienamente e con successo le intenzioni delle autorità centrali, per la complessità delle opinioni e delle dottrine ivi esistenti sulla povertà e di tradizioni benefiche peculiari di una determinata comunità regionale. 4. L'istituzione ospitaliera ed assistenziale a Lugano nel Medioevo e in età moderna: un'esperienza storico giuridica utile ad una più feconda interpretazione del rapporto tra "pubblico" e "privato" Le comunità medievali non conobbero i conflitti tra società civile e società religiosa, così come li ha conosciuti la cultura di derivazione illuministico borghese dopo la rivoluzione francese: la vita dell'uomo medievale si caratterizza per la sua integrità, immersa in una cultura che vive in unità ciò che è umano e immanente, con ciò che è religioso e trascendente. L'età moderna rivendicò la distinzione tra sfera religiosa e sfera civile; non si tratta però ancora di un conflitto culturale e ideologico tra comunità religiosa e comunità civile, ma di una semplice distinzione sociologica. Il conflitto germinò durante il secolo dei lumi, caratterizzando poi l'età contemporanea. Con il pensiero razionalista si passò da una concezione unitaria della distinzione tra religioso e civile, tra ecclesiastico e temporale, ad una concezione dualistica del rapporto tra i rispettivi ambiti. Lo stesso pensiero religioso moderno, attraversato dalla riforma protestante, riflette questo dualismo sul piano sociale e culturale e, più in generale, nella separazione tra fede e ragione nell'uomo. Una delle conseguenze di questa evoluzione fu il conflitto di competenze sorto tra autorità civile ed autorità religiosa a partire dalla riforma e dalla controriforma. Se nel Medioevo la distinzione tra civile e religioso aveva indicato soltanto una diversità di origine e di provenienza, dal XVI secolo essa connota invece un conflitto di competenze: una conflittualità però ancora solo di natura politica e giuridico amministrativa, che non comporta ancora quelle tensioni etico culturali e ideologiche d'epoca illuminista e rivoluzionaria. Durante l'antico regime rimase infatti radicato nella sostanza e largamente diffuso il sentimento religioso con i suoi referenti simbolici nella vita sociale e istituzionale. Il rifiuto del fatto religioso col suo relativo misconoscimento da parte dell'istituzione civile maturò solo più tardi, alla caduta dell'antico regime. Fino ad allora l'istituzione civile riconobbe il fatto religioso ed ossequiò le istituzioni religiose. Per l'istituzione civile il fatto religioso, la tradizione cristiana, erano accettate e integrate come elementi capaci di rafforzare attraverso vincoli sacrali l'unità del gruppo sociale; unità del resto già in atto naturalmente a partire dai bisogni e dalle urgenze materiali e terrene, propri della stessa comunità civile. Il potere civile partecipava alla vita religiosa con gesti di devozione pubblica, vissuti per se stessi o meno, comunque in funzione di un'unità sociale e politica che se non aveva necessariamente sempre il suo fondamento reale nell'autentica fede, l'aveva perlomeno nei gesti comunitari imposti dalla necessità della sopravvivenza del corpo sociale e della salvaguardia del potere costituito. Gli interventi delle autorità borghigiane di Lugano attraverso le sue istituzioni ospedaliere ed assistenziali nel corso dei secoli, alla luce di quanto si è detto, dimostrano come sarebbe insensato applicare alle società del passato le nostre odierne categorie di "religioso", di "civile", di "laico", di "privato", di "pubblico", fondate come sono su pregiudizi di derivazione illuministico borghese che hanno largamente determinato la prassi politica storicamente egemone del nostro Cantone. La storia settecentenaria dell'ospedale di Lugano (9) cui si è già fatto cenno per l'epoca medievale in un precedente capitolo illustra assai bene come, fuori dalle consuete contrapposizioni ideologizzate contemporanee, tanto schematiche, si possano trovare ben più aperte e feconde interpretazioni del rapporto tra "pubblico" e "privato" nel campo assistenziale, come pure in tutti gli aspetti della società civile. La vita di una comunità borghigiana come quella di Lugano, segnatamente e in un modo del tutto esemplare la storia del suo ospedale di Santa Maria, antenato dell'odierno Ospedale Civico, riflettono la reciprocità tra società civile e società religiosa, tra sfera pubblica e sfera privata, tipica dell'età medievale e che perdura per tutta l'epoca moderna fino alla rivoluzione francese. Non deve destare meraviglia che a Lugano, come ovunque nell'Europa dell'antico regime, si costruiscano o si ingrandiscano e adornino tante belle chiese, ricche di opere d'arte, nella maggior parte dei casi ancor oggi oggetto della nostra ammirazione. Le autorità dell'antico borgo, interpretando i sentimenti religiosi delle comunità locali, prendono spesso l'iniziativa direttamente oppure ne assumono il patronato, approvano i progetti degli ordini religiosi residenti (francescani, cappuccini, somaschi) e delle locali confraternite, contribuendo con cospicue elemosine, cessioni di terreni. Gli atti del Consiglio del Borgo, come pure quelli del Consiglio della Comunità di Lugano consesso che riuniva le quattro pievi di Lugano, Riva S. Vitale, Capriasca e Agno , infarciti d'invocazioni a Dio Onnipotente e alla Santissima Vergine, rivelano, insieme al disbrigo degli affari amministrativi politici, militari ed economici, anche avvenimenti, episodi, singoli o collettivi, della vita religiosa luganese, seguita e protetta, talora in un certo qual modo diretta dalle stesse autorità costituite, le quali, in ossequio alla gerarchia ecclesiastica (vescovo di Como e Capitolo di S. Lorenzo), sapevano convenientemente tutelare i diritti e le ragioni della comunità nei confronti dei Cantoni sovrani svizzeri e del limitrofo Stato di Milano. Non c'è pertanto da stupirsi se certe iniziative d'impronta religiosa non siano proprie delle autorità religiose medesime. I rappresentanti delle autorità civili borghigiane, come i fabbricieri delle chiese (addetti al buon esercizio dei luoghi di culto) o i "Deputati dell'Hospitale", partecipano puntualmente alle funzioni religiose. I suoi membri, spesso membri influenti dell'una o dell'altra confraternita, le vogliono decorose e solenni, con musica e bel canto, portano a turno il baldacchino nelle processioni, fanno offerte e legati. Il Consiglio Generale della Comunità del Borgo, dal 1590 divenuto il Consiglio dei XXXVI, dal numero dei suoi membri, deputato a stabilire la distribuzione delle messe al Capitolo di S. Lorenzo e ai conventi, fissa pure le elemosine alle case religiose dei frati conventuali, dei frati riformati e dei cappuccini luganesi; provvede alla nomina del predicatore per l'annuale Quaresima, designa una propria delegazione ai ricevimenti del vescovo di Como, dell'arcivescovo di Milano, del nunzio a Lucerna; ordina le funzioni devozionali straordinarie nei tempi di siccità, di carestia o di epidemie; elargisce offerte per messe, tridui e benedizioni da celebrarsi in onore della Madonna o di santi e patroni; dispone per l'esecuzione dei voti fatti in contingenze calamitose e in tempo di peste; cura, accanto all'istruzione generale, quella religiosa, con l'insegnamento della dottrina cristiana nelle chiese; salaria i maestri e i "pescatori" (addetti alla raccolta dei fanciulli nelle piazze per avviarli alle pratiche religiose in chiesa); nomina l'"anziano" (sovrintendente ai funerali), il campanaro, l'organista di S. Lorenzo e di S. Maria (la chiesa dell'ospedale). Questa correlazione tra società civile e religiosa, che contraddistingue nel passato un rapporto peculiare tra "pubblico" e "privato", tra istituzione statuale e società, trova applicazione anche nel campo che qui interessa, quello dell'assistenza, insieme alla cura medica e sanitaria, allora compresa nell'attività dell'istituto ospedaliero borghigiano. Le sorti dell'ospedale di S. Maria di Lugano riflettono il processo di "comunalizzazione" già ricordato per tutti gli ospedali e le città europee ad opera della nascente borghesia urbana (10). Nel corso del XV secolo i "vicini" (patrizi) del Borgo, il gruppo di famiglie autoctone più antiche, acquista potere, tanto da sovrapporsi poco a poco agli Umiliati (la fraternità laicale medievale all'origine della prima casa ospitaliera di Lugano) nell'amministrazione dell'ospedale borghigiano, cogliendo occasione anche dal perdurare di un periodo di gestione dell'istituto poco rigoroso e affatto oculato. Nel 1479 (11) il Consiglio Generale nomina quattro persone, dette "Deputati dell'hospitale", ognuno rappresentante le quattro più antiche contrade di Lugano (Nassa, Cioccaro, Verla e Canova), appartenenti alle famiglie locali più influenti, per le quali intervenire nella gestione dell'ospedale significa mettere le mani nell'amministrazione di un patrimonio non indifferente e partecipare delle sue rendite. Per gli alti valori da esso rappresentati e per l'importante funzione sociale da esso svolta, l'ospedale concorre all'ascesa sociale della borghesia luganese, le cui facoltà economiche le permettono di intervenire nel sanare i crescenti bisogni di una popolazione impoverita dalle guerre intestine tra i Rusca e i Sanseverino (investiti dal Duca di Milano dei territori luganesi), dal malgoverno, dai disordini, dalle discordie, vendette, ruberie, rapine, come pure dai cattivi raccolti, dalle carestie ed epidemie di peste che sconvolgono il XV secolo in tutto il Sottoceneri. Le famiglie borghesi cominciano a prendersi cura delle opere di beneficenza, risolvendo i problemi di spazio causati dal continuo aumento demografico e dalle poche stanze che dovevano allora costituire l'edificio ospedaliero borghigiano. Questo processo di "comunalizzazione" tardomedievale non lo si può ancora intendere nel senso di una secolarizzazione e laicizzazione degli interventi assistenziali e ospedalieri. L'organismo civile, incarnato dal potere statuale, sul piano locale espresso dalle famiglie borghigiane di commercianti, artigiani e mercanti, si limita a svolgere soltanto un ruolo di coadiutore nell'amministrazione dell'ospedale, la conduzione dell'istituto restando sempre d'impronta nettamente religiosa, con la garanzia dell'assistenza religiosa e spirituale da parte delle componenti laiche borghigiane. Permane la finalità religiosa e lo specifico compito pastorale del vescovo di Como alla cui giurisdizione era allora sottoposto il Luganese come giustificazione dell'intervento della componente ecclesiastica nella gestione dell'ospedale, alla stessa stregua di tutti gli altri enti diocesani di interesse pubblico spirituale. Il carattere peculiare di questo modo di governo dell'ospedale sta nel fatto che i suoi amministratori non sono privati, ma membri delle famiglie più influenti e più addentro alla cosa pubblica del Borgo: elemento assai significativo di un'avvertita coscienza del carattere di interesse pubblico riconosciuto ad una fondazione come l'ospedale. Non si tratta ancora di conflitti con l'autorità ecclesiastica di tipo giurisdizionale, quanto di una più avveduta consapevolezza del carattere di ente di pubblico interesse che l'istituto ospitaliero, pur soggetto alla giurisdizione del vescovo e riconosciuto nelle sue finalità religiose, va assumendo. L'ospedale, inteso come "luogo pio", viene così costituendo, dalla fine del XV secolo in poi, un'unità amministrativa autonoma, dipendente dal "Consiglio Generale della Comunità del Borgo" che deve render conto alla corona del duca di Milano nella persona del Capitano ducale. Con gli inizi del XVI secolo i territori ticinesi passano sotto il dominio svizzero, diventando baliaggi dei tredici Cantoni elvetici, i quali inviano a governarli un capitano reggente (lanfogto) nelle rispettive circoscrizioni sotto e sopracenerine. È a partire da quell'epoca che agisce la "Congregazione del Venerando Hospitale di Lugano" (12), quale unità amministrativa autonoma, composta dai quattro "Deputati dell'Hospitale" otto, due per contrada, dalla fine del XVI secolo fino al 1757 sotto la cui direzione operavano un "fattore" ("minister" all'epoca umiliata) e un "caneparo" (tesoriere). I Deputati dell'ospedale siedono al contempo nel Consiglio Generale della Comunità del Borgo, più tardi consiglio dei XXXVI, l'autorità borghigiana che deve rendere conto al lanfogto di Lugano rappresentante i Cantoni sovrani nel baliaggio. Deputati, fattori, canepari, cappellani, medici, chirurghi, "barbitonsori" (cerusici) dell'ospedale, nominati dal Consiglio borghigiano, portano i più bei nomi della borghesia patrizia luganese, composta da attivi ed intelligenti operatori economici e validi professionisti, cui si deve riferire l'origine della beneficenza "laica" ed il suo potenziamento finanziario per mezzo di lasciti e donazioni lungo i secoli; si tratta dei Riva, Bellasi, Somazzi, Laghi, Castagna, Castoreo, Quadri, Rovelli, Torricelli, Pocobelli e altri ancora. La "Congregazione del Venerando Hospitale" di Lugano è una congregazione civile, quasi sovrana, che determina la configurazione dell'ospedale, dalla sua gestione interna allo svolgimento esterno delle molteplici forme di elemosina svolte alle porte dell'antico borgo, fra le quali la più importante è la questua fatta dagli stessi Deputati dell'ospedale nelle occorrenze natalizie. L'"Hospitale di Santa Maria" di Lugano gode così a quei tempi, grazie all'interesse del potere costituito dalle locali famiglie borghesi per la sua funzione sociale, di una particolare condizione di favore e di privilegio nell'ambito dell'ordinamento civile, così come è stato delineato nel diritto milanese per hospitalia e pia loca lombardi (13). Il modello è quello di ente "ecclesiastico laicale", ente cioè che gode di esenzioni religionis causa, ma che non è soggetto ad alcuna limitazione nella sfera civile e può dunque operare a pieno titolo nella realtà sociale. L'ospedale si situa all'incrocio della giurisdizione ecclesiastica e di quella civile, conservando i diritti garantiti dalle leggi statuali dei Cantoni svizzeri e godendo nello stesso tempo di numerosi privilegi ed esenzioni di natura ecclesiastica. Se da un lato l'ospedale deve considerarsi come un'integrazione dell'ordinamento ecclesiastico propriamente detto, per il fatto di perseguire uno scopo pio e di esplicare delle attività religiose, di culto e caritative, dall'altro il suo essere privo dell'erezione canonica a causa della sua origine laicale benché religiosa la fraternità di Umiliati e successivamente il suo essere composto e diretto esclusivamente da persone fisiche laiche, il non mai rivestire il carattere di elemento strettamente indispensabile alla vita e al funzionamento della Chiesa, ce lo fa apparire come ente intermedio e quasi di collegamento tra l'ordinamento ecclesiastico e quello statuale, tra la società religiosa e quella civile. La sua posizione amministrativa, sottoposta al controllo delle due autorità, il vescovo di Como da una parte, dall'altra i Cantoni svizzeri sovrani, rimane largamente autonoma, mentre l'intervento del potere politico attraverso il Consiglio del Borgo si configura soprattutto in termini di coordinamento legislativo. Il vescovo di Como rivendica soltanto il diritto di vigilanza e di visionare i conti annuali, limitandosi, specialmente nei secoli di dominazione svizzera, a un riconoscimento susseguente che non comporta le restrizioni tipiche delle persone ecclesiastiche, grazie al fatto che l'esistenza di un siffatto ospedale come persona giuridica, capace di possedere ed agire, nella dottrina e nella prassi, non dipende dall'erezione canonica o da una formale approvazione da parte dell'autorità ecclesiastica, ma ha nello stesso fine perseguito dall'ospedale, e cioè nella causa pia o nella causa religionis, il proprio fondamento e la propria giustificazione. Su queste basi giuridiche e, in fondo, culturali viene del resto a fondarsi a quell'epoca la stessa vitalità delle confraternite, scholae in età medievale, che per secoli animano la vita borghigiana, assumendo in proprio l'iniziativa di venire incontro a bisogni e situazioni particolari, nel contesto di una civitas gelosa delle sue prerogative e della sua libertà. Vediamo così la Confraternita della Buona Morte, già Scuola dei Disciplinati di Santa Marta nel Medioevo, occuparsi dell'assistenza ai carcerati, ai condannati a morte e ai moribondi, provvedendo al loro accompagnamento al patibolo, rispettivamente al seppellimento dei defunti nel borgo (14), la Confraternita di San Rocco, dal canto suo prender cura degli orfani (15). Si tratta chiaramente di un equilibrio giuridico istituzionale non facile, destinato a incrinarsi nel nuovo clima post tridentino, ma che evidenzia una modalità particolare di gestione dell'assistenza, per così dire "laica" e "civile", non ecclesiastica e non statale, eppure non certo lasciata all'arbitrio di forze individuali o degli interventi politici; con ciò non si vuole minimizzare il fatto che a fruire di tale libertà ed autonomia sia una parte dei borghigiani luganesi, né sottacere l'esistenza di rigide gerarchie sociali, quantunque nella fattispecie meno chiuse delle oligarchie di altre città svizzere e pur sempre vincolate da un rapporto di sudditanza politica al potere dei Cantoni svizzeri. È giusto però indicare nell'esperienza ospitaliera e benefica luganese un modello che è alla base di una lunga stagione di libertà ed insieme efficienza dell'attività assistenziale. Dopo il Concilio di Trento, come reazione alla controriforma, sfera statuale e sfera ecclesiastica assumono una loro spiccata distinzione, avviandosi verso un processo di marcata autonomia, che sfocia in conflitti di competenza tra foro secolare e foro ecclesiastico a riguardo della gestione dell'ospedale: a partire dal XVII secolo l'autorità ecclesiastica tiene a rivendicare con più forza i propri diritti negli affari dell'ospedale di Lugano, costretti dalla politica sempre più intervenzionistica dei Cantoni svizzeri sovrani. I conflitti non sono ormai più assorbibili nella più ampia realtà concettuale e culturale della societas christiana medievale, ma si inaspriscono e si acutizzano man mano il potere secolare riacquista coscienza del proprio ruolo nei confronti di quello religioso della Chiesa. Nel 1616 i Cantoni svizzeri sovrani danno istruzioni nei baliaggi ticinesi che riflettono lo spirito secolarista proprio dei paesi di fede riformata che avevano secolarizzato gli antichi istituti religiosi di pubblica beneficenza, secondo i dettami dell'ordinanza luterana del 1522 per la chiesa di Wittemberg e specialmente di quella del 1525 per l'istituzione di una Cassa Comune di Lipsia: da esse derivano i principi fondamentali nei Cantoni protestanti dell'organizzazione della beneficenza. Questa politica di secolarizzazione incontra però resistenze nei Cantoni cattolici, segnatamente nei baliaggi ticinesi rimasti attaccati all'antica fede. Nel 1632 i Deputati dell'ospedale di Lugano sono confrontati con l'intervenzionismo sempre più marcato dei Sindacatori svizzeri rappresentanti dei Cantoni sovrani per il disbrigo annuale a Lugano degli affari nei baliaggi ticinesi tanto da dover rifiutare, a causa delle sovrane pressioni, il consueto diritto al vescovo di Como, nella circostanza a Lugano in visita pastorale, di esaminare il bilancio annuale del locale ospedale. Il vescovo minaccia allora la scomunica ai Deputati dell'ospedale nel caso intendano perseverare nel rifiuto dei conti. La Dieta di Baden del 1638, che riunisce i Cantoni svizzeri, arriva a diffidare la scomunica. Monsignor Lazaro Carafino, allora vescovo di Como, respinge la proposta del Consiglio del Borgo di Lugano, disposto a sottoporgli segretamente i conti, a condizione che egli si esima da ogni ordine o direttiva sull'amministrazione dell'ospedale. Il vescovo non accetta il compromesso dei borghigiani luganesi e dà corso alla scomunica comminandola ai Deputati in carica dell'ospedale. I sudditi luganesi chiedono allora l'intervento dei Cantoni sovrani, i quali interpongono i loro uffici presso il Nunzio apostolico. Nel 1641 l'inviato vaticano comunica a Lugano di avere l'autorizzazione da Roma a levare la scomunica. Una delegazione luganese, il 2 aprile 1642, si reca a Lucerna per l'assoluzione, così che la scomunica è tolta. I conflitti tra i due fori continuano senza che le parti arrivino a un accordo con la Santa Sede, mancando il quale i Luganesi, vincolati da ordini tassativi e da comminatorie di pene da parte dei Cantoni sovrani, rendono i conti soltanto al Sindacato annuo di Lugano. Nel 1653 di nuovo Monsignor Carafino presenta alla Dieta dei sette Cantoni cattolici il postulato che non gli si impedisca l'esercizio della tradizionale giurisdizione sull'ospedale di Lugano. Per non turbare la pace religiosa, raggiunta dopo dolorosi conflitti, quei Cantoni rispondono di voler attenersi a quanto stabilito dai dodici Cantoni alla Dieta di Baden del 1638. Quando nel 1675 il nuovo vescovo Ambrogio Torriani avanza la stessa rivendicazione, il Consiglio del Borgo di Lugano si proferisce di sottoporre l'affare ai Cantoni (16). La pendenza non ha però seguito e sarà de facto risolta soltanto alla caduta dell'antico regime, con la proclamazione nel 1798 dell'indipendenza ticinese e nel 1803 dell'autonomia cantonale. Sul piano istituzionale l'approfondimento della distinzione tra ospedali "laici" ed "ecclesiastici", con gli inevitabili contrasti sulla natura di un istituto come quello ospitaliero di Lugano, distinzioni sorte nel clima post tridentino e ideologizzate in età illuministica, apre la strada all'ingerenza dei governi e al processo di laicizzazione in età contemporanea, culminate nell'estromissione della Chiesa dai principali ospedali, avvenuta quasi ovunque nel corso del XIX secolo, e che a Lugano ha il suo punto d'inizio nel 1801, alla cui data la Municipalità di Lugano avoca a sé direttamente l'amministrazione dell'ospedale di S. Maria. I decreti d'età napoleonica, i mutamenti culturali, i perfezionamenti tecnici, il rinnovamento legislativo e strutturale delle istituzioni che avvengono nel secolo scorso, cui accenniamo al prossimo capitolo, portano a distinguere la funzione ospitaliera di cura agli ammalati e agli infermi, da quella generale di ricovero ed assistenza, di ente di beneficenza. Le due funzioni, quella medico sanitaria e quella assistenziale, da sempre contestualmente esercitate nel medesimo istituto ospitaliero e poste al servizio non solo dell'ammalato ma dell'uomo nei suoi complessi bisogni, vengono definitivamente separate nel corso dell'Ottocento, contemporaneamente alla necessaria specializzazione imposta dal progresso medico sanitario: gli ospedali di Lugano e Bellinzona si trasformano in tal senso durante gli ultimi decenni di quel secolo. Per la stretta relazione nel passato tra pratica sanitaria e pratica assistenziale, tra settore medico sanitario e socio sanitario con attinenza al pauperismo, qualsiasi indagine sui nosocomi in senso moderno è costretta a dilatare il proprio occhio in un orizzonte più comprensivo e a proporre l'interrogativo circa il significato culturale e ideale di quella preesistente unità d'intervento assistenziale sulla persona ammalata accanto alla persona socialmente in difficoltà: l'odierno dibattito in tema di politica sanitaria e sociale può trarre stimolo da questo interrogativo. Le caratteristiche giuridico amministrative, descritte in questo capitolo, sollevano importanti questioni anche per il dibattito odierno sull'assistenza e le sue istituzioni. La cultura contemporanea, se ne avesse avuto una maggiore cognizione col riprenderle e approfondirle, chissà che non avrebbe evitato quegli eccessi in fatto di progetti statalizzatori o di difese privatistiche insieme a quella dell'assistenza si pensi alla questione scolastica di cui sono ricche la pubblicistica storica e l'azione politica nel nostro Cantone. Certo se "privato" deve per forza significare "non pubblico" peggio essere confuso con "lucro" e "pubblico" unicamente ciò che è "statale", l'equivoco, tanto nella storia quanto nella politica, appare inevitabile (17).
La storiografia ticinese tradizionale, debitrice della cultura storica romantico liberale ottocentesca, dipingeva i secoli di sudditanza del Ticino ai Cantoni elvetici, come un'epoca buia, dura e amara. La più recente storiografia, pur riconfermando le tipiche contraddizioni e gli indubbi abusi del regime d'epoca lanfogtesca, senza arrivare a pagare lo scotto ad una cultura come quella dell'antico regime ancor priva delle libertà repubblicane, ha mitigato i giudizi della vecchia storiografia, riconoscendo la relativa autonomia politico amministrativa di cui poterono tutto sommato godere i baliaggi ticinesi sotto il governo sovrano dei Cantoni svizzeri in settori come la sanità e l'assistenza, dove le secolari ed esperimentate consuetudini delle comunità locali continuarono ad essere rispettate e riconosciute. I Cantoni sovrani avevano tutti i vantaggi nel delegare agli organismi locali il provvedimento dei poveri, fermo restando il loro diretto intervento per l'ordine pubblico, attraverso disposizioni sovrane contro il vagabondaggio. L'autonomia è caratteristica peculiare come si è già visto dell'ospedale S. Maria di Lugano, ma avremmo facilmente la stessa situazione indagando la storia degli altrettanto vetusti ospedali di Locarno (S. Carlo) e di Bellinzona (S. Giovanni), e di vari altri ospizi ticinesi sorti in epoca medievale (Pollegio, Biasca, Mendrisio, ecc.) (18). L'autonomia è tratto saliente anche delle opere pie e delle confraternite. Esse si attestano non solo nei borghi ticinesi ma anche nel contado, dove vigono con persistente continuità, sopravvivendo agli stessi rivolgimenti politici epocali, strutture comunitarie di radicata solidarietà come le parrocchie e organismi civili di proprietà e di produzione come le vicinanze (patriziati). Ospedali, opere pie, confraternite, mancando un progetto governativo di controllo politico e sociale unito a esigenze di razionalizzazione dell'assistenza da parte dei Cantoni sovrani, rimangono nel tempo libera espressione popolare, laica, senza divenire un organismo statale e senza inserirsi nell'ordinamento ecclesiastico. I grandi mutamenti avvengono in seguito alla Rivoluzione francese, all'epoca dell'espansione napoleonica in Europa, durante la quale è attuata una massiccia e accentuata laicizzazione dell'assistenza. Le armate del Direttorio occupano anche la Svizzera e i territori ticinesi. È il periodo della Repubblica Elvetica e dei moti per l'Indipendenza ticinese che vedono a Lugano l'instaurarsi di un Governo repubblicano provvisorio (1798 99) e per il Ticino la conquista (1803) della sovranità cantonale svizzera. La politica rivoluzionaria e giacobina fa della laicizzazione dell'assistenza un cardine del suo programma politico sociale, trasferendo nella prassi le istanze illuministiche: l'interesse della repubblica nella sua concreta attuazione non tollera più la presenza di obiettivi di tipo religioso morale e l'intervento di strutture ecclesiastiche nell'approccio alla povertà. Questo processo di laicizzazione dell'assistenza va messo in relazione con l'azione avversa alla Chiesa spiegata da alcune forze intellettuali fin dal secolo dei lumi. Durante e dopo la Restaurazione, terminato il periodo rivoluzionario con la sconfitta di Napoleone nel 1814, il processo di laicizzazione dell'assistenza va messo invece in relazione con l'evoluzione complessiva dell'assistenza stessa in senso "borghese", all'interno della quale resta certamente l'aspetto anti ecclesiastico senza però essere il più importante (19). Benché la più spiccata intransigenza laico liberale del Ticino politico contemporaneo, di fede illuministica e giacobina, sostenga l'opportunità di una gestione pubblica delle opere assistenziali, sottratta alla dispersa iniziativa privata e soprattutto al prevalente indirizzo religioso, di fatto gran parte delle opere caritative resta in qualche misura legata alla Chiesa, non fosse altro che per i problemi del personale e per il volontariato di cui è capace l'associazionismo cattolico. L'assistenza ticinese, fino a Novecento inoltrato, rimane con un carattere misto, laico ed ecclesiastico, solo apparentemente contraddittorio rispetto alla indubbia laicizzazione che l'investe e nonostante il laicismo che caratterizza l'ala più intransigente del partito politico egemone nel Cantone. Prescindendo dagli aspetti ideologici e culturali che caratterizzano il dibattito politico ottocentesco, è indubbio che fin dal suo sorgere il nuovo Stato cantonale ticinese è confrontato con problemi oggettivi e strutturali, fra i quali quello del particolarismo istituzionale, riscontrabile nel caso nostro, nell'eccessiva frammentarietà degli interventi assistenziali d'età lanfogtesca. L'assunzione diretta da parte del Municipio di Lugano, nel 1801, dell'amministrazione dell'ospedale cittadino, ha certamente ragioni politico ideologiche ma è pur anche dettata dalla prospettiva di un intervento complessivo nel settore ospitaliero ed assistenziale: il Municipio, organo esecutivo del nuovo comune politico, dove la fazione borghese legata ai principi democratici mira all'estromissione della vecchia dirigenza patrizia, scalza dal suo posto la "congregazione dell'Ospedale", organismo legato a quella classe patrizia borghigiana che fino ad allora aveva saputo garantire i lasciti e le donazioni dei benefattori luganesi, ma che ora non poteva più garantire un'amministrazione appropriata al nuovo indirizzo politico. Filippo Ciani, fondatore nel 1844 dell'Asilo infantile di carità a Lugano (20), è insigne rappresentante, insieme a tanti altri bei nomi di famiglie luganesi, di quella nuova borghesia ticinese, la quale, all'interesse per lo sviluppo economico e imprenditoriale del Cantone, non disgiunge quello per la pubblica beneficenza, conscia del ruolo sociale della filantropia laica. Gli intenti di razionalizzazione degli interventi assistenziali nel paese non danno alcun risultato nella prima metà del secolo scorso, epoca in cui il giovane Stato cantonale è ancora minacciato nelle sue istituzioni da successivi rivolgimenti politici e costituzionali, e durante la quale il problema fondamentale resta quello dell'ordine pubblico, alle preoccupazioni per le sommosse politiche sovrapponendosi quelle persistenti per il vagabondaggio nomade. Sarà soltanto con il consolidamento politico istituzionale della seconda metà dell'Ottocento che lo Stato cantonale ticinese riuscirà a muovere i primi passi nel settore dell'assistenza pubblica, attraverso quella razionalizzazione graduale in senso borghese che caratterizza l'intera vita sociale ticinese, tra il tardo Ottocento e il primo Novecento. Con un sistema di vita quasi patriarcale, dedita in massima parte ancora all'agricoltura, commista alla pastorizia, la popolazione ticinese dell'Ottocento non va soggetta al depauperamento delle masse lavoratrici e al conseguente latifondismo, conosciuti dai grandi paesi europei del tempo, alcuni dei quali già in fase di avanzata industrializzazione: l'unica industria, eccezione che conferma la regola, è quella serica, che può fare capo alla tradizionale bachicoltura ticinese. Nel secolo scorso l'economia ticinese resta quella tipica di un paese di piccole proprietà, con una ripartizione assai grande della ricchezza. La vasta suddivisione della proprietà agricola, la mancanza di grandi industrie e di veri agglomerati urbani, l'esistenza di non indifferenti ricchezze patriziali di cui gli autoctoni sono partecipi, infine i proventi dell'emigrazione sono gli elementi strutturali che contribuiscono a fare del pauperismo ticinese un fenomeno essenzialmente di nomadi fuoriusciti dal vicino regno, assai contenuto nella sua componente autoctona. Non essendovi grandissimi centri, la popolazione vivendo in massima parte nei villaggi o in piccole borgate, le relazioni di buon vicinato, ordinariamente fra parenti stessi, grazie al ricorso ai beni patriziali e alla solidarietà della comunità parrocchiale locale, a lungo tengono ancora conto facilmente di ufficio di beneficenza. I beni patriziali, malgrado la stessa legge patriziale del 1835 che scinde formalmente il comune politico dal comune patriziale, continuano ancora ad essere considerati nella prassi, almeno nella prima parte dell'Ottocento, anziché di una speciale corporazione, come un virtuale patrimonio del Comune, in un certo qual modo, dunque, come il naturale fondo dei poveri; benché non più ripreso in nessuna delle immediatamente successive, l'articolo 4 della Costituzione del 1803, aveva d'altronde previsto l'istituzione di una cassa dei poveri, alimentata dai patrizi del Comune: "mediante la somma pagata annualmente alla cassa dei poveri (o il capitale di questa somma) si diviene co-proprietario dei beni appartenenti al Patriziato e si ha il diritto ai soccorsi assicurati ai patrizi della Comune" (21). Le costituzioni del 1814 e del 1830 si mantengono mute sulla questione dell'assistenza ai poveri. Per lungo tempo è consuetudine il loro sostentamento da parte dei parenti stessi o il loro mantenimento focolarmente per turno nelle famiglie. Benché l'assistenza corrente ai poveri sia da tempo immemore affidata ai patriziati, disponendo di beni e rendite destinati allo scopo, essi tendono però a scaricarne gli oneri sulle finanze comunali . Durante tutta la prima metà del secolo scorso eccetto un articolo 31 della legge comunale del 1832 che accenna all'assistenza ai poveri il legislatore ticinese si occupa di pauperismo unicamente nei termini di polizia degli stranieri, emanando durissimi, ripetuti decreti contro l'accattonaggio dei forestieri sul territorio ticinese. Un "Decreto riguardante i mendicanti e vagabondi" del 5 dicembre 1804 ordina a tutti i comuni per la durata di tre giorni una perlustrazione di questi soggetti forestieri, prescrivendo per i mendicanti "riconosciuti nazionali del Cantone e che daranno notizie certe dalla Comune cui appartengono" la loro consegna alla municipalità del luogo "perché vi siano mantenuti a spese della propria Comune, o colle private elemosine degli abitanti, restando loro interdetto l'accattare fuori della propria Comune sotto pena di essere arrestati e rimandati" (22). Il governo ticinese si lamenta più tardi, a più riprese, della dimenticanza cui vanno incontro le sue ordinanze sui vagabondi e mendicanti stranieri, per i quali è sempre prevista l'espulsione dal Cantone, se non muniti dei regolari permessi. "Se non avranno mezzi di sussistenza" si legge all'articolo 5 del decreto del 12 luglio 1819 "contro li vagabondi e mendicanti esteri" "saranno alimentati a spesa del comune e quindi scortati di Comune in Comune alla frontiera più vicina alla nazione cui appartengono, ed espulsi". Analoghe misure del 6 luglio 1822 "contro li vagabondi, mendicanti ed oziosi malviventi", stabiliscono agli articoli 3 e 4 che "li cittadini e li domiciliati saranno pure assoggettati a quelle misure che il Governo crederà necessarie tanto per la loro correzione che per la sicurezza della società", fra le quali quella del servizio militare forzato. Il principio dell'obbligatorietà dell'assistenza ai poveri da parte del Comune, fissato nel già ricordato decreto del 1804, viene ribadito in una legge del 1823 che mette il mantenimento dei nazionali divenuti inabili al lavoro a carico del Comune di attinenza, quando l'iniziativa privata si dimostri insufficiente nel Comune di domicilio. Vale la pena citare, tanto è significativa degli atteggiamenti mentali del legislatore ticinese durante il regime dei landamani, una circolare governativa inviata a tutti i municipi del Cantone in data 2 marzo 1825, all'atto di giustificare la "replicata vigilanza sui vagabondi e mendicanti esteri". "Dai rapporti de’ Commissarj e de’ Giudici di Pace vi si legge siamo informati che girano nel Cantone molti vagabondi e mendicanti esteri in forma di venditori d'esca, di canestri, d'ombrelle e simili, o come esercitanti altra mecanica industria, ma privi di carte che giustifichino le loro persone. Sotto il pretesto di tali arti s'introducono francamente nelle case e s'appropriano con destrezza di ciò che trovano di loro convenienza; senza parlare dei furti con rottura e violenza. Il minor male che fanno è il saccheggio dei frutti pendenti nelle campagne per pascere la numerosa bastarda prole che le loro donnaccie si traggono dietro, e accanto, e in grembo, e in dosso. La presenza di costoro, sempre gravosa e molesta e pericolosa ai cittadini, provoca le loro lagnanze, ma l'Autorità Comunale vi provvede forse? Essa che vede davvicino il disordine, e che in virtù de’ suoi attributi dovrebbe rimediarvi, non se ne prende, in molti Comuni, il minimo pensiero. Alcuni per falsa idea di religione, credono di farsi un merito della facile carità colla quale alimentano tali vagabondi, e della tolleranza imprudente per la quale espongono se stessi e gli altri alle più sinistre conseguenze d'un'ospitalità sconsigliata. Quelli che hanno mezzi per soccorrere il loro prossimo bisognoso non trovano forse l'occasione di impiegarli nel proprio Comune, o in sollievo d'altri concittadini conosciuti degni di pietà, senza abusarne in odio delle leggi e delle regole di prudenza, a nutrir l'ozio di forestieri pericolosi? Che privati cittadini coltivando false idee di pietà, o piuttosto assecondando la loro infingardagine, sopiscano l'attività necessaria onde allontanarne i pitocchi forestieri, nemici d'ogni ben regolata società, è cosa trista, è debolezza biasimevole (...). Ci duole che in molti Comuni, dopo il fervore dei primi mesi, siasi quel Decreto del 12 luglio 1819 diggià dimenticato... Noi dobbiamo dunque esigere... che questo disordine finisca una volta e che scompajano dal Cantone queste schifose turbe che offendono la vista, disturbano il riposo, scemano la proprietà, minacciano la sicurezza personale... genia ladra di professione e capace per indole viziosa d'ogni altro delitto" (23). Il legislatore cantonale interviene nell'unico intento di reprimere la mendicità e prevede un fondo di beneficenza solo per i casi di disgrazie eccezionali (alluvioni, incendi, valanghe). La repressione mira a colpire i mendicanti professionali e gli accattoni esteri, contro i quali si organizzano retate periodiche per accompagnarli alla frontiera. La circolare citata rispecchia un'opinione allora assai diffusa, secondo la quale la carità troppo benevola e mal indirizzata accresce il male invece di estirparlo, foraggiando accattoni d'"indole viziosa", parassiti sociali, propagatori di epidemie e delinquenti potenziali ed effettivi. Bisogna però credere che le misure poliziesche risultino piuttosto inefficaci, se addirittura nella seconda metà del secolo, nel 1870, il commissario governativo di Lugano ritiene la mendicità "una piaga insanabile" (24). Poco oltre il 1850, durante gli anni del blocco economico austriaco, che tanto duramente colpisce la popolazione ticinese, il numero dei mendicanti è a tal punto elevato da far temere che anche da noi la miseria possa divenire un'inevitabile piaga sociale. Il periodico ticinese d'utilità pubblica "L'Amico del popolo" interviene allora sostenendo la necessità di una legge sui poveri (25). Non è casuale che in quelle contingenze il legislatore cantonale intervenga nel settore specifico della povertà emanando, nel 1855, la prima legge ticinese sull'assistenza. Assistenza e ordine pubblico restano tuttavia ancora a lungo due aspetti di un medesimo problema, come dimostra l'articolo 73 della legge comunale del 13 giugno 1854. Il paragrafo 2, che stabilisce virtualmente l'obbligatorietà dell'assistenza da parte del Comune di attinenza, è incluso insieme ad un paragrafo 1, nel capitolo sulla "polizia interna": "La Municipalità deve avere speciale cura di non tollerare nel Comune il vagabondaggio e la mendicità. Presentandosi individui accattoni, ovvero sospetti, se sono di un Comune circostante, li farà accompagnare e rimettere al sindaco del medesimo; se sono di un comune lontano o forestieri, o d'incerta origine, li farà rimettere al Commissario distrettuale. Ricomparendo nel Comune un individuo accattone o sospetto come sopra, la Municipalità, previo un arresto da 12 a 48 ore, lo farà ricondurre come è detto nell'antecedente paragrafo, a spesa del Comune cui appartiene di attinenza , al quale incombe inoltre l'obbligo di provvedere alla sua assistenza". La legge sull'assistenza del 27 novembre 1855 abolisce la consuetudine del mantenimento focolarmente per turno delle famiglie, la cui pratica, già vituperata da Stefano Franscini nella sua Svizzera italiana, denunziava le carenze e inadempienze avute fino ad allora dallo Stato in materia di assistenza. La stessa legge ribadisce il principio dell'obbligatorietà dell'assistenza da parte dei Comuni di attinenza, decretando tuttavia il diritto di rimborso delle spese per il Comune di residenza, nel caso in cui il povero sia colpito da malattia che impedisca il suo trasporto al Comune di attinenza. Nonostante la legge, Comune di attinenza e Comune di domicilio continuano come nel passato e per parecchio tempo ancora in cavillosi litigi, nel tentativo di addossare le spese all'altra parte; diversi comuni perseverano poi ancora nei decenni seguenti nella pratica del mantenimento dei poveri a turno da parte delle famiglie, nonostante la proibizione governativa, con risultati spesso umilianti e indecorosi. Malgrado la legge del 1855 l'assistenza è ristretta alle competenze dei municipi senza una sufficiente vigilanza cantonale, esercitata in genere con una grettezza tanto esosa e umiliante, che il povero si guarda bene dal domandarla: è significativo che ancora nel 1870 l'assistenza pubblica, su un totale di 263, possa fare affidamento sul fondo per i poveri in soli 43 comuni (26). L'assistenza, nella legislazione successiva, è sempre più subordinata a esigenze politiche e produttivistiche: il comune può diminuire infatti il soccorso a scopo di spronare l'attività, al bisognoso abile al lavoro che si abbandoni all'accidia (27). Il processo di industrializzazione e di urbanizzazione toccano il Ticino ad Ottocento già inoltrato. È a quest'epoca che vede un certo sviluppo economico, limitato nel secondario ma incidente nel terziario, favorito dalla comparsa delle ferrovie nel periodo 1872 1882 che si assiste ad un mutamento nel guardare al fenomeno pauperistico, non più visto come una mera questione di ordine pubblico. È nella zona di Lugano che le profonde trasformazioni che altrove le congiunture delle grandi industrie capitalistiche e l'incremento della popolazione nei centri urbani recavano al proletariato, hanno un effettivo riverbero sociale in relazione al fenomeno pauperistico, pur nelle dimensioni limitate di provincia. Se da una parte il commissario di governo sorveglia rigorosamente l'immigrazione massiccia della mano d'opera estera reclutata per i cantieri ferroviari, d'altro canto matura una sensibilità sociale nuova: il 6 novembre 1873 il Municipio di Lugano e la "Gottardbahn" stipulano una convenzione per il ricovero e la cura degli operai ferroviari ammalati o infortunati presso l'ospedale cittadino (28); altro esempio, sempre a Lugano, dove nel 1887 è costituito un comitato Opere Pro Cura Marina per gli scrofolosi poveri (29). L'orizzonte del pauperismo è in profonda trasformazione e vi sono dati di fatto che pongono in modo diverso il problema dell'assistenza: la laicizzazione e l'insicurezza sociale è del 1890 la legge federale contro gli infortuni del lavoro e le malattie non vedono più tanto il "povero indigente" quanto piuttosto il "lavoratore povero", quale tipica figura della crisi di ristrutturazione produttiva causata dallo sviluppo industriale, al centro delle attenzioni delle prime società operaie di mutuo soccorso (1860 1890) e, più tardi, delle prime organizzazioni sindacali. Con l'incremento demografico e il rafforzamento dei legami con gli altri Cantoni e con gli Stati vicini, si fa strada la necessità di interventi legislativi più appropriati nel campo dell'assistenza. Nel 1870 il Consiglio federale affida ad uno studioso un'analisi sul pauperismo in Svizzera (30). Nel 1882 l'istituto di Locarno per i sordo muti beneficia di una legge che istituisce dieci borse per la loro istruzione col metodo orale. Lo stesso anno due deputati in Gran Consiglio (Respini e Soldati) presentano una mozione sull'assistenza (rinnovandola ancora nel 1890). Nel 1883 è presentato un progetto legislativo cantonale in materia, mentre nel 1888 il Dipartimento Cantonale dell'Interno prende l'iniziativa di una statistica nel settore. Nel 1894 Brenno Bertoni, costituzionalista e uomo politico lungimirante, dà alle stampe un suo studio sull'assistenza nel Cantone Ticino, pubblicando in appendice il pendente progetto di legge sull'assistenza (31). La classe politica ticinese più conservatrice non nasconde però le proprie resistenze ad un'apertura sociale da parte dello Stato. Il governo stesso si distanzia dal predetto progetto di legge, contestando, nel messaggio che l'accompagna del 2 aprile 1894, il diritto del povero al soccorso che a suo dire equivarrebbe a un "diritto all'ozio" o ad un cedimento al comunismo (32). A queste resistenze supplisce il nascente movimento sociale ticinese nelle sue diverse componenti ideali e culturali: i primi gruppi sindacali d'ispirazione socialista e le associazioni operaie d'ispirazione cristiano sociale, quest'ultime coadiuvate dall'azione sociale che pur matura poco a poco nell'associazionismo cattolico, soprattutto con l'inizio del Novecento. Una nuova legge sull'assistenza, che abroga quella vecchia del 1855, diventa però realtà solo sullo scorcio del nostro secolo. Il 26 gennaio 1903 il legislatore ticinese emana infatti la nuova legge sull'assistenza pubblica. Questa legge ha l'indubbio merito di ovviare alle croniche carenze del sistema assistenziale, rendendo meno aleatori e gretti i soccorsi ai poveri, eliminando le interminabili dispute ottocentesche tra comune di attinenza e comune di residenza (di domicilio); l'articolo 9 riconferma l'obbligo dell'assistenza dei cittadini per il comune di attinenza, devolvendo però tale obbligo "a carico del Comune ove l'indigente o la famiglia di cui fa parte, ha il domicilio, se questo dura da almeno vent'anni" ininterrottamente. La legge del 1903 non mira certo a edificare lo Stato assistenziale o lo Stato sociale. Riflesso della graduale e generale razionalizzazione e laicizzazione delle istituzioni e della società in senso "borghese", la nuova legge del 1903 costituisce tuttavia un primo abbozzo dell'intervenzionismo del potere politico cantonale nel campo dell'assistenza, pur continuando nel rispetto delle autonomie politiche, a fondare il suo esercizio sui Comuni: "L'assistenza pubblica è esercitata dai Comuni sotto la sorveglianza dello Stato " (articolo 1); "Le Autorità preposte all'assistenza pubblica sono: le Municipalità, il Dipartimento dell'Interno, il Consiglio di Stato" (articolo 3). Si tratta chiaramente di un intervento legislativo allo scopo di assicurare un maggiore controllo politico istituzionale, senza però impegno alcuno (33) per le finanze del Cantone: "Al servizio della pubblica assistenza... si provvede: colle contribuzioni dei parenti, colle rendite di qualunque provenienza destinate ai poveri... e in genere alla beneficenza" a condizione "che non siano già dotazione speciale di un ospedale, di un ricovero o di un istituto d'educazione"; infine "colle prestazioni dei Comuni" (articolo 6). Lo Stato legifera in materia mosso soprattutto dalla volontà di legittimare il proprio controllo politico attraverso la vigilanza del Dipartimento cantonale dell'Interno (articolo 4) insediandovi un vero e proprio ufficio di beneficenza tenuto a sorvegliare l'azione dei Comuni, a sua volta sorvegliato dal Consiglio di Stato (articolo 5). L'unico impegno finanziario (articolo 13) "a carico dello Stato, salvo regresso verso chi di ragione", è l'assunzione delle spese per il soccorso ai forestieri o ai confederati (trasporto fuori Cantone, spese di malattia e di inumazione nel Ticino). La grande depressione economica degli anni trenta rende però più tardi insostenibile un disimpegno finanziario da parte dello Stato. Il Gran Consiglio, con decreto legislativo del 20 dicembre 1928, replicato il 29 dicembre 1930, accorda in via straordinaria un contributo di franchi centomila ai Comuni "sproporzionatamente aggravati dalle spese per l'assistenza pubblica". Questo sussidio straordinario è mantenuto, anche se sceso a franchi settantacinquemila, nella nuova legge sull'assistenza pubblica, emanata dal governo ticinese il 19 settembre 1931, che modifica e aggiorna in parte la vecchia legge del 1903. Rimangono invariati e basilari gli articoli 1, 3 e 4 sulla "sorveglianza dello Stato" sulle autorità preposte all'assistenza, con il ruolo sempre più rilevante del Dipartimento Cantonale dell'Interno. Resta l'obbligo per il Comune di assistenza, quello per il Comune di domicilio se questo dura non più da 20 anni ma da 10 soltanto (articolo 1); se la persona soccorsa è patrizia, la sua eventuale quota di proventi patriziali è assegnata al Comune che lo soccorre (articolo 9 paragr. 2). Il Comune di domicilio deve provvedere (articolo 11) per i primi 30 giorni i ticinesi non attinenti. La grande novità è però il sussidiamento del Cantone nella misura del 50% delle spese sopportate dai Comuni (articolo 16), relativamente al ricovero al manicomio cantonale di Mendrisio (sorto nel 1898), all'assistenza degli orfani di padre minori di 18 anni, al ricovero al sanatorio cantonale di Ambrì Piotta (sorto nel 1921), all'assistenza ai figli illegittimi e abbandonati minori di 18 anni, al ricovero e all'assistenza a domicilio degli anziani con più di 65 anni di età. Per avere il sussidio, versato semestralmente, i comuni dovranno fornire tutti i documenti comprovanti (articolo 17). Il sussidio straordinario ai comuni (articolo 18) è devoluto soprattutto nei casi d'assistenza a persone domiciliate in altri Cantoni o all'estero, le cui spese erano nella vecchia legge a carico direttamente dello Stato. L'altra importante novità è l'istituzione di un fondo d'assistenza pubblica in ogni comune e di un fondo cantonale per l'assistenza pubblica e per le assicurazioni sociali (articoli 20 e 21). In quello comunale vengono versati le tasse di attinenza, le tasse comunali di successione, le multe tributarie e varie incassate ed eventuali contributi straordinari votati dal legislativo del Comune. Nel Fondo cantonale, creato con la dotazione allo Stato della successione della fu Corinna Steger, sono versati annualmente i proventi delle lotterie e un contributo, l'ammontare del quale è lasciato alla decisione del Gran Consiglio. L'articolo 19 della legge demanda al Consiglio di Stato il relativo Regolamento d'esecuzione, che viene decretato il 21 settembre 1931: esso mette ulteriormente in evidenza il ruolo sempre più subordinato dei Comuni al Dipartimento Cantonale dell'Interno, le cui decisioni per l'assegnazione dei sussidi ordinari sono vincolanti, con facoltà al Municipio che ne contesta l'operato, di appellarsi al Consiglio di Stato, il cui giudizio è definitivo (articolo 14); l'assegnazione del sussidio straordinario deve essere invece sottoposta alla ratifica del Consiglio di Stato (articolo 15). Sia la legge del 1903, sia quella del 1931, riconoscono virtualmente l'utilità pubblica dell'assistenza privata; i rispettivi articoli 8 recitano infatti: "Dove esistono o sorgono stabilimenti di ricovero, per i vecchi e per gli infermi, per gli orfani e per i fanciulli abbandonati, si dovrà, possibilmente, ricorrere a dette istituzioni". Se da una parte matura l'impegno sussidiario del Cantone col coprire per la metà le spese dei Comuni, dall'altra lo Stato, nonostante il carattere "privato pubblico" di non pochi istituti d'assistenza laici e religiosi, attribuendo alle sole istituzioni statali il titolo pubblico nega sul piano concreto ogni sostegno all'assistenza "privata". Pur giustificato sul piano pratico amministrativo, resta tuttavia sintomatico l'articolo 5 del Regolamento del 1931 di applicazione alla legge sull'assistenza, inerente l'ospitalizzazione dei tubercolotici: le domande di contributo per il ricovero di questi ammalati "in un istituto che non sia il Sanatorio Cantonale di Ambrì Piotta, saranno ammesse soltanto se il ricovero sarà stato preventivamente autorizzato dal Dipartimento dell'Interno; per ottenere tale autorizzazione il Municipio dovrà inoltrare al dipartimento dell'Interno una istanza motivata e corredata da un certificato medico dal quale dovranno risultare la natura della malattia ed i motivi per i quali il tubercoloso non è stato ricoverato nel Sanatorio Cantonale; il Dipartimento dell'Interno potrà praticare un'inchiesta sui casi sopraccennati, servendosi dell'opera del Medico cantonale; se il Dipartimento dell'Interno non ha accordato l'autorizzazione, il Comune non riceverà il contributo dello Stato". La progressiva statalizzazione dell'assistenza ticinese prelude l'avvento dello Stato sociale moderno, il walfare state (34), che caratterizzerà la seconda parte del nostro secolo: si esce però qui dalla storia per entrare nella cronaca.
Abbracciando le tendenze interpretative marxiste, fino a qualche tempo fa hanno prevalso nella letteratura storica letture assai sbrigative e spesso sommarie a riguardo dell'azione svolta dalla Chiesa e dalle sue istituzioni o da singole persone pie nel campo dell'assistenza. Il giudizio più diffuso e dominante ha insistito sul paternalismo degli interventi caritativi di parte cattolica, quale atteggiamento ispiratore della classe borghese, che dalla carità e beneficenza traeva occasione per una propria ostentazione pubblica, utile al mantenimento del proprio potere sociale. Questo è certamente un dato di fatto dal profilo storico e sociologico. Si tratta però di un giudizio parziale e ideologicamente interessato, là dove omette di prendere in considerazione altri aspetti, storicamente altrettanto importanti, che come tali l'indagine scientifica e il rigore culturale non possono ignorare. Studi più recenti, più liberi dagli schemi interpretativi dominanti, hanno invece saputo recuperare tutto lo spessore storico della carità, evitando di sminuirla col considerarla alla stregua di una copertura ideologica degli assetti di potere, secondo quella logica cara alla cultura storico politica più ideologizzata, che per lungo tempo ha confuso, non si sa quanto volutamente, la "vernice" religiosa della società dell'antico regime con la reale consistenza di un'esperienza religiosa. Si è insomma cominciato a capire l'eccessiva rigidità di una contrapposizione meccanica tra un'"ideologia della carità" da una parte, tesa al mantenimento dell'ordine costituito ed individuata nelle istituzioni ecclesiastiche, e dall'altra le "tensioni ideali e concrete esperienze" vissute "nella profondità del popolo di Dio e dei suoi profeti" (35). Pur non misconoscendo le collusioni storiche tra istituzioni ecclesiastiche e potere, si è cominciato a capire che la ricchezza e l'operosità caritativa del popolo cristiano si è pur sempre svolta entro l'ambito ecclesiale: dal che occorreva dedurre una maggiore prudenza evitando di separare manicheamente "le ragioni dell'istituzione" e quelle "dei diseredati", probabilmente più saldate insieme di quanto creduto (36). Lungi quindi dall'incensare in modo semplicistico le opere certo valide d'ambito religioso e cattolico, mirate ad aiuti concreti e disinteressati per i bisognosi, è importante sottolineare in sede storiografica che le forme di assistenza non rappresentano un unicum indistinto, di cui fare apologie o denigrazioni a seconda delle propensioni ideologiche, bensì uno sviluppo storicamente determinato di differenti ragioni ideali e realizzazioni pratiche. L'idea medievale del povero immagine di Cristo diventa in età moderna una figura sempre più retorica e letteraria; ciò non significa tuttavia che il campo dell'assistenza sia unicamente occupato dopo il Medioevo dalle sole iniziative del potere politico, con i suoi atteggiamenti repressivi e le sue preoccupazioni di ordine pubblico, coloratesi di finalità mercantiliste. Accanto e contemporaneamente a quelle iniziative, tra i fedeli del cattolicesimo post tridentino, si sviluppa una nuova sensibilità, dovuta probabilmente anche all'enorme aumento del pauperismo dalla fine del XVI secolo in poi: i più attivamente impegnati a favore dei poveri, avvertono la necessità di uno specifico intervento diversamente ispirato, da affiancare a quello pubblico. Nascono infatti nuovi ordini religiosi e nuove confraternite, il cui scopo non è più solo quello di "fare la carità", ma quello di promuovere uno sforzo complessivo nei confronti del pauperismo, nello spirito della Riforma cattolica, che si traduca in un'opera di assistenza sistematica, materiale e spirituale, il cui fine sia il recupero del bisognoso ad un'operosità cristiana e la di lui evangelizzazione. Il parziale fallimento degli ospedali generali e l'affermarsi di questa nuova sensibilità dei fedeli nei confronti della povertà, stimolano iniziative collaterali da parte di privati, compagnie di carità, confraternite, volte a coprire i vuoti e le inadeguatezze istituzionali. Restano certamente la drasticità nel caso degli oziosi, che non vanno incoraggiati con la carità, l'intolleranza nel caso dei questuanti e dei finti poveri; affiora tuttavia uno spirito più benevolo, non più solo punitivo, non "criminalizzante", da cui traspaiono la preoccupazione per il benessere degli assistiti, un'affettuosa incitazione a preoccuparsi anche della loro solitudine e del loro abbandono morale. Le figure di San Vincenzo o di San Camillo, ad esempio, non sono certo accostabili con la loro opera ai rigori repressivi della "reclusione" cinque secentesca, così come l'opera del Cottolengo o di Giovanni Bosco nell'Ottocento ha poco a che spartire con la concezione liberal borghese del lavoro e con le sue gerarchie sociali, quasi a documentare la continua presenza di una "modalità religiosa" di operare nel campo assistenziale, antitetica ai modelli dominanti. I promotori destinano la loro opera di carità non a governanti o ad altri pubblici poteri, ma a privati, per sollecitarli all'amore del prossimo, nel nome di un esplicito invito alla virtù della carità, il cui merito sarà riconosciuto da Dio, e nel nome di un non dichiarato, ma sempre presente, spirito di solidarietà umana, più o meno avvertito a seconda delle personali capacità psicologiche e filantropiche. Lungi dalla preoccupazione di porsi in opposizione con le iniziative del potere pubblico, ma semplicemente tesa ad intervenire là dove questo non può arrivare, l'iniziativa dei fedeli demanda per il resto ai legislatori i controlli polizieschi sui veri e finti poveri, sui poveri autoctoni o su quelli forestieri. Sono iniziative che si rivolgono soprattutto alla povertà occulta (poveri saltuari e periodici), composta da persone che non necessitano di essere riunite facendole affluire verso le fonti dell'elemosina, ma per le quali ci si propone proprio il contrario, lasciandole nelle loro case, alla loro attività, andando a visitarle, a portar loro conforto. Invece di riunire tutti i poveri in ospizi manifatture, come avviene nell'ottica degli interventi pubblici e mercantilisti, si aiuta il più possibile chi si trova in situazione di crisi, senza sconvolgere l'ordine di vita della persona povera con la sua chiusura in un ospizio, contribuendo piuttosto a farle superare il momento difficile. Il cattolicesimo post tridentino non si confonde sempre con gli interventi coercitivi propri del potere pubblico, proponendo modelli in cui sono avvertibili una nuova consapevolezza dell'umanità dolente dei poveri vecchi ed ammalati e della maggiore efficacia di una carità temporanea, rispetto alle soluzioni di internamento coatto. L'intervento assistenziale del potere statale, che mira ad una regolamentazione integrale, ad una società statica e ordinata attorno a un polo centralizzatore, comporta quei limiti insiti allo Stato stesso, quali lo scollamento permanente che in esso si produce tra singoli provvedimenti e legislazione complessiva, tra ideologia e risorse finanziarie, tra direttive politiche ed efficacia amministrativa, tutti elementi che concorrono a rendere spesso illusorie le soluzioni statali. Di conseguenza svolgono una funzione importante quelle strutture assistenziali che non fanno diretto riferimento al potere pubblico, ma che attraverso molteplici varianti locali sono alimentate dalle diverse articolazioni istituzionali della società civile, perché contribuiscono a tutelare le prerogative di forze sociali dotate comunque di potere, che nel campo dell'assistenza equilibrano le proprie resistenze all'accentramento statale con le garanzie di ordine che derivano dal loro impegno a reintegrare nella società costituita fasce non piccole di popolazione povera. All'interno di queste strutture sopravvivono in età moderna tendenze certamente diverse della pietà cristiana, della riflessione morale, della cultura politica, per le quali l'interesse verso i poveri è spesso occasione di percepire le debolezze dell'assolutismo che caratterizza i poteri statali del tempo. Prestando attenzione a non cadere in uno schematismo forzato e distinguendo, di conseguenza, singole figure e momenti, si può affermare che l'assistenza, nell'età moderna e contemporanea, è attraversata da profonde lacerazioni, che vertono, più ancora che sui metodi da seguire, sulla natura e il significato dell'intervento benefico in quanto tale. Al tempo stesso sono riscontrabili esiti diversi a seconda della prevalenza, in un determinato ambito, di un'ispirazione a preferenza di un'altra. La vicenda assistenziale ticinese, di primo acchito, appare emblematica in tal senso: coesistono iniziative autonome, comunque non immediatamente assimilate dagli organi statali del Cantone, non solamente di marca cattolica, come si è inclini sempre a pensare, ma anche di marca laica, come potrebbe facilmente dimostrare anche una rapida scorsa allo studio altrove già ricordato di Brenno Bertoni, che elenca disparati istituti di carità ed iniziative benefiche da lui identificati col termine di "assistenza libera" (37); le numerosissime menzioni fatte da Abächerli in questo stesso volume di "libere" iniziative benefiche, d'ispirazione religiosa o laica, confermano una varietà di elementi nella vicenda assistenziale ticinese che non può essere ricondotta a interpretazioni univoche. Gli interventi assistenziali nel Cantone Ticino sembrano muoversi lungo due linee di fondo: la prima si rifà all'assistenza pubblica, la seconda alla carità privata. Quella che si richiama prevalentemente alla tradizione dell'intervento pubblico, raccoglie le indicazioni del periodo napoleonico per un'assistenza organizzata in un sistema cantonalizzato, imperniato sul comune politico ma gradualmente burocratizzato e subordinato attraverso la dipartimentalizzazione allo Stato; questa linea pubblica addita fin dal tardo Ottocento forme varie, nuove ed importanti di tutela sociale e previdenziale per i lavoratori. La crisi degli ospedali e dei ricoveri ottocenteschi mette in evidenza la necessità di garantire il minimo di sussistenza alla radice, ossia per mezzo del lavoro o di sussidi personali si vuole sollecitare il povero a farsi protagonista del proprio riscatto e del risanamento del suo ambiente, evitando nel limite del possibile il ricovero. Le critiche già così diffuse nel secolo scorso contro il bere, il gioco ed il vizio e al contempo i tanti calcoli del fabbisogno per gli alimenti, la casa, il vestiario, la malattia, hanno alla loro radice una presunzione moralistica laica di dissuadere il lavoratore povero dal dissipare il proprio guadagno e di indurlo all'opposto ad incarnare un tipo umano dai guadagni, risparmi, consumi e bisogni già prefigurati. L'altra linea di tendenza, complementare alla prima ed anch'essa improntata ad un tipo di ideale che il povero dovrebbe incarnare, convoglia le rinnovate spinte della carità privata, animata dalle nuove aperture del cattolicesimo sociale di fine Ottocento, inizio Novecento. Le conferenze di San Vincenzo di Paoli (38) la prima sorge a Lugano nel 1884 tendono soprattutto al rapporto diretto con il povero, il contatto con il suo ambiente, dando completezza ed umanità alla conoscenza dei veri bisogni, fornendo un aiuto completo, paternalistico ma saldamente costruttivo, mobilitando e aprendo in tal modo agli orizzonti sociali i ceti borghesi e abbienti. L'antica beneficenza privata, fatta anche a domicilio, ma per conto di una confraternita o di una compagnia di carità, si personalizza: il visitatore del povero, mediatore privilegiato fra la società e il misero, mentre partecipa alla tensione per il riscatto globale, materiale e spirituale fruisce egli pure dei benefici effetti della visita. L'Ottocento è un secolo di vasta rinascita religiosa, che trova proprio nella carità un modo privilegiato di esprimersi, di riflettersi concretamente nella società. Accanto a interventi animati da preoccupazioni di segno paternalistico se non conservatore, ravvisabili nelle iniziative della borghesia liberale moderata e nella borghesia di sentimento cattolico, convivono iniziative animate da un'urgenza morale consapevole che una risposta di tipo istituzionale da sola non può appagare le coscienze: da qui nasce fa Otto e Novecento una fioritura di iniziative spontanee dal basso, dalla società civile ticinese o dalla Chiesa diocesana, per impulso di singoli o di gruppi, destinata a venire incontro alle nuove esigenze sociali e agli squilibri provocati dall'industrializzazione. La progressiva laicizzazione della beneficenza è accompagnata da un significativo risorgere di nuove forme d'intervento assistenziale, a impronta laica o religiosa, dentro o accanto alle istituzioni ufficiali comunali o cantonali. Lo stesso "movimento cattolico" ticinese, di cui si è sottolineata in genere la sola dimensione politica (39), muove da questa ricca tradizione d'unione dell'attività assistenziale e dell'attività sociale, nel tentativo di offrire un aiuto concreto al bisogno dell'uomo e di realizzare un assetto economico in cui la carità possa esprimersi anche in termini di giustizia. L'atteggiamento caritativo della comunità ecclesiale diocesana, negli ultimi due secoli, conosce certamente, per così dire, un momento profetico e un momento istituzionale: il primo volto a sottolineare l'importanza di un'antica tradizione di solidarietà umana e sociale nel segno della fede cristiana, senza la quale scema drammaticamente nell'azione pratica la concreta assistenza alle esigenze reali e immediate di chi è nel bisogno; l'altro si concreta nel partecipare da parte dei cattolici ticinesi alle forme di beneficenza da tempo consolidate (ospedali, ricoveri) o a quelle che mano mano si vengono formando, con il proprio impegno responsabile e personale nella società laica, consapevoli che l'esperienza cristiana non può sopravvivere solo grazie alla tradizione e all'autorità. Antonio Gili, nato nel 1952, licenziato in storia moderna
e contemporanea all'università di Friburgo. È direttore dell'Archivio
storico della città di Lugano. 1. Cfr. le stimolanti osservazioni di Giovanni Testori, La carità che i "milanesi accampa", nel catalogo della mostra La Cà Granda. Cinque secoli di storia e d'arte dell'Ospedale Maggiore di Milano, Milano, 1981, pp. 15 20. 2. Si veda nella Bibliografia al testo: CESCHI R., TALARCO R. e LORENZETTI L., quest'ultimo autore di uno studio interessante ma che non si è avuto il tempo di consultare al momento della redazione, perché non era ancora stato presentato. 3. Cfr. PANZERA F., Gli studi sul movimento cattolico nella Svizzera italiana, in "Bollettino dell'Associazione per la storia del movimento cattolico nel Ticino", X, 1992, pp. 3 10 4. Per la storia dell'ospedale cfr. CHIESA V., L'Ospedale civico di Lugano; dati storici e notizie, Bellinzona Lugano, 1944; per il periodo di fondazione cfr. CRIVELLI A., L'Ospedale civico di Lugano, in "Rivista storica ticinese", 39, (1944), p. 929. L'archivio dell'antico ospedale di S. Maria è conservato e catalogato presso l'Archivio storico comunale di Lugano: cfr. qui anche alla nostra nota 12. 5. MORETTI A., Gli umiliati, le comunità degli ospiti della Svizzera italiana, Helvetia Sacra, sez. IX, vol.I, Basilea/Francoforte sul Meno, 1992; cfr. in particolare per l'ospedale di Lugano alle pp. 125 142. 6. Cfr. nella Bibliografia in chiusura a questo testo: FOUCAULT M., Storia della follia ... cit., qui p. 67. 7. Cfr. nella Bibliografia al testo: BALDELLI CELOZZI P., Gli ospizi... cit., qui p. 88. 8. Per questi aspetti cfr. GILI A., L'uomo, il topo e la pulce. Epidemie di peste nei territori ticinesi... (XV XVII s.), in "Pagine storiche luganesi" (Riv.), 2, (1986), pp. 155 171. 9. Cfr. qui alle nostre note 4 e 5. 10. Cfr. GILI A., Lugano da borgo medioevale a città terziaria e d'affari, in "Pagine storiche luganesi " (Riv.), 1, (1984), pp. 31 34. 11. Per questa data cfr. MORETTI A., Gli umiliati ... cit., p.130 con le note dalla 84 alla 89. 12. Rinvio alle scritture d'archivio dell'ospedale (cfr. qui alla nostra nota 4); è a questa "Congregazione dei Deputati" che sono intestati i libri ms. (8) con i verbali concernenti l'amministrazione dell'ospedale, che decorrono dal 1611 in poi. 13. Cfr. nella Bibliografia in chiusura a questo testo: PROSDOCIMI L. e NASALLI ROCCA E., Il diritto ecclesiastico ... cit. 14. BORDONI B., Lugano; l'Arciconfraternita della Buona morte ed Orazione sotto il titolo di Santa Marta e il San Salvatore, Bellinzona Lugano, 1971; MORETTI A., Gli umiliati ... cit., p.131 con la nota 92. 15. VEGEZZI P., La chiesa e la confraternita di San Rocco in Lugano. I benefattori degli orfani della Pieve di Lugano, Lugano, 1902. 16. Per i conflitti tra foro secolare e foro ecclesiastico a riguardo dell'amministrazione dell'ospedale di Lugano cfr. CODAGHENGO A., Storia religiosa del Cantone Ticino, Lugano, 1942, vol II, pp. 295 297 e anche MORETTI A., Gli umiliati... cit., p.131 con la nota 93. 17. Cfr. BRESSAN E., L'"Hospitale" e i poveri... cit. nella Bibliografia al testo, qui p. 28. 18. GILARDONI V., I monumenti d'arte e di storia del Canton Ticino, vol. I, Locarno e il suo Circolo, Basilea, 1972, pp. 88, 89, 94, 95, 150, 171, 206, 243, 244, 250, 257, 260; MONDADA G., Locarno e il suo ospedale dal 1361 ai nostri giorni, Locarno, 1971; per l'ospedale di Bellinzona cfr. Inventario delle cose d'arte e di antichità. II. Distretto di Bellinzona, a cura di GILARDONI V., Bellinzona, 1955, p. 60; per altri ospizi cfr. MORETTI A., Gli umiliati... cit. 19. Cfr. nella Bibliografia in chiusura a questo testo:
NASALLI ROCCA E., Il diritto... cit., qui alla p. 207. 21. Le citazioni nel testo sono ricavate dalle raccolte delle Leggi e Decreti del Cantone Ticino ("Bullettino Officiale della Repubblica e Cantone del Ticino") alle rispettive annate. 22. Ibid. 23. Ibid. 24. Cfr. nella Bibliografia al testo: CESCHI R., Ottocento... cit., qui alla p. 134. 25. Ibid. 26. Ibid., p. 137 con la nota 19. 27. Cfr. nella Bibliografia in chiusura a questo testo: BERTONI B., Della pubblica... cit., qui alla p. 51. 28. L'atto è ordinato presso l'Archivio storico comunale di Lugano, fondo comunale, cartella 333, doc. 302. 29. MAESTRINI V., Sole, mare, luce per migliaia di bambini luganesi. Centenario (1877 1977) della Colonia luganese di cura marina, Lugano, 1977. 30. Cfr. nella Bibliografia al testo: NIEDERER G., cit. 31. Cfr. nella Bibliografia...: BERTONI B., cit. 32. Cfr. nella Bibliografia...: CESCHI R., Ottocento... cit., qui p. 140. 33. Questo disimpegno è stigmatizzato da Giorgio Casella, in un suo articolo (cfr. nella Bibliografia al testo), qui p. 246. 34. Cfr. in questo stesso volume i contributi di M. Lepori Bonetti e di A. Gandolla, passim. 35. Cfr. BRESSAN E., L'"Hospitale"... cit. nella Bibliografia al testo, qui pp 107 108. 36. Ibid. 37. Cfr. nella bibliografia al testo, BERTONI B., cit., p. 131 (legati sul sale) e pp. 132 134. 38. Rinvio al contributo di A. ABÄCHERLI in questo stesso volume. 39. Cfr. con quanto espresso al cap. 1 del testo. Bibliografia Le indicazioni che seguono non sono da intendere in senso stretto come bibliografia sul tema trattato (del resto vastissima), bensì come referenze di opere utilmente consultate, in genere esse stesse munite di ricchi apparati bibliografici cui rinvio. Nelle note al testo, dove peraltro ricorrono anche alcune delle opere sotto menzionate, sono poi citate anche altre pubblicazioni non indicate qui sotto. La lista elenca in un primo gruppo le opere a carattere generale e in un secondo gruppo le opere che vertono più specificatamente sul Cantone Ticino. • BALDELLI CELOZZI P., Gli ospizi negli stati italiani, in Monticone A. (a cura di), La storia dei poveri. Pauperismo e assistenza nell'età moderna, Roma, 1985. • BECK H. G. cfr. Wolter H. • BRESSAN E., Azione caritativa e sociale nell'età moderna e contemporanea, in A. Caprioli, A. Rimoldi, L. Vaccaro (a cura di), Storia religiosa della Lombardia. Chiesa e società. Appunti per una storia delle diocesi lombarde, Brescia, 1986, pp. 293 304. • IBID., L'"Hospitale" e i poveri. La storiografia sull'assistenza: l'Italia e il "caso lombardo", presentaz. di G. Rumi, Milano, 1981. • CATTAUI DE MENASCE G., L'assistenza ieri e oggi, in "Studium" (Riv.), Roma, 1963. • FAVA A., Organizzazione o libertà? Scelte di lungo periodo tra Cinque e Seicento, in MONTICONE A.(a cura di), La Storia... ,cit. • FONSECA C. D., Forme assistenziali e strutture caritative della Chiesa nel Medioevo, in CAPRIOLI A., RIMOLDI A., VACCARO L. (a cura di), Storia religiosa... , cit., pp. 275 291. • FOUCAULT M., Storia della follia nell'età classica, Milano, 1977. • GREMECK M. D., Importanza degli archivi ospedalieri alla luce dei nuovi orientamenti della storiografia, in M. Galzigna e H. Terzian (a cura di), L'archivio della follia; il manicomio di San Servolo e la nascita di una fondazione, Venezia, 1980, pp. 13 15. • IMBERT J., Les hôpitaux en France, Paris, 1958. • MENOZZI D., Chiesa, poveri, società nell'età moderna e contemporanea, Brescia, 1980. • MONTICONE A. (a cura di), La storia dei poveri. Pauperismo e assistenza nell'età moderna, Roma, 1985. • IBID., Lavoro, risorse e nuova società nell'età della Restaurazione, in ID.(a cura di), La storia... ,cit. • MOROZZO DELLA ROCCA R., Il potere, la sicurezza, l'ordine, in Monticone A. (a cura di), La storia... ,cit. • IBID., Vecchio e nuovo nell'immagine della povertà agli inizi dell'età moderna, in Monticone A. (a cura di), La storia... cit. • NASALLI ROCCA E., Il diritto ospedaliero nei suoi lineamenti storici, Milano, 1956. • PENCO G., Storia della Chiesa in Italia, Milano, 1977, vol. II, pp. 257 264 e 451 462. • PROSDOCIMI L., Il diritto ecclesiastico nello Stato di Milano dall'inizio della signoria viscontea al periodo tridentino (sec. XII XVI), Milano, 1941. • WOLTER H. BECK H. G., L'ospedale in Occidente
durante l'alto Medioevo, in JEDIN H. (a cura di), Storia della Chiesa, Milano,
1976, vol. V/1, pp. 160 166. • CASELLA G., L'assistenza della vecchiaia indigente nel Cantone Ticino, in "Pagine nostre" (Riv.), III (1923 24), 6, pp. 242 247. • CESCHI R., Il "mortifero vomito orientale". Epidemie, condizioni sanitarie, medici e "volgo" nel Ticino dell'Ottocento, in "Archivio storico ticinese" (Riv.), 83 (1980), pp. 407 454. • IBID., Legislazione sociale, in "Scuola Ticinese" (Riv.), 102, (1982), pp. 20 23. • IBID., Sanità e assistenza, in ID., Ottocento ticinese, Locarno, 1986, pp. 119 140 • CODAGHENGO A., L'attività caritativa ed assistenziale delle comunità religiose nel Ticino, in ID., Storia religiosa del Cantone Ticino, Lugano, 1942, vol II, pp. 351 375 (cfr. anche pp. 321 350 e 395 401). • LORENZETTI L., Pauvreté et marginalité: aspects du contrôle sociale au Tessin au XIX siècle, Ginevre, memoire de diplome, 1993, dattil. • NIEDERER G., Le paupérisme en Suisse. Législation en matière de secours publics et statistique de l'assistance officielle et de l'assistance libre, Zurigo, 1878. • TALARICO R., Il Cantone malato. Igiene e sanità pubblica nel Ticino dell'Ottocento, Lugano, 1988.
di Aldo Abächerli 1. Caratteri generali 1.1. Una storia ancora da scrivere La Direzione di questa rivista mi ha rivolto l'invito di far conoscere, sia pure in breve, l'opera che la Chiesa e specialmente le Congregazioni religiose hanno svolto e vanno svolgendo nel Cantone Ticino, per il ricovero e l'assistenza dei nostri poveri vecchi. (...) E devo dire subito che fu per me stesso una sorpresa, la constatazione, alla quale prima d'ora non feci caso, che tutti i Ricoveri, esistenti pei vecchi nel Cantone Ticino, sono affidati alle cure delle Religiose. Sono 18 Case, dove oltre 100 Suore assistono quasi 500 vecchi! (1). Lo stupore manifestato da don Emilio Cattori nel 1931 quando, per rispondere ad un invito della rivista Pro Senectute, dal suo osservatorio privilegiato nella Curia vescovile di Lugano si accinse a redigere un elenco degli istituti per anziani assistiti da religiose è doppiamente significativo. Da una parte esso attesta la grande importanza, anche quantitativa, che l'azione caritativa della chiesa cattolica rivestiva nell'ambito dell'assistenza sociale nel cantone. Dall'altra esso testimonia come questa opera si fosse diffusa in modo autonomo tanto che la stessa autorità religiosa non ne aveva che una cognizione assai vaga (2). Esattamente nello stesso anno 1931 il prevosto di Lamone don Sarinelli dava alle stampe una guida della Diocesi di Lugano (3) che, se si ha la costanza di superare le aridità del testo, rivela ancor meglio quale fosse l'ampiezza dell'attività caritativa cattolica in diocesi negli anni immediatamente precedenti alla fondazione della Caritas diocesana. Dalle pagine del Sarinelli che pur si limita a realtà strettamente istituzionali emergono oltre un centinaio di istituzioni caritative, di enti o di associazioni cattoliche dediti ad attività di assistenza nella Diocesi di Lugano. Lo stupore manifestato da mons. Cattori è quindi anche il nostro perché di tutta questa varietà di interventi non possediamo ancora né una coscienza precisa, né una visione complessiva. Non esistono studi che si occupino in modo organico delle vicende della carità cattolica in Ticino nei primi decenni della Diocesi: la storia della carità cattolica è partecipe del ritardo accumulato dagli studi di storia religiosa della nostra diocesi, ritardo che sono in questi ultimi anni ha iniziato a colmarsi (4). A titolo di parziale consolazione si può constatare che anche in ambito sovranazionale si riconosce la difficoltà di quantificare l'attività assistenziale della Chiesa in epoca contemporanea, data la dispersione e la mancanza di coordinamento che caratterizzarono le innumerevoli iniziative (5). La storia più generale dell'assistenza sanitaria e sociale in Ticino soffre del resto di ritardi analoghi (6). Conseguentemente è impossibile pretendere, soprattutto in una sede come questa, di redigere non solo una "storia" della carità cattolica nei primi cinquant'anni della diocesi di Lugano, ma anche solo un elenco dell'attività caritativa che abbia qualche ambizione di esaustività. Troppo vasto è infatti il materiale documentario che attende di essere esaminato. Rinunciando parimenti a ogni ambizione di sintesi o di periodizzazione, ci limiteremo qui a fornire una semplice traccia, forzatamente incompleta, dell'attività caritativa cattolica con qualche precisazione bibliografica di modo che il lettore possa formarsi un'immagine del carattere multiforme e complesso dell'impegno cattolico nel campo caritativo in diocesi. Occorre quindi avere presente i limiti del presente studio. Cercando di ricostituire, seppure grossolanamente, un quadro complessivo piuttosto che approfondire singole realtà si è volutamente rinunciato ad ogni ricerca di tipo archivistico, che si rivela enormemente dispendiosa in quanto la documentazione è dispersa tra le varie istituzioni, le sedi delle associazioni, le case madri o generalizie delle congregazioni religiose, le parrocchie, le autorità ecclesiastiche (7) e civili (8). La ricerca si è basata unicamente su fonti a stampa dell'epoca, quali il Monitore ecclesiastico, i repertori del Borrani (9) e del Codaghengo (10), la guida del Sarinelli (11), o la monografia pubblicata in occasione del 50o anniversario della Diocesi di Lugano (12). Si è fatto inoltre capo ad un buon numero di testi celebrativi e numeri unici riguardanti singoli enti o istituzioni. Questi numeri unici (13) costituiscono una fonte insostituibile per la storia della carità e dell'assistenzialismo cattolico, ma devono essere valutati con cautela perché inesattezze e contraddizioni non mancano in pubblicazioni celebrative che a pochi anni dagli eventi spesso denotano già una perdita di memoria storica (14). Esamineremo dapprima, in modo assai sintetico, quali sono gli aspetti salienti della attività caritativa cattolica nello spazio temporale che va dalla prima sistemazione amministrativa della diocesi di Lugano (1885) agli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale. Si tratta di affermazioni basate su una lettura informata delle fonti che abbiamo menzionate, completate con una lettura più generale della storia diocesana così come è nota dai repertori correnti. Si tratta quindi di affermazioni che dovranno essere puntualmente verificate. Nella seconda parte identificheremo quali sono i soggetti principali dell'azione caritativa, secondo un modello generalmente accettato dalla storiografia corrente. Nell'ultima parte infine presenteremo alcuni ambiti ove la carità cattolica si è espressa, limitandoci ad opere di carattere materiale e senza alcuna pretesa di organicità. E evidente che altro dovrà essere l'approccio e altri i valori presi in esame da chi vorrà realmente scrivere la storia della carità cattolica in Ticino.
La definizione del campo della carità cattolica a prima vista sembra scontata. In realtà la definizione dell'attività caritativa così come era percepita dal mondo cattolico diocesano tra Ottocento e Novecento è sicuramente complessa, e richiederebbe uno studio condotto con una metodologia assai elaborata. Ma per situare almeno sommariamente la carità cattolica dell'epoca nel suo contesto, ci sembra di poter condividere nelle sue linee fondamentali una definizione che Romano Amerio ha dato presentando l'Opera pia Maghetti di Lugano (15): La fondazione Maghetti appartiene a quelle opere pie che, in tempi in cui la religione informava di sé l'intera vita, erano prescritte come opere di misericordia, tutte in beneficio del prossimo e tutte aventi per fine soggettivo la propria salute spirituale. Tali opere pie sono lo scopo di molti ordini religiosi. Quasi infinite confraternite di laici si proposero le opere di misericordia. Le opere pie furono però la sollecitudine non solo di consorzi, ma anche di persone private (...). I fondamenti teologici della carità sono assai più ampi della dottrina relativa alle opere di misericordia. La carità, essendo "accanto all'annuncio della buona novella, funzione fondamentale della chiesa" (16) è oggetto di una dottrina che partendo dalle virtù teologali trae alimento da diverse fonti, tra cui dall'interpretazione del Decalogo (17). Ma dal punto di vista pratico è indubbio che proprio il concetto di opere di misericordia, nella sua linearità precettistica, fosse quello che maggiormente operava nelle coscienze dei fedeli in un'epoca a cavallo tra XIX e XX secolo in cui anche nella nostra diocesi l'istruzione catechistica era in pieno sviluppo. Rammentiamo qui quali fossero le opere di misericordia, traendo la definizione da un testo dell'epoca (18): Le opere buone delle quali ci sarà domandato conto particolare nel dì del Giudizio sono le opere di misericordia. Opera di misericordia è quella con la quale si soccorre ai bisogni corporali o spirituali del nostro prossimo. Le opere di misericordia corporali sono: 1. Dar da mangiare agli affamati. 2. Dar da bere agli assetati. 3. Vestire gli ignudi. 4. Alloggiare i pellegrini. 5. Visitare gli infermi. 6. Visitare i carcerati. 7. Seppellire i morti. Le opere di misericordia spirituali sono: 1. Consigliare i dubbiosi. 2. Istruire gli ignoranti. 3. Ammonire i peccatori. 4. Consolare gli afflitti. 5. Perdonare le offese. 6. Sopportare pazientemente le persone moleste. 7. Pregare Dio per i vivi e per i morti. Da qui deriva la vastità d'azione della carità cattolica dell'epoca, che comprendeva sia opere materiali che opere spirituali. Per valutare la carità cattolica occorre quindi abbandonare l'immagine sostanzialmente assistenziale di oggi ed accettare ad esempio che per un fedele dell'inizio del secolo non vi era sostanziale differenza tra il soccorso agli infermi portato negli ospedali o la preghiera per quegli stessi infermi tenuta al proprio domicilio. Vi è di più. Spesso ma anche all'epoca vi era chi disgiungeva le cose risulta difficile secondo gli attuali parametri di giudizio separare quella che era un'azione di carità ed assistenza da ciò che a noi sembra opera di apostolato o, per alcuni, proselitismo, poiché in alcuni casi le opere di misericordia corporali non erano se non un mezzo per mettere in atto opere spirituali. Riassumendo si può quindi sommariamente dire che il campo della carità cattolica all'epoca era un molto ambito vasto e dai confini incerti: ogni opera, ogni azione che in qualche modo potesse essere rapportata anche in senso lato a una delle opere di misericordia che abbiamo qui sopra citate rientrava nell'ambito della carità. Il fine ultimo della carità tendeva ad essere il fine salvifico personale. La carità cattolica comprendeva aspetti prettamente spirituali che al giorno d'oggi non si assocerebbero con immediatezza al campo caritativo. Era carità ad esempio l'attività di certe pie unioni che applicavano preghiere a favore di realtà o categorie di persone particolari, era parimenti carità l'appoggio dato alle vocazioni spirituali, e così via. Per fare un ulteriore esempio, era definita "istituzione di carità e d'apostolato" la cosiddetta "crociata dei ciechi", di origine belga, che venne introdotta in Diocesi nel 1929, di cui uno degli aspetti consisteva nel recarsi mensilmente da un cieco e leggergli un apposito pensiero edificante scritto dal papa (19). Risulta talvolta difficile separare in un'azione caritativa la parte propriamente spirituale da quella materiale. Quella che a molti potrebbe sembrare un'azione utilitaristica di apostolato, era all'epoca parte integrante del concetto cattolico di carità. L'esempio più evidente di quanto andiamo dicendo è costituito dall'azione del vescovo Molo, alla fine del XIX secolo, in favore dell'istituto dei sordomuti di Locarno. L'appoggio dato dall'autorità religiosa all'istituto era motivato sia dalla volontà di soccorrere una categoria di fanciulli particolarmente sfavorita, sia dalla necessità di dare un'istruzione a questi fanciulli affinché potessero partecipare alla vita sacramentale della Chiesa e non rimanessero esclusi dalle normali attività parrocchiali come invece era avvenuto fino ad allora. Il campo stesso della carità "materiale" poi era molto largo, comprendendo tra l'altro oltre all'assistenza sociale e sanitaria ad esempio anche il campo dell'istruzione, sia per l'opera delle scuole cattoliche, sia per l'insegnamento dato da congregazioni religiose nella scuola pubblica (20). Pure l'attività missionaria, intesa come missione civilizzatrice o "antischiavistica", rientrava appieno nell'ambito caritativo. La carità cattolica insomma conteneva in sé qualcosa di globalizzante, tanto che ogni istituzione, anche laica, che si basasse sull'apporto di personale religioso o comunque cattolico era considerata appartenere alla sfera della carità cattolica. Ciò a dire il vero è una caratteristica che prende a manifestarsi negli anni tra le due guerre mondiali, quando lo sviluppo degli istituti religiosi nel cantone porta lentamente ad identificare in un rapporto dialettico con l'autorità civile la carità cattolica con quelle iniziative ospedali, istituti, ecc. fondate sul mattone o comunque concretamente quantificabili (21).
L'azione caritativa dei cattolici in Ticino nell'epoca presa in esame rientra pienamente nelle linee di sviluppo più generali della carità cattolica della Chiesa universale. Essa partecipa inoltre alle tendenze espresse dall'assistenzialismo laico, più che essere un reale elemento di contrapposizione con esso. Nel presente capitolo presenteremo con una serie di enunciati alcune delle caratteristiche che a nostro modo di vedere denotano la carità cattolica nei primi decenni di vita diocesana. Non ci soffermeremo sul quadro legislativo in cui la carità cattolica si espresse poiché altri autori lo hanno già fatto all'interno di questa opera (22). Ricordiamo solo che il Ticino nel campo assistenziale si trovava in una situazione di grave ritardo. Le leggi del 1854 e del 1855 avevano sancito che l'obbligo dell'assistenza pubblica spettava ai comuni i quali però, per ragioni economiche, non vi provvedevano che in maniera largamente insufficiente. La situazione legislativa migliorerà nettamente solo negli anni Trenta del nostro secolo (23). Per quanto riguarda gli aspetti comuni tra le concezioni laiche della beneficenza in Ticino e quelle della carità cattolica, constatiamo che entrambe non ritengono come una questione urgente un intervento specifico in Ticino a favore della povertà, al di là di qualche richiamo generico. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che mentre in altre nazioni o in altre realtà con il processo di industrializzazione e la trasformazione delle campagne questo fenomeno era esploso in maniera drammatica, in Ticino esso, pur manifestandosi, ebbe un'incidenza meno forte. Come all'epoca venne osservato da più parti, malgrado uno stato generalizzato di relativa povertà della popolazione, essa conservava ancora un carattere definito "benigno", grazie anche al ruolo svolto dall'emigrazione. In Ticino non si constatavano insomma quelle sacche di miseria tipiche di molte aree urbane del XIX secolo, aree prescelte dalla beneficenza civile e dal volontariato cattolico per interventi specifici. Ne conseguiva che l'azione caritativa si rivolgeva piuttosto a due precise categorie: quella della fanciullezza abbandonata, e quella delle persone che per infermità o per invalidità erano impedite di lavorare o necessitavano di cure e assistenza speciali, categoria quest'ultima nella quale, come avremo modo di vedere più innanzi, a partire dal XX secolo gli anziani occuperanno un ruolo predominante. In questi atteggiamenti è ravvisabile una tipica concezione dell'epoca, che riteneva la povertà sostanzialmente una colpa, poiché coloro i quali possedevano la salute potevano sicuramente provvedere al proprio sostentamento. Se l'autorità religiosa non condivideva il concetto secondo il quale la povertà non poteva essere che frutto di "depravata indolenza", ma anzi cercava di recuperare l'immagine di Cristo nascosto sotto le sembianze del povero, è indubbio che, come traspare anche da alcuni lasciti testamentari a favore di istituzioni cattoliche, l'equivalenza tra povertà e colpa aveva credito anche negli ambienti cattolici. Un altro aspetto comune tra l'attività assistenziale laica e quella cattolica è il fatto che nel XIX essa nasce spontaneamente, dal basso. In entrambi i campi poi si ritiene che l'assistenza privata sia preferibile a quella pubblica poiché più vicina alle esigenze della gente e meno burocratizzata. Il campo cattolico forse fu il primo ad abbandonare questo concetto, poiché essendo maggiormente impegnato sul fronte assistenziale riconobbe per primo che oltre un certo limite l'intervento privato non poteva più sopperire ai grandi bisogni emergenti. Per contro la beneficenza laica riconobbe per prima la necessità di un azione organizzata nel campo assistenziale che andasse oltre l'intervento individuale, organizzazione che in campo cattolico non solo suscitava, come fu ad esempio il caso in molte nazioni per le organizzazioni di Caritas, il sospetto dell'autorità religiosa, ma era tradizionalmente estraneo al concetto profondamente radicato di azione caritativa come gesto individuale destinato alla propria "salute spirituale". Parimenti la carità cattolica, si mantenne fedele, pur relativizzandolo di fronte alle nuove insorgenze poste dalla questione sociale, al concetto di elemosina, aborrito invece al motto di "fare elemosina non è carità" dall'assistenzialismo laico in quanto ritenuto fonte di abiezione. Un ulteriore punto di divergenza, e di peso, riguardò le modalità di intervento. Mentre gli ambienti laici si dichiararono risolutamente contrari alla creazione di istituti, preferendo tranne in casi speciali che gli orfani, i poveri o i vecchi fossero accolti presso famiglie private, la carità cattolica, e più precisamente le congregazioni religiose, fece dell'istituto" un suo mezzo privilegiato d'intervento. In ciò è da vedersi anche il concetto tipicamente ottocentesco che riteneva preferibile che la carità e l'assistenzialismo cattolico si manifestassero entro un vissuto ascetizzato. Continuando ad esaminare le caratteristiche proprie alla carità cattolica in Ticino tra XIX e XX sec., si può facilmente notare che, come è stato rilevato per quasi tutte le nazioni vicine a noi, essa si differenzia molto da quella dei secoli passati e soprattutto, come abbiamo già detto, è promossa dalla "base" più che dalle autorità religiose. In Ticino abbiamo la prova di ciò scorrendo i testi ufficiali emanati dall'Autorità vescovile: si può facilmente rilevare che in oltre cinquant'anni i richiami alla carità, e soprattutto ad un'azione caritativa concreta, sono pochissimi. Si può dunque dire che il grande risveglio caritativo cattolico della seconda metà dell'Ottocento è dovuto essenzialmente a due poli distinti. Da una parte vi sono, le iniziative personali e locali, in genere sviluppatesi nell'ambito parrocchiale, che in molti casi sono promosse da qualche esponente del clero. Dall'altra parte vi è l'attività delle congregazioni religiose, che conoscono un enorme sviluppo e si dedicano ad una molteplicità di attività caritative (24). Solo successivamente un terzo polo, l'autorità ecclesiastica, aumenta la sua presenza e tende ad assumere un ruolo di guida nell'ambito caritativo: in Ticino ciò comincia ad essere manifesto a partire dagli anni Venti del nostro secolo. Nella realtà però, come si può facilmente verificare esaminando ad esempio le procedure di fondazione degli istituti cattolici ticinesi all'inizio del '900, vi è sempre una certa interdipendenza tra i tre soggetti: un caso tipico è costituito dai lasciti beneficiari che singoli testatori legano a salvezza della propria anima, e che poi sono raccolti e indirizzati verso la creazione di istituzioni caritative dall'autorità religiosa, la quale chiama infine una congregazione a dirigere l'istituto mantenendo però un compito di sorveglianza.
2.1. Primo soggetto: l'autorità ecclesiastica Come è emerso dal capitolo precedente, tra i tre soggetti che alla fine dell'Ottocento si fecero carico del rinnovamento e dello sviluppo dell'azione caritativa cattolica, l'autorità religiosa andrebbe citata per ultima poiché la sua azione fu in genere di portata inferiore a quella delle congregazioni religiose o delle iniziative locali. Se qui viene menzionata per prima, è perché malgrado tutto essa poco o tanto inquadrò entro certi limiti l'attività degli altri soggetti cattolici. Due sono gli aspetti da tenere in considerazione. Per quanto riguarda il discorso sulla povertà e sull'assistenza, dall'esame delle fonti a stampa emerge inequivocabile un certo silenzio dei vescovi ticinesi sull'azione caritativa. Questo silenzio può avere diverse motivazioni. La prima potrebbe fare riferimento al fatto che all'epoca il richiamo al dovere della carità non necessitava del magistero vescovile, perché era costantemente presente nell'educazione catechistica di ogni fedele. Ciò può apparire esplicito esaminando ad esempio i discorsi di Mons. Bacciarini, nei quali le tematiche legate alla carità sono poco presenti malgrado l'inequivocabile scelta di vita effettuata dal vescovo (25). La seconda potrebbe invece indicare, almeno nei primi decenni di vita della Diocesi, un notevole ritardo da parte dell'episcopato nel comprendere l'evoluzione dei tempi. In effetti la pastorale ottocentesca riusciva con difficoltà a concepire una civiltà cristiana senza classi giacenti in ordine gerarchico. La condizione subalterna del povero veniva esaltata come evangelicamente beata, mentre il soccorso ai poveri non era che un impegno personale del ricco per ottenere la benedizione di Dio. Si veda ad esempio il seguente passaggio tratto da una lettera pastorale di mons. Eugenio Lachat: "... noi vorremmo far regnare tra voi la pace e la carità... . Noi vorremmo ricordare ai ricchi il dovere di soccorrere i poveri, e ricordare ai poveri la pazienza, e il dovere di sopportare le disuguaglianze sociali, e con nobile rassegnazione i disagi del loro stato... (26)". Ancora più esplicito si mostra mons. Giuseppe Castelli quando il 14 febbraio 1887 comunica le norme per l'indulto quaresimale di quell'anno (27). Sintetizzando il suo intervento, emerge cosa egli intenda per carità cattolica: i beni terreni elargiti ai ricchi sono un mezzo assai facile per redimere le colpe. Dio ama chi largheggia con i poverelli, cogli infelici: e contraccambierà proporzionalmente con la misericordia. Bisogna però donare non per sola bontà di cuore, non per sola naturale compassione, ma per amore di Gesù Cristo. Ai poveri la penitenza è imposta dalla loro stessa condizione. Devono impreziosirla sopportando con pazienza e rassegnazione, e santificarla unendola in spirito alla passione del redentore. Ricchi e poveri dovrebbero ispirarsi ai nobilissimi insegnamenti della dottrina: così le nazioni non sarebbero preda delle attuali convulsioni. Tutte le classi conglutinate dai vincoli della carità e della gratitudine rinnoverebbero il giocondo spettacolo dei primi tempi della Chiesa. Soprattutto dopo la pubblicazione dell'enciclica Rerum Novarum, nella Chiesa lentamente questa concezione riduttiva e paternalistica tramontò, ma l'autorità diocesana ticinese in questo mutamento di mentalità sembra occupare posizioni non molto avanzate. Particolarmente significative a questo riguardo le posizioni assunte dal Sinodo diocesano del 1910, che riprende in pieno argomenti dei secoli precedenti. Nel capitolo riguardanti i costumi del popolo intitolato "De variis statibus et vocationibus" vengono sviluppate le vecchie tematiche di conservazione dei vari stati sociali, mentre tutta l'azione sociale proposta si riduce ad un attestazione di lode per chi si occupa della sorte dei più sfavoriti. Ancora più evidente appare lo scollamento con la situazione sociale nell'affrontare il tema dell'emigrazione, ridotto dagli articoli sinodali ad una sorta di malsana e vana "febbre dell'oro" (28). I rimedi sociali proposti dall'articolo sinodale successivo sono altrettanto eloquenti: si propone infatti di stimolare l'amore del patrio suolo, assuefare i fedeli ad essere contenti del pane quotidiano, educare a favorire innanzitutto la salvezza dell'anima. Per quanto riguarda l'azione caritativa diretta promossa dall'autorità ecclesiastica, anche in questo campo non vi fu un particolare attivismo (29). La scarsità di interventi caritativi diretti da parte della gerarchia ecclesiastica è forse in parte spiegabile dal fatto che gravi necessità finanziarie gravavano sulla giovane diocesi (si pensi ai debiti per la costruzione del seminario diocesano, per i restauri della cattedrale di Lugano ecc.), e quindi l'autorità si trovò obbligata ad indirizzare i non rilevanti flussi finanziari provenienti dai fedeli verso queste esigenze. L'unico vero intervento protratto su un lungo arco di tempo e dove l'impegno dell'autorità è netto è quello in favore dei chierici poveri, e quello in favore dei preti poveri. Fino dalla seconda metà dell'Ottocento la diocesi era colpita da una crescente mancanza di clero, e il numero delle parrocchie vacanti continuava ad aumentare. Una delle cause era stata individuata nel sacrificio finanziario che gli studi ecclesiastici comportavano: da qui nacque un particolare impegno dell'autorità ecclesiastica per venire incontro ai bisogni delle famiglie dei chierici favorendo nel contempo il compimento della loro vocazione. La precarietà della situazione materiale colpiva poi anche il clero già formato. Di fronte a parrocchie che possedevano fortune notevoli e potevano garantire una vita dignitosa ai pastori d'anime, vi erano molte parrocchie povere e prive di capitali di dotazione per i propri benefici. Molti parroci vivevano sotto la soglia di povertà, sfavoriti nei confronti di una popolazione altrettanto povera dal fatto che era loro vietato dedicarsi ad altre attività remunerate. Molti parroci anziani o malati, non potendo più officiare, venivano a trovarsi sull'orlo della miseria. Comprensibile quindi che la Curia vescovile, preoccupata per le gravi conseguenze di ordine spirituale che l'indigenza del clero portava con sé, dedicasse particolare attenzione a risolvere innanzitutto questi problemi, lasciando una sorta di delega all'associazionismo laico e alle congregazioni religiose per affrontare il vasto problema dell'assistenza caritativa nella società civile. Il quadro muterà parzialmente con l'elezione ad amministratore apostolico di Lugano di Mons. Aurelio Bacciarini (1917). Proveniente dalla Congregazione dei Servi della Carità, di cui resterà superiore fino al 1925, Bacciarini promuoverà direttamente iniziative in ambito caritativo, nei limiti concessigli dal suo travagliato episcopato. Per il resto la Curia appoggiò in varia misura iniziative esterne, delegando talvolta l'azione caritativa ad organizzazioni cattoliche o appoggiando iniziativa laiche. Sono da menzionare in primo luogo le iniziative di provenienza nazionale (Opera delle Missioni Interne, protezione della giovane ecc.). Dopo l'appoggio ad iniziative nazionale, particolarmente importante l'appoggio dato alle iniziative cattoliche diocesane, in particolare quelle legate ad associazioni cattoliche (Conferenze di S. Vincenzo, Dame della misericordia, particolarmente seguita da mons. Peri). La carità cattolica degli anni Venti presenta aspetti interessanti. Ad esempio l'appoggio dell'autorità religiosa andava anche ad iniziative caritative od assistenziali laiche o statali (collette pubbliche organizzate a seguito di catastrofi, associazioni Per la Vecchiaia, lega contro il cancro, associazione a favore dei ciechi, sanatorio cantonale, assistenza ai tubercolosi poveri; cfr. dono Bacciarini). In ciò vi è una rottura con atteggiamenti precedenti. Negli anni venti si verifica anche un mutamento di atteggiamento verso l'associazionismo religioso. A partire da quegli anni sembra esserci un tacita intesa per la quale l'autorità diocesana delega alle forze dell'azione cattolica ed ai cristiano sociali l'attività caritativa pratica. Sarà all'interno dell'Azione Cattolica che, oltre a molti interventi caritativi minori verranno organizzati anche alcuni di maggior respiro: Segretariato ticinese si beneficenza (1925), Opera pro madri bisognose (1928), Associazioni di carità: è forse anche per questo che la Charitas diocesana negli anni '40 prenderà avvio a cavallo tra queste due forze.
2.2.1. I laici L'azione caritativa dei singoli è la più difficile da quantificare, perché è quella che lascia meno tracce. Un esame della contabilità di singole parrocchie o istituzioni religiose condotta su un certo numero di anni potrebbe dare qualche indicazione, ma non si può dimenticare che la povertà della popolazione di molte parrocchie rurali impedisce che il criterio finanziario serva ad una reale quantificazione dell'azione caritativa. Inoltre, soprattutto nelle regioni rurali, gran parte dell'azione caritativa non passava dall'istituzione ecclesiastica ma veniva fornita nella vita quotidiana con piccoli aiuti diretti, forniti in natura. È nondimeno interessante rilevare la destinazione dei lasciti beneficiari così come emerge dai pochi repertori generali (30), anche se si tratta di gesti caritativi che concernono solo persone di un certo censo. Mentre nei secoli XVII e XVIII sono numerosi i lasciti destinati a cappellanie ecclesiastiche, nel XIX secolo la suddivisione parrocchiale e l'assistenza religiosa ha raggiunto ormai il suo culmine, ed anzi molte cappellanie risultano vacanti. Nel XIX secolo quindi la beneficenza si volge verso la povertà, creando fondi per determinate classi di individui (scolari, chierici, nubende povere...). Ciò è forse segno anche dell'emergere di un nuovo concetto sociale di povero nella società dell'Ottocento. Verso la fine del secolo, e nel XX secolo, i lasciti si indirizzano maggiormente verso istituti parrocchiali o regionali: asili parrocchiali, ricoveri, ospedali. Occorre infine ricordare che nel corso degli ultimi secoli i lasciti beneficiari hanno costituito una delle principali forze propulsive della carità cattolica.
Esaminando la realtà ticinese, si può dire che è soprattutto a livello di parrocchia che alla fine dell'Ottocento la carità si sviluppa. Una menzione particolare dev'essere dedicata al ruolo dei singoli sacerdoti, soprattutto dei parroci. Si può indubbiamente affermare che nella nostra Diocesi il ruolo del clero sia stato fondamentale nell'azione caritativa. I parroci hanno avuto un doppio ruolo: da una parte hanno raccolto, organizzato e diretto l'azione caritativa dei propri parrocchiani; dall'altra si non fatti promotori di iniziative parrocchiali o regionali talvolta di vasto respiro. Nell'epoca in esame non vi è praticamente iniziativa cattolica di un certo rilievo concernente la carità che non veda l'apporto determinante di un sacerdote. Si constata d'altra parte un certo parallelismo tra gli interventi di sacerdoti o di unioni di sacerdoti, e un certo regionalismo nell'intervento delle autorità locali. Quantificare la loro azione dei sacerdoti significa in pratica ripercorrere tutta la storia della carità diocesana. Tra le iniziative particolarmente seguite dai parroci, si segnalano la creazione degli asili parrocchiali, e la fondazione di ricoveri per anziani e di ospedali. La diffusione dell'assistenza sanitaria e agli anziani nelle regioni periferiche del Ticino deve moltissimo all'opera dei parroci locali. Pure da annoverare tra le opere dei parroci vi è la fondazione degli oratori parrocchiali festivi, ma questo è un campo che, almeno nella nostra diocesi, si situa al limite dell'attività caritativa. Pure al limite dell'attività caritativa si situano le varie iniziative di mutuo soccorso tra il clero. Un campo particolarmente interessante, anche se limitato, riguarda le iniziative che i parroci promossero a sostegno della classe operaia, del benessere sociale o dell'occupazione. Alcune iniziative, come quelle promosse da don Simona nelle Centovalli, o da don Sarinelli a Lamone o da don Ferreguti nel Malcantone, meriterebbero di essere studiate compiutamente.
2.2.3.1. Le associazioni "tradizionali" Come abbiamo detto, verso il XX secolo l'azione caritativa degli individui si manifesta sempre più in forme organizzate. In questo senso l'azione caritativa cattolica segue una evoluzione parallela alla beneficenza pubblica, che disprezza l'intervento individuale come tendente ad un assistenzialismo sostanzialmente sterile e perfino controproducente. Nel mondo cattolico non vi è d'altra parte un rifiuto così marcato dell'azione individuale, che anzi resta al fondo di ogni intervento anche collettivo, come non vi è un rifiuto dell'elemosina tanto disprezzata dalla filantropia ottocentesca come fonte di parassitismo. In alcuni ambiti si riconosce però che sia l'uno che l'altra non sono adeguati a risolvere i maggiori problemi sociali. Anche nei secoli precedenti vi erano forme caritative organizzate. Una delle forme più ricorrenti è stata quella della confraternita laicale. Alla fine dell'Ottocento però in Ticino il mondo delle confraternite è nettamente in declino. L'esame delle relazioni delle visite ecclesiastiche mostra che quelle che hanno ancora vitalità in genere operano nell'ambito di un marcato formalismo. Nell'ambito della carità ne sopravvivono pochissime, in genere dedite all'assistenza spirituale più che materiale dei moribondi. In luogo delle confraternite nascono nuove associazioni dalla finalità esclusivamente caritativa. È su di esse che per alcuni decenni incomberà il ruolo ufficiale dell'assistenza diocesana, fino allo sviluppo della Caritas. Occorre precisare che però l'organizzazione caritativa cattolica rimane numericamente limitata, forse perché essa è piuttosto legata ad ambienti di tipo urbano. Nei paesi infatti, come ripetono le testimonianze dell'epoca, alla carenza di assistenza sopperiva la solidarietà vicinale spontanea. L'organizzazione più antica nella storia diocesana è quella della Società di S. Vincenzo de’ Paoli per l'assistenza ai poveri, che con il suo comitato centrale costituisce il primo embrione di associazione caritativa diocesana. Accanto ad esse sono attive le Dame della Carità, che ne costituiscono il pendant femminile. • La Società di S. Vincenzo si ispira alla Società fondata da Federico Ozanam nel 1833. Ha il suo scopo essenziale nell'azione caritativa, principalmente con l'assistenza diretta degli indigenti, ma anche con opere maggiormente strutturate (scuole cristiane, segretariati sociali ecc. In Svizzera la Società di S. Vincenzo era affiliata al Pius Verein prima, all'Unione Popolare Cattolica Svizzera poi, ma in Ticino questo fatto non ebbe una incidenza particolare. La conferenza ticinese più antica (31) è quella di Locarno, fondata il 26 luglio 1885 da Giuseppe Pedrazzini. Pedrazzini dimorava a Intra ed era membro di quella conferenza. Nel 1885 si adoperò per la creazione di una conferenza anche a Locarno. Molti esponenti del clero (ad esempio i sacerdoti Fonti, Roggiero, Padlina ecc.) ne furono membri. La conferenza prese il nome di "S. Antonio Abate". Ad essa seguì la Conferenza dei SS. Pietro e Stefano di Bellinzona, fondata nel 1896, di cui si sa poco. Dal movimento finanziario reso pubblico nel 1933 se ne deduce che ebbe una notevole attività. I fondi raccolti dalle Suore Infermiere d'Ingenbohl (dal 1902) e di S. Anna (1930) confluivano nelle sue casse. Contemporaneamente sosteneva queste due congregazioni, ed inoltre aveva finanziato i restauri delle case delle S. di Ingenbohl e l'acquisto della casa per le suore di S.Anna. La Conferenza di S. Lorenzo di Lugano venne fondata il 19 febbraio 1898, dietro iniziativa del conte Giuseppe Thun, già socio della Conferenza di S. Nicola degli Incoronati di Roma e della Conferenza di Montreux, in una sala del palazzo vescovile. Il Vescovo ne era presidente onorario. Nei decenni seguenti, e fino al presente, sorsero poi altre conferenze locali. • Associazione femminile di assistenza popolare, Claro. È citata nel 1935: spesa non precisata di fr. 90.000 a suo favore. • L'Associazione delle dame della carità, poi Volontarie vincenziane, prendevano a modello l'associazione fondata da Luisa di Marillac in Francia. In Ticino esistono dal 1889 (32). In quell'anno suor Carolina Paletti, della congregazione delle Figlie della Carità, confrontata ad un triste caso sociale, si recò dal Vescovo Mons. Molo e lo convinse della necessità di istituire un'associazione caritativa per l'aiuto ai poveri. Contemporaneamente si rivolse ad alcune signore di Lugano, desiderose di bene, trovando terreno adatto. L'associazione viene fondata il 27 ottobre 1889. Nei decenni seguenti altri gruppi sorsero in Ticino. Altre associazioni minori meriterebbero forse di essere studiate.
Conferenze di S. Vincenzo e Dame della Carità coinvolgono però un numero assai ristretto di persone, il cui impegno personale è preponderante rispetto ai fattori organizzativi. Di tutt'altro tipo è l'azione caritativa svolta dall'Azione Cattolica, soprattutto a partire dagli anni Venti. A dire il vero anche le conferenze di S. Vincenzo erano già parte del Pius Verein e dell'UPCS, ma sembra solo formalmente. L'Azione Cattolica, così come riorganizzata a partire dagli anni Venti, non aveva l'azione caritativa tra i suoi scopi principali: il ramo femminile però (e in misura minore quello giovanile) sviluppò però anche un'attività a favore del prossimo e dei meno abbienti. A partire da quegli anni sembra esserci una tacita intesa per la quale l'autorità diocesana delega alle forze dell'azione cattolica e all'organizzazione cristiano sociale l'attività caritativa pratica. Sarà all'interno dell'Azione Cattolica che, oltre a molti interventi caritativi minori verranno organizzati anche alcuni di maggior respiro: Segretariato ticinese di beneficenza (1925), Opera pro madri bisognose (1928), Associazione di carità. Anche il Fascio della Gioventù Cattolica Ticinese risulta avere a un certo punto della sua storia una apposita sezione di beneficenza, denominata Providentia. L'attività dell'Azione cattolica entra però in un altro livello di organizzazione rispetto alle associazioni precedenti che, è bene ricordarlo, restano attive anche nei decenni seguenti. Nelle organizzazioni di Azione Cattolica, che sono organizzazioni di massa, l'inquadramento e l'assistenza o controllo da parte dell'autorità religiosa sostituiscono in parte lo slancio volontaristico dei vincenziani. Al limite dell'azione caritativa si situa l'azione sociale svolta dall'Organizzazione Cristiano Sociale, la cui attività ebbe notevole rilevanza, ma il cui esame esula dal presente articolo. Scarso rilievo sembra invece avere in Ticino la Charitas svizzera, fondata nel 1901 come commissione interna all'UPCS, per la quale almeno dal 1919 vengono organizzate collette diocesane regolari (33).
A partire dalla seconda metà del XIX secolo, e fino al XX secolo inoltrato, le congregazioni religiose, e in primo luogo quelle di recente creazione e dedite ad attività caritativa, conoscono uno sviluppo esponenziale. Esse contribuiscono oltre che a un rinnovamento della spiritualità all'espansione della attività caritativa dei cattolici e, in ultima analisi, anche ad un mutamento del concetto di carità nella chiesa. Anche in Ticino le congregazioni religiose occupano, dagli ultimi decenni dell'Ottocento, un posto determinante nello sviluppo dell'attività caritativa. È da notare che lo sviluppo della loro attività avviene con l'approvazione dell'autorità religiosa, ma non è da questa promosso, tranne in qualche caso specifico. La particolarità della Diocesi ticinese, oltre il fatto di non avere a differenza delle regioni finitime congregazioni proprie, è quella di attirare congregazioni sia dal nord che dal sud, così che il panorama diocesano risulta estremamente variato. Non sembra però che le varie realtà si siano incontrate: ogni congregazione costituiva piuttosto un mondo a sé stante, chiuso alle altre realtà analoghe. Per quanto riguarda il campo di attività, le congregazioni attive in Ticino si dedicano prevalentemente all'assistenza sanitaria, all'assistenza degli anziani e all'educazione. Non vi sono pratica mente congregazioni che assistono esclusivamente i poveri. Risulta talvolta arduo identificare le congregazioni minori che fanno sporadica apparizione in Ticino e ripercorrerne la storia. Solo una ricerca archivistica potrà permettere di tracciare un panorama completo. Talvolta è pure difficile identificare i nomi. Le congregazioni numericamente maggiori attive nell'ambito della carità (ve ne sono pure altre contemplative!) sono però solo quattro, e più precisamente le Figlie della carità di S. Vincenzo de’ Paoli, le Suore della Casa della Divina provvidenza in Como (Guanelliane), le Suore istitutrici di S. Croce di Menzingen, le Suore Teodosiane di S. Croce di Ingenbohl. Facciamo qui seguire l'elenco di tutte le congregazioni, sia maschili che femminili, che svolgono attività caritativa e identificate, avvertendo che dopo il 1935 altre ne sopraggiungono.
• Figlie della carità di S. Vincenzo de’ Paoli. Sono attive negli ospedali: civico di Lugano (1845 e 1919) e Beata Vergine di Mendrisio (1860), nel Luogo Pio Rezzonico di Lugano (1897), nel Laboratorio San Vincenzo di Lugano (1881/1889/1 899) assieme a orfanotrofio. Maghetti e Culla Arnaboldi, nel Ricovero Comunale di Lugano (1909), nell'Ospedale di Bellinzona (dal ca. 1920), nel Ricovero Torriani di Mendrisio (1921), nell'Ospedale Italiano di Viganello (dal 1931) con l'Oratorio femm. della Santa, nella Casa dei Bambini S. Marco di Bellinzona (1923/28) con succursale a Faido. • Figlie di S. Maria della Provvidenza di Como (Guanelliane). Fondate dal Beato Luigi Guanella. Il primo nucleo si formò a Pianello Lario. Divenne regolare congregazione nel 1907. Approvata definitivamente nel 1917. Bellinzona, Ricovero Paganini Rè. Chiamate da mons. Bacciarini, che era a capo della fondazione. Resteranno sino al 1964, quando verranno sostituite dalle Suore del Beato Palazzolo. Capolago, Asilo Rossi, 1902. Castel S. Pietro, Ricovero Don Guanella, 1916. Maggia, Ospedale Ricovero Don Guanella, 1916. Le suore vi dirigevano anche l'asilo S. Filomena. Pollegio, Istituto S. Maria. Riva S. Vitale, Istituto Canisio. Someo, Ricovero Comunale. Tesserete, Ospedale S. Giuseppe.o di educazione. • Suore della Carità (Divina Provvidenza) Di Baldegg. L'Istituto venne fondato nel 1830 e si stabilì nell'antico castello di Baldegg, dove presto fu aperta una scuola per l'educazione delle ragazze della regione. Le suore insegnanti dirigono inoltre molte scuole comunali e le sue infermiere lavorano negli ospedali. Dirigono anche Asili infantili, Orfanatrofi, Ricoveri per vecchi e invalidi. Faido, Ospedale ricovero distrettuale leventinese. Lugano, Protezione della giovane. • Suore infermiere dell'Addolorata di Como. Il pio Istituto delle suore dette Infermiere dell'Addolorata di Como ebbe origine nel 1850 per opera di Giovanna Franchi. Le suore oltre il fine generale della propria santificazione si propongono lo scopo speciale della cura degli infermi principalmente i più poveri, sia negli ospedali, sia nelle case private, come anche di assistere i poveri vecchi negli asili. Lugano, Clinica Moncucco. Lugano, Ricovero dei ciechi Ricordone. • Suore insegnanti della Santa Croce di Menzingen. Fondate da Padre Teodosio Florentini, che voleva preparare maestre per le scuole femminili della Svizzera. Prima professione religiosa nel 1844 ad Altdorf. In Ticino diressero molti istituti di educazione, in particolare: Istituto S. Anna, Lugano, 1881; Istituto S. Giuseppe, Biasca; Istituto S. Maria, Bellinzona, 1884; molte suore erano anche addette alle Case dei Bambini e alle scuole primarie del Cantone. Nel campo caritativo assistenziale erano invece attive nelle istituzioni seguenti: Orfanotrofio femm. Vanoni, Lugano, 1880. Orfanotrofio Von Mentlen, Bellinzona, 1911. Acquarossa, Ospedale Ricovero bleniese, 1909. Bosco V.M., "Casa estiva Pometta" per bambini gracili, 1916. Castelrotto, Ospedale Ricovero Malcantonese (fondazione Rossi), 1928. Cevio, Ospedale Ricovero S.Croce, 1916 e segg. Faido, Ospedale Ricovero S. Croce (1917). Medoscio, Sanatorio dei bambini. Piotta, Sanatorio Cantonale (subentrano nel 1926 alle Infermiere laiche di Friborgo, e vi restano sino al 1941, quando sono sostituite dalle Suore di S. Anna di Lucerna). Sonvico, Opera Charitas e Villa Riposo, 1930. Stabio, Ricovero S. Filomena, 1925. • Suore Misericordine di San Gerardo di Monza. Fondate da Mons. Dott. Luigi Talamoni di Monza. Si dedicano all'assistenza a domicilio dei poveri infermi. Prestano la loro assistenza nei comuni di Balerna, Biasca, Giubiasco, Locarno, Lugano. Sono presenti anche nel Dispensario antitubercolare e alla Croce Verde di Lugano. • Suore della Sacra Famiglia di Castelletto. Appartengono al Terz'Ordine francescano. Congregazione fondata nel 1892 da mons. G. Nascimbeni, parroco di Castelletto di Brenzone sul Garda. Loco, Ricovero S. Famiglia. Morcote, Ricovero Caccia Rusca. • Suore di San Giuseppe Benedetto Cottolengo, Torino (Vincenzine del B. Cottolengo o della Piccola Casa della Divina Provvidenza). La Piccola Casa venne fondata nel 1827 dal Cottolengo. Bellinzona, Ospedale San Giovanni, fino al 1920. Nel 1920 l'Amministrazione dell'Ospedale per ragioni di opportunità decise di rimandarle. Vennero sostituite con le Figlie della Carità. Locarno, Ospedale della Carità, dal 1871. Prima fondazione delle Suore in Ticino e fuori dall'Italia. Lugano, Opera Maghetti, dal 29 settembre 1903. Lugano, Penitenziario cantonale. Viganello, Ospedale Italiano. Dalla fondazione (1902) fu affidato per qualche tempo alle Suore del Cottolengo. Vi rimasero solo tre anni. • Suore di S. Croce in Cham. Opera della protezione della giovane a Locarno. Clinica privata Dr. De Maria di Lugano. • Suore di Sant'Anna di Lucerna. A Bellinzona dal 1930 espletano un servizio, forse di cura a domicilio (o forse di assistenza secondo i loro statuti). Per questo servizio sembra si appoggino alla Conferenza di S. Vincenzo di Bellinzona, che ha provveduto all'acquisto della loro casa. Clinica privata di S. Rocco di Lugano. Sanatorio dei bambini, Medoscio. Sanatorio Cantonale, Piotta: subentrano nel 1942 alle Suore di Sta. Croce di Menzingen. • Suore Teodosiane (Infermiere) di S. Croce di Ingenbohl. Le suore infermiere di Sta. Croce furono fondate da p. Teodosio Florentini. Furono introdotte in Ticino da Mons. Lachat, che affidò loro l'asilo da lui fondato sotto il titolo di S. Eugenio. Bellinzona, servizio infermiere a domicilio. Per questo servizio, che dovrebbe funzionare dal 1902, sembra si appoggino alla Conferenza di S.Vincenzo di Bellinzona. Gerra Gambarogno, Ricovero. Gordola, Ricovero di vecchi. Prestano la loro opera dal 1925, nel primo ricovero provvisorio, Al 1959, quando sono sostituite da un altro ordine. Locarno, Collegio S. Eugenio e istituto sordomuti, 1885 e 1890. Locarno, ricovero. Mendrisio, Manicomio cantonale, servizio di cucina. Molte suore teodosiane sono inoltre addette alle case dei bambini e alle scuole primarie.
• Fratelli francescani terziari del Borghetto in Lugano. Citati da Codaghengo, il quale specifica "che prestano pure le loro cure a domicilio come infermieri". • Frati francescani della pensione S. Raffaele Edelweiss. Vennero in Ticino dalla Germania nel 1902 per intraprendere la cura degli ammalati a domicilio. Mancando il permesso dell'autorità civile, aprirono una pensione per ecclesiastici della loro nazione. Prestano anche servizio nel Seminario Diocesano. • Padri Cappuccini di Lugano, Locarno, Bigorio, Faido. Dediti ad attività caritative nello spirito dell'Ordine. • Servi della Carità (opera Don Guanella) Aprono e dirigono l'Istituto S. Pietro Canisio di Riva S. Vitale per "discoli". Sono pure presenti nell'Istituto S. Maria di Pollegio. 3. Alcuni ambiti di intervento 3.1. Attività caritativa durante la prima guerra mondiale Per la Chiesa, la prima guerra mondiale fu un occasione per rilanciare l'attività assistenziale. L'impulso venne direttamente dalla S. Sede, che impostò i suoi interventi in modo da riaffermare il carattere universale della propria missione, che non conosceva barriere di nazionalità o d identità religiosa (34). Accanto ad un sostegno per quanto possibile diretto alle popolazioni, la Santa Sede di occupò in special modo dell'assistenza ai prigionieri di guerra e della ricerca dei dispersi. In questa azione anche la Svizzera ebbe un ruolo (35). Anche in Ticino la prima guerra mondiale fu un'occasione per affermare da parte della chiesa un proprio ruolo attivo nel campo assistenziale e ciò in un modo assai particolare. Infatti per la prima volta l'autorità vescovile entrò in campo direttamente per promuovere iniziative di una certa portata. In ciò è da vedere non solo l'impegno personale del vescovo di allora mons. Aurelio Bacciarini, ma anche la volontà di riaffermare il primato morale e spirituale dell'autorità religiosa dopo che una lunga crisi diocesana, che aveva contrapposto ambienti politici e religiosi cantonale al vescovo Alfredo Peri Morosini, e che aveva gravemente compromessa l'immagine dell'autorità vescovile e dei cattolici tutti (36). L'iniziativa più originale venne presa da mons. Bacciarini che, ricordiamo, era stato superiore della congregazione dei Servi della Carità, nell'aprile 1917, poco dopo la sua entrata in diocesi. Con lettera del 17 aprile inviata al Clero (37), il vescovo propose per venire incontro alle difficoltà materiali delle classi sociali più povere la messa in atto di una sorta di "Piano Wahlen" ante litteram. I parroci, di concerto con le autorità, avrebbero dovuto creare nelle singole parrocchie dei comitati allo scopo di organizzare la coltivazione di terreni non sfruttati, così da ricavare un raccolto da destinare alla popolazione meno favorita. A questo progetto, in cui forse si possono identificare reminiscenze di precedenti esperienze guanelliane, Bacciarini offrì il conforto di un appoggio diretto. Non sappiamo quale seguito pratico ebbe l'azione del vescovo. Sappiamo d'altra parte che nel periodo della prima guerra mondiale in molte parrocchie il clero prestò la propria opera a sostegno dell'economia di guerra, con esiti invero non sempre felici dato il delicato ruolo che il parroco veniva ad assumere nella gestione e distribuzione dei beni razionati. Nell'anno successivo il Ticino fu colpito, come il resto dell'Europa, dalla micidiale epidemia di grippe. Fu l'occasione per Bacciarini per varare un'altra iniziativa, in grande stile, destinata a soccorrere le persone colpite dalla malattia. Dopo essersi già chinato su questo drammatico problema in una serie di lettere inviate al clero, con lettera pastorale datata 29 ottobre 1918 il vescovo annunciava di aver costituito in diocesi una "Associazione di carità" con lo scopo di dare un'organizzazione ordinata ed un indirizzo al volontariato cattolico che si dedicava ad assistere i malati (38). L'associazione era stata posta sotto la presidenza del vescovo stesso. Era organizzata in gruppi parrocchiali composti, secondo le intenzioni, soprattutto da membri delle associazioni cattoliche e posti alle dirette dipendenze dei parroci locali. I volontari prestavano gratuitamente la loro opera di assistenza a beneficio soprattutto delle autorità politiche e sanitarie locali. Potevano però essere chiamati direttamente dal vescovo per essere impiegati in progetti o azioni di più ampia portata. Contemporaneamente il vescovo mise a disposizione delle autorità civili alcune strutture di sua proprietà, come risulta dalla seguente lettera che scrisse al governo cantonale (39): (...) ho coadiuvate le Autorità sanitarie nel miglior modo; ho concesso il seminario come infermeria militare; ho mandato personale di assistenza nei lazzaretti e nei comuni, anche con mio grave dispendio; ho concesso, con sacrificio rilevante, l'Istituto Riziero Rezzonico al Municipio di Lugano per il Lazzaretto cittadino fornendo al medesimo i letti del seminario; ho offerto al Municipio di Balerna la Villa vescovile come lazzaretto con personale di assistenza; ho sollecitato i parroci perché nulla tralasciassero per l'assistenza degli infermi per la igiene di tutti e attualmente sto organizzando una Associazione diocesana per la assistenza agli infermi, che è il più arduo problema. Secondo le affermazioni di don Cattori, l'iniziativa dell'Associazione di carità ebbe un buon successo.
Il campo dell'assistenza sanitaria e dell'assistenza in favore degli anziani è quello dove in Ticino la carità cattolica, a partire dal nostro secolo si è espressa con i risultati più evidenti. Al termine del XIX secolo in Ticino esistevano cinque case di cura, e inoltre un manicomio sorto proprio negli ultimi anni del secolo. Gli annosi dibatti svoltisi nel cantone attorno alla la creazione di altri istituti specializzati non avevano sortito alcun effetto. Per quanto riguarda le case di cura, tranne l'ospedale di Mendrisio che era sorto ex novo nel 1860, si trattava di strutture che affondavano le loro radici nei secoli passati, e più che case della salute erano ricoveri di mendicità che in qualche misura fornivano prestazioni sanitarie (40). Per queste ragioni ma anche per una tradizione inveterata farsi curare in un ospedale era considerato sconveniente, ed al ricovero generalmente facevano capo unicamente persone sprovviste di mezzi finanziari. La situazione mutò poco dopo il volgere del secolo. I progressi della medicina accelerarono, e giunsero in Ticino grazie a nuove generazioni di medici, come i fratelli Vittorino e Alfredo Vella, che per applicare le nuove tecniche mediche e chirurgiche appena apprese richiesero attrezzature e ambienti adatti. Le nuove realizzazioni, come l'Ospedale civico di Lugano, inaugurato nel 1909, seguirono ormai criteri modernissimi per l'epoca, e i progressi compiuti portarono in pochi anni a rivalutare l'immagine delle cure ospedaliere ed ad abbandonare quelle domiciliari, anche perché le nuove tecniche chirurgiche e la generalizzazione dell'asepsi non ammettevano più interventi a domicilio. In pochi anni una nuova coscienza medica si fece strada in tutto il territorio (41) costringendo anche gli istituti più restii generalmente per ragioni finanziare ad un adeguamento delle prestazioni mediche fornite (42). In questo panorama, non particolarmente avanzato ma in piena evoluzione, le iniziative caritative cattoliche, soprattutto quelle promosse da congregazioni religiose, trovano molti spazi d'azione e vi si inseriscono prepotentemente e in maniera quasi esplosiva. I principali campi che la carità cattolica trovò liberi, oltre a quello degli istituti specializzati che esamineremo in un capitolo successivo, furono quelli dell'assistenza sanitaria nelle regioni periferiche e dell'assistenza alle persone anziane, due esigenze che vennero quasi sempre risolte con la creazione di strutture uniche (43). La mancanza fino allora di queste strutture, soprattutto quelle per anziani, oltre che all'arretratezza dell'impianto assistenziale nel cantone si ricollega forse ad un ritardo dovuto al concetto di una certa beneficenza laica tenacemente contraria alla costruzioni di istituti di ricovero, per privilegiare ma purtroppo solo sul piano teorico l'assistenza presso famiglie private. Le iniziative assistenziali cattoliche, iniziative di cui forniremo l'elenco più sotto (44), ebbero sostanzialmente uno sviluppo simile tra di loro: nacquero in genere modestamente per la tenace iniziativa di qualche sacerdote o la volontà testamentaria di qualche fedele, iniziarono la loro attività spesso in condizioni di spazi e di mobilio precarie ma quasi subito il loro successo le costrinse ad ampliare ripetutamente le loro sedi, e a modernizzare le loro attrezzature. Se il successo degli istituti ospedalieri locali, nel momento in cui aumentava la richiesta di assistenza medica anche nelle regioni più discoste, è facilmente intuibile e quindi non richiede che ci si dilunghi ulteriormente, occorre forse spendere due parole sul problema dell'assistenza agli anziani (45). A partire dall'inizio del XX e almeno sino alla seconda guerra mondiale il problema degli anziani in Ticino appare, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, la maggiore sfida posta all'assistenza pubblica. Le cause dell'emergenza di questo fenomeno sono molteplici. Ad esso contribuì in primo luogo l'abbandono delle regioni periferiche da parte delle generazioni più giovani partite verso i paesi di emigrazione o verso le regioni urbane. Inoltre il carattere dell'economia agricola locale nella maggior parte dei casi non permetteva di accantonare risparmi per la vecchiaia. A ciò va aggiunto il fatto che l'arretratezza dell'agricoltura rendeva molto gravoso all'anziano di sopravvivere ancora con il proprio lavoro. Cadute le vecchie solidarietà, esse non vennero del resto sostituite da una legislazione sociale che restava carente. Anzi, essa in un certo senso peggiorò perché proprio le condizioni finanziarie dei comuni periferici, a causa della diminuzione della popolazione attiva, degradarono ulteriormente (46). Da qui la nascita di un'infinità di casi sociali colpiti da problemi di alimentazione, di combustibile, di igiene che all'epoca impressionarono particolarmente tutte le persone sensibili alle necessità dell'assistenza pubblica. L'istituzione di ricoveri promossi da privati venne quindi considerata una soluzione adeguata, almeno per risolvere i casi più gravi. Occorre d'altra parte aggiungere che l'estensione dell'istituto del ricovero non fu accettata da tutti, e in primo luogo dai ricoverati stessi. L'allontanamento dall'ambiente familiare e la costrizione di vivere in ambienti promiscui, sottoposti a una vita regolamentata, suscitarono molte resistenze. In questo senso la moltiplicazioni dei ricoveri nelle zone periferiche, vicino agli ambienti di provenienza degli anziani, fu all'epoca considerata preferibile rispetto a progetti più centralizzati. Ma anche sul piano teorico accanto ai sostenitori dell'assistenza a domicilio vi fu chi vedeva nel ricovero una minaccia al senso di famiglia e all'aiuto reciproco. Resta il fatto che in mancanza di altre forme di assistenza, mancanza dovuta anche alle difficoltà oggettive che all'epoca si presentavano per un intervento sul territorio, di fronte ad una vita di stenti il ricovero permetteva almeno agli anziani di godere di una vita ed una alimentazione regolare, nonché di una certa assistenza medica (47). • Acquarossa (Corzoneso), Ospedale Ricovero Bleniese di S. Maria Ausiliatrice. È il primo ricovero ospedale aperto in Ticino, secondo una formula che sarà adottata in altre regioni del cantone. È anche la prima istituzione ospedaliera aperta fuori dalle zone urbane. È quindi in qualche sorta un precursore di due tendenze che si affermeranno nettamente negli anni successivi. La storia della sua fondazione, assai complessa, è anche paradigmatica delle vie poco lineari che portarono alla creazione di numerosi istituti cattolici in Ticino, e per questo ci soffermeremo su di esso con qualche dettaglio (48). L'ospedale ricovero ebbe origine da due iniziative assai diverse. La prima riguarda gli edifici che accolsero l'ospedale. Don Antonio Del Siro, deciso dopo 35 anni di ministero a ritirarsi a vita privata, nel 1881 anche a seguito di un voto iniziò la costruzione a Corzoneso di un oratorio con annesso una piccolo eremo, dove si ritirò. Successivamente nell'eremo si ritirò un altro sacerdote, don Baldassare Toschini. Accanto a queste costruzioni, il vicario foraneo di Blenio don G. Battista Martinoli aveva fatto costruire un secondo edificio destinato nelle sue intenzioni come luogo dove passare la propria quiescenza. Venuto però a mancare, il fabbricato era stato ceduto all'Unione Apostolica del Clero Bleniese. La seconda iniziativa riguarda la vera e propria fondazione dell'ospedale. Nel 1907, durante la riunione annuale del consiglio direttivo della sezione bleniese della Società di Pio IX, il parroco di Corzoneso don Emilio Bontadina, attento ai problemi posti dall'assistenza propose la creazione di un istituto ospedaliero in Val di Blenio. Malgrado la proposta fosse accolta, difficoltà pratiche ne impedirono la realizzazione immediata. Don Bontadina si rivolse allora a don Luigi Guanella proponendogli di installare un ospizio ricovero negli stabili che erano già serviti da eremo a Corzoneso. Don Guanella acconsentì, ma ulteriori difficoltà lo costrinsero a rinunciare al progetto. Nel 1908 don Bontadina approfittò della presenza in villeggiatura a Corzoneso delle Suore della congregazione di Menzingen dell'Istituto S. Maria di Bellinzona per sottoporre loro il progetto già proposto a don Guanella. Le suore si dichiararono disposte ad assumere l'impegno. Ottenuto il consenso da parte della Madre Generale, il 19 dicembre 1909 l'istituto poté finalmente essere inaugurato. Contava 16 letti (49), aveva indirizzo cattolico dichiarato ma era aperto a tutti senza distinzione, e aveva una gestione autonoma, staccata dall'Unione Apostolica del Clero. Era destinato a svolgere le funzioni di ospedale e di ricovero sia per laici che per sacerdoti soprattutto provenienti dai ceti poveri. La struttura assistenziale, assai semplice, quasi primitiva, ebbe un immediato riscontro. Nel 1910 si estese in un edificio attiguo, ma le domande di ricovero eccedevano ancora il numero di posti disponibili. Nel 1913 quindi, malgrado in notevole impegno finanziario, si procedette ad un ampliamento e i posti letto vennero portati a 35, numero ritenuto assai rilevante. Dopo due anni essi si rivelano però ancora insufficienti, e si dovette occupare in modo precario un altro edificio attiguo e nei casi d'urgenza si dovettero pure utilizzare i letti destinati alle suore. Nel 1921 il ricovero ospedale contava 15 infermi e 27 ricoverati. Negli anni 1922 23, e poi ancora nel 1925 si procedette ad ulteriori ampliamenti. Nel 1931 vi sono impiegate 8 suore. Constatata ancora l'insufficienza di posti disponibili, negli anni 1934 36 si procedette alla costruzione di una nuova ala aumentata a sua volta nel 1942 di un ulteriore piano destinato al nuovo reparto maternità. Per quanto riguarda l'assistenza sanitaria, nei primi anni l'ospedale offriva un servizio di poco superiore a quello di un medico condotto. Grazie agli ampliamenti del 1922 che l'istituto assunse anche un indirizzo medico ospedaliero più pronunciato, che si affermò definitivamente con le ristrutturazioni degli anni 1934 36. • Bellinzona, Pio ricovero per gli inabili al lavoro Fondazione Paganini Rè. Il ricovero Paganini Rè di Bellinzona venne creato per volontà di Flora Rè, vedova del Colonnello Severino Paganini (50). Seguendo anche la volontà del suo defunto marito, con testamento del 31 dicembre 1918 essa destinò tutti gli stabili di sua proprietà e la maggior parte del suo patrimonio a beneficio di una fondazione avente lo scopo di creare un istituto a favore delle persone anziane inabili al lavoro e necessitanti di assistenza, purché domiciliate a Bellinzona da almeno cinque anni. Per volontà della testatrice la fondazione doveva essere posta sotto il controllo dell'Amministrazione Apostolica Ticinese, e la direzione affidata ad un ordine di suore. Flora Paganini Rè morì il 28 aprile 1919. L'Ordinario diocesano procedette subito all'esecuzione delle disposizioni testamentarie nominando una Commissione di amministrazione della Fondazione che gettò le basi per la creazione del ricovero. Poiché lo stabile lasciato a tale scopo dalla fondatrice non si prestava allo scopo, la Commissione acquistò l'antico convento di Santa Maria, già appartenuto ai Padri Minori Osservanti ma che allora si trovava in mani private ristrutturandolo grazie anche al contributo della carità privata. Alla direzione del ricovero vennero chiamate le Figlie di Santa Maria della Provvidenza, che presero possesso dell'edificio nell'aprile del 1921. Il ricovero entrò in funzione nel corso dell'estate successiva. Venne diviso in due sezioni separate, maschile e femminile. Nel 1931 vi erano addette 5 suore e dava ospitalità ad una sessantina di ricoverati, numero inferiore alle effettive richieste di accoglienza. Le suore guanelliane rimasero al ricovero Paganini Rè sino al 1964, quando partirono e furono sostituite dalle Suore Poverelle del Sacerdote Palazzolo di Bergamo. • Bombinasco, Praeventorium. Il Praeventorium di Bombinasco (frazione di Curio), tipica istituzione anche nel nome del periodo tra le due guerre mondiali, non era una istituzione diocesana, ma era una filiale dell'Opera serafica di Soletta. Aperto nel 1930 accoglieva bambini gracili di Soletta, Argovia e Berna. L'assistenza era fornita dalle Serve della Carità (51). • Capolago, Asilo Luigi Rossi. Il ricovero di Capolago ebbe origine da una donazione effettuata dal Franceschina Maderni vedova Rossi, madre del Consiglie re di Stato Luigi Rossi che, come noto cade vittima della Rivoluzione del 1890. Franceschina Maderni infatti aveva lasciato una sua proprietà situata a Capolago a don Luigi Guanella il quale vi aprì un ricovero per donne anziane con annesso un giardino d'infanzia (52). L'assistenza fu assunta dalle Figlie di Santa Maria della Provvidenza. • Castelrotto, Ospedale Ricovero Malcantonese. Sorse a seguito di un lascito testamentario di Giuseppe Rossi di Castelrotto, morto il 16 gennaio 1927 (53). Egli destinò parte dei suoi beni alla creazione di una fondazione avente lo scopo di creare un ospedale destinato agli ammalati dei circoli di Sessa, Magliasina e Breno., fondazione posta sotto il controllo del vescovo di Lugano. L'istituto entrò in funzione nel novembre 1928, accogliendo in un unico edificio sia ammalati che anziani ricoverati. In un secondo tempo in un edificio apposito venne creato un ricovero, basato su un'altra fondazione. Per volontà del testatore la direzione e l'assistenza vennero affidate alle Suore Insegnati di Santa Croce di Menzingen. Nel 1931 risultavano presenti 6 suore, che successiva mente aumentarono di numero. • Castel S. Pietro, Ricovero Don Guanella. Il ricovero femminile di Castel S. Pietro venne aperto nel 1915 (54) dalle Figlie di S. Maria della Provvidenza di Como. Esso successivamente accolse anche un salone destinato ad Esercizi Spirituali e a riunioni dell'Azione cattolica. Nel 1931 nel ricovero erano impiegate 4 suore. • Claro, Casa dell'Associazione femminile di assistenza popolare. Secondo un accenno fatto da Mons. Cattori (55), la Casa delle Orsoline al secolo di Claro, aperta nel 1913, funzionò anche come ricovero per anziani. • Faido, Ospedale Ricovero S. Croce. L'ospedale ricovero venne fondato nel 1917 per iniziativa del clero leventinese. Fu la prima iniziativa benefica appoggiata dal vescovo Bacciarini. La gestione venne affidata alle Suore Insegnati di Santa. Croce di Menzingen. Nel 1931 contava 8 suore. L'iniziativa dell'ospedale S. Croce fin dalla fondazione entrò in concorrenza con un'iniziativa analoga che era stata promossa da enti locali leventinesi. Malgrado tentativi di concilia zione tra le parti per giungere alla costituzione di un istituto unico, tentativi in cui partecipò anche la Curia vescovile in qualità di mediatrice, una composizione non fu possibile e quindi a Faido sorsero due istituti analoghi uno accanto all'altro (56). Fu uno dei pochi casi per l'epoca di un netto conflitto tra un'iniziativa cattolica ed una laica (57). • Gerra Gambarogno, Ricovero Cinque Fonti. Il ricovero sorse nel 1933 per iniziativa di don Marcellino Sciaroni. Era assistito dalle Suore infermiere di Santa Croce di Ingenbohl. • Gordola, Ricovero Solarium della Valle Verzasca.
Il ricovero di Gordola è una di quelle notevoli realizzazioni dovute
alla volontà ed alla tenacia di un sacerdote (58). Promotore dell'iniziativa
fu il parroco di Gordola don Giovanni Guggia (59) che aveva tratto il primo
stimolo dalle esperienze vissute in parrocchia durante la grippe del 1918. Qualche
anno dopo, attorno al 1925, impressionato dalle precarie condizioni in cui continuava
a trovarsi la vecchiaia della regione, don Guggia prese l'iniziativa di realizzare
un ricovero che permettesse di assistere i vecchi più sfavoriti. Appellandosi
alla carità privata don Guggia poté aprire in una casa privata
un piccolo ricovero provvisorio che venne affidato alle Suore di Santa Croce
di Ingenbohl. Contemporaneamente si dette da fare per la costruzione di un vero
ricovero. In meno di due anni, grazie anche all'apporto finanziario dell'emigrazione
verzaschese, il ricovero venne costruito. L'inaugurazione avvenne il 17 ottobre
1926. Per volontà del fondatore, pur avendo una connotazione religiosa
e assistenza ecclesiastica, il ricovero fu aperto a tutti. Nel 1931 esso ospitava
34 anziani, e quattro suore vi prestavano servizio. Le crescenti richieste di
ricovero portarono negli anni 1934 1936 alla costruzione di una nuova ala con
la struttura a "Solarium". Parallelamente la casa allargò la
propria offerta di ricovero ed assistenza medica anche a persone di ogni età.
Le suore di Ingenbohl, che dal ricovero provvisorio erano passate al nuovo istituto,
prestarono assistenza fino al 1959, quando furono sostituite dalle Piccole Figlie
dei SS. Cuori di Parma. • Locarno, Clinica di S. Chiara. Le Suore di S. Chiara aprirono la clinica omonima a Locarno durante l'episcopato di Mons. Bacciarini (61). • Loco, Ricovero Sacra Famiglia. Il ricovero di Loco venne fondato nel 1929 su iniziativa di don Cesare Nottaris. L'assistenza venne affidata alle Suore della S. Famiglia di Castelletto. Nel 1931 contava 3 suore e 9 posti occupati. • Lugano, Clinica luganese di Moncucco. La Clinica di Moncucco venne aperta nel 1900 dalle Suore Infermiere dell'Addolorata di Como. Le notizie sulla sua fondazione sono in parte contraddittorie. Secondo una fonte (62), nel 1899 una delegazione di signore e signori di Lugano si recò a trattare con la Superiora delle suore dell'Addolorata, poiché si desiderava aprire in città una clinica per malati benestanti: "Sentitissimo era il bisogno d'una Casa per malati benestanti, che malvolentieri si recavano all'ospedale, e per vecchie Signore desiderose di passare in serenità gli ultimi anni della loro vita; come pure di Suore infermiere disposte a prestare la loro opera a domicilio" (63). Secondo mons. Giuseppe Antognini invece (64) l'iniziativa fu promossa nei primi mesi del 1900 dal vescovo Vincenzo Molo, il quale "avendo constatato il bisogno di avere in Lugano una casa ospitaliera privata, diretta da religiose, le quali si prestassero anche per l'assistenza degli infermi a domicilio, specie se poveri, e non potendo, per mancanza di personale, combinare la cosa con alcune Congregazioni svizzere" si rivolse alle suore di Como. Esaurite le pratiche preliminari, il vescovo incaricò una delegazione di laici di trattare diretta mente con le suore (65). Quale sede della clinica Mons. Molo aveva prescelto una proprietà privata situata sulla collina di Moncucco, acquistata a prezzo vantaggioso. Dopo trattative non facili, le suore acconsentirono ad aprire la clinica, e il 25 giugno 1900 3 suore entrarono nell'edificio riadattato ed ampliato. Originariamente istituzione assai modesta, già nel 1901 si procedette ad ampliamenti, inaugurati l'anno successivo. Difficoltà di ordine giuridico minacciarono in seguito l'esistenza della clinica. Nel 1906 infatti un decreto della confederazione, basato sul divieto di stabilimento in Svizzera di nuove congregazione a norma della legge del 1872, intimò alle suore di abbandonare la Svizzera entro un mese. L'ostacolo fu risolto trasferendo la proprietà della clinica dalle suore ad una Società anonima creata appositamente con il nome Clinica Luganese S.A, formata in gran parte da signori luganesi. Artefice dell'operazione fu Mons. Giuseppe Antognini. Successivamente la clinica, in cui operavano i migliori chirurghi del Ticino quali i fratelli Vella, incontrò uno sviluppo notevole. Negli anni 1920 21 si procedette a nuovi ampliamenti. Nel 1922 contava 22 suore. Nel 1925 la clinica, dal primo nucleo di 10 letti, era ormai passata a 60 camere con 70 letti. Nel 1928 si aggiunse una nuova ala, e un ulteriore prolungamento nel 1942 per avere nuove sale operatorie. • Lugano, Luogo Pio Riziero Rezzonico. Il ricovero Riziero Rezzonico è considerato il primo ricovero del Canton Ticino esclusivamente riservato agli anziani (66). Fu dovuto alla volontà di Giovanni Riziero Rezzonico, cittadino luganese, il quale con testamento del 7 febbraio 1887 lasciò parte della sua sostanza affinché venisse creato a Lugano un ospizio per vecchi poveri sul modello del Pio Istituto Trivulzio di Milano (67). Per volontà del testatore nel Consiglio di amministrazione doveva essere accolto o l'Arciprete di Lugano, o il Vicario apostolico del Ticino. Il legatario, avv. Massimiliano Magatti, con proprio testamento trasferì successivamente i propri diritti al vescovo Mons. Molo, il quale il 27 novembre 1897 diede compimento all'opera con la costituzione del Consiglio di amministrazione. Nel frattempo, per opera del Magatti, era stato compiuto l'edificio del ricovero, che poté essere aperto nel 1897 (68). Poiché il Magatti conosceva la congregazione delle Figlie della Carità, fu ad esse che venne affidata l'assistenza dell'istituto. Nel 1920 fu aperto in una stanza del ricovero un piccolo Asilo custodia, e annesso a lui, un piccolo Oratorio domenicale. Nel 1931 contava 3 suore e 18 posti occupati. • Maggia, Ricovero Ospedale. Nel 1915 don Luigi Guanella accettava in via di principio l'offerta fatta dal Comune e dalla Parrocchia di Maggia di rilevare ed utilizzare l'antico Beneficio Martinelli (1695) per aprire in paese un ricovero (69). Fu l'ultima opera posta in atto da don Guanella, che morì poco dopo. La conclusione delle pratiche e la creazione dell'opera vennero condotte dal suo successore alla guida della congregazione dei Servi della Carità, don Aurelio Bacciarini, il futuro vescovo di Lugano. Il legato venne ufficialmente accettato il 1 dicembre 1915 e già pochi mesi dopo, il 7 maggio 1916, il ricovero venne aperto nella sede provvisoria nella casa del legato Martinelli. Contemporaneamente si iniziò la costruzione di un nuovo grande ospizio, che venne inaugurato il 5 maggio 1920. Nel 1940 gli venne riconosciuta dall'autorità cantonale la qualifica di ospedale. L'assistenza era stata assunta dalle suore Figlie di Santa Maria della Provvidenza, che diressero anche l'asilo S. Filomena. Nel 1931 erano presenti 10 suore. • Morbio Inferiore, Ricovero S. Rocco. Il ricovero ebbe la sua origine nella volontà emersa nell'ambito parrocchiale di insediare in una casa disabitata del paese, già appartenuta all'ing. Giovanni Catenazzi, un istituto di carità (70). L'impulso decisivo venne però da una suora che, proveniente dall'Umbria, era giunta a Morbio per questuare. Venuta a conoscenza della villa disabitata, pensò dapprima di insediarvi un monastero dedito alla lavorazione della lana e in seguito, caduta la primitiva idea, un ricovero femminile. La suora dovette però abbandonare l'impresa per le difficoltà poste dal proprio ordine religioso. L'idea però non venne lasciata cadere, e dopo molte trattative con diverse Congregazioni, le Suore della Sacra Famiglia di Castelletto (lago di Garda) accettarono di prende a carico il futuro ricovero destinato "a favore delle povere donne vecchie ed inferme". La fondazione relativa venne creata nel mese di ottobre 1935: si procedette immediatamente all'acquisto dell'edificio e all'apertura del ricovero senza particolari cerimonie. Nel 1936 l'edificio del ricovero venne interamente ristrutturato. Nel 1937 il ricovero, che aveva posto per 20 persone, era assistito da 4 suore. • Sonvico, Opera Charitas e Villa Riposo. L'ospedale ed il ricovero di Sonvico ebbero origine da un'iniziativa del dinamico parroco don Giovanni Rovelli il quale il 27 dicembre 1929 creò una fondazione apposita con l'approvazione dell'Ordinario diocesano (71). L'idea iniziale di don Rovelli era quella di aprire un ricovero per gli anziani e per gli invalidi della regione, ma l'opera si configurò quasi subito come ospedale ricovero. La prima pietra dell'edificio venne posta il 25 maggio 1930, e lo stesso fu inaugurato il 31 maggio 1931. La direzione venne affidata alle Suore insegnanti della Santa Croce di Menzingen, che erano già giunte a Sonvico durante i lavori di costruzione. Successivamente il carattere sanitario dell'Istituto venne ulteriormente sviluppato. Il 7 luglio 1934 gli scopi della fondazione venivano mutati, comprendendo l'esercizio di un ospedale, di un ricovero e di un preventorio per la lotta antitubercolare. L'istituto conobbe ampliamenti nel 1938 e negli anni 1946 47. Con l'ampliamento delle strutture sanitarie, l'Opera Charitas perse in parte il carattere regionale, per assumere quello di casa di cura generale grazie anche all'accordo con casse malattie d'oltralpe. Ebbe modo di accogliere "personalità illustri" principalmente nel campo ecclesiastico, soprattutto negli anni della seconda guerra mondiale. In anni più recenti accolse anche con il nome di casa Pro Infanzia un nido d'infanzia con annessa una scuola ortottica per fanciulli ed adulti, scuola successivamente trasferita a Sorengo negli stabili dell'OTAF. • Sorengo, Clinica di S. Anna. La Clinica appartiene alla Società delle Suore infermiere di Sant'Anna di Lucerna. Venne aperta nel 1933 (72) con l'incoraggia mento del vescovo Bacciarini. • Stabio, Ricovero Santa Filomena. Il Ricovero di Stabio sorse nel 1925 per iniziativa privata di Pietro Realini, Cavaliere Pontificio, interessante e discussa figura di notabile e industriale locale. Il ricovero era considerato opera cattolica. Nel 1931 era assistito da 3 suore appartenenti alla congregazione di Santa Croce di Menzingen e dava ospitalità a 18 ricoverati. • Tesserete. Ricovero Ospedale S. Giuseppe. Nel 1934 la fondazione per il ricovero distrettuale di Tesserete era fallita (73). Il prevosto di Tesserete don Modini e il canonico Quadri intervennero presso il vescovo diocesano mons. Bacciarini affinché si interessasse della cosa (74). Mons. Bacciarini pregò le Figlie di S. Maria della Provvidenza di rilevare l'istituto, e le suore accettarono. Il vescovo acquistò a loro nome lo stabile (75), e le suore lo riaprirono nello stesso anno sotto forma di ricovero ospedale impiegandovi 5 sorelle. Nell'Ospedale aprirono pure un reparto di maternità a favore specialmente delle madri povere.
Sotto il titolo un po' forzato di "Istituti assistenziali per la gioventù" abbiamo riunito alcune istituzioni, diverse da quelle di tipo sanitario assistenziale (76), che hanno in comune tra loro due aspetti: il primo è quello di essere destinate sotto forme diverse alla gioventù; il secondo è quello di sopperire nella maggior parte dei casi a carenze dell'assistenza pubblica. Istituti quali quello dei sordomuti di Locarno, o quello per "discoli" di Riva San Vitale, per non fare che due esempi, si inserivano in uno spazio che malgrado anni di dibattiti le autorità non erano state in grado di colmare.
• Bellinzona, Culla S. Marco. L'istituzione ebbe come origine l'opera intrapresa dalla Superiora dell'Ospedale S. Giovanni di Bellinzona suor Invernizzi, che fino dal 1923 aveva iniziato in forma privata un Nido d'Infanzia destinato ad accogliere i bambini nati presso l'ospedale da madri ammalate o nubili (77). Per dare una base più solida all'iniziativa la suora ottenne l'intervento a titolo caritativo dei coniugi Bonzanigo i quali dapprima sussidiarono l'iniziativa, e successivamente la dotarono nel 1928 di sede propria, sempre assistita dalle Figlie della Carità di S. Vincenzo de’ Paoli. Nel 1932 la culla si staccò giuridicamente dall'Ospedale per diventare istituto a sé stante. Contemporanea mente iniziò a ricoverare madri nubili bisognose di assistenza. Nel 1938 l'ing. Bonzanigo acquistò a Faido un albergo per servire da residenza estiva alla culla: ben presto, a causa dell'aumento del numero di fanciulli ricoverati a Bellinzona, la sede di Faido funzionò come culla aperta sull'intero arco dell'anno. • Bellinzona, Ricovero Erminio von Mentlen. La fondazione dell'orfanotrofio von Mentlen è dovuta alla volontà testamentaria di Valentina von Mentlen nata Bonzanigo (78). La testatrice, che in pochi anni era restata vedova e aveva perso tutti i figli, con atto legale del 20 agosto 1907 aveva destinato tutte le sue sostanze "alla creazione di un istituto o ricovero per l'infanzia abbandonata e ciò onde adempiere all'ultima volontà del mio carissimo figlio Erminio. Per l'infanzia abbandonata intendo i bambini poveri, orfani, od abbandonati dai loro genitori, ed anche quelli che per miseria o disgraziate condizioni dei genitori si trovassero esposti a sofferenza o pericoli". Nello stesso atto aveva stabilito che la direzione dell'orfanotrofio fosse affidata ad una congregazione religiosa, preferibilmente alle Suore della Carità. Valeria von Mentlen morì nell'agosto 1910. Il 27 agosto 1911 il Ricovero venne aperto in un edificio dei von Mentlen, in piazza Indipendenza. Contrariamente a quanto voluto dalla fondatrice la direzione non poté essere affidata alle Suore della Carità. Al loro posto operarono le Suore insegnanti di S. Croce di Menzingen. Nel 1925, poiché il numero dei fanciulli assistiti era aumentato sino a raggiungere il numero di 140, si dovette procedere alla costruzione di un nuovo edificio che trovò posto sulla collina di Ravecchia e fu inaugurato nel 1927. Nel 1934 il Ricovero ebbe una sede estiva in Leventina, a Rodi. • Lugano, Opera Maghetti. La Fondazione Maghetti di Lugano ebbe origine da due distinti lasciti testamentari, di Angiolina Pizzagalli n. Maghetti (1828) e dei suoi genitori Antonio Maria e Maddalena Maghetti (1830) (79). Come legatario i testatori costituirono il canonico Giovanni Battista Torricelli, con il solo e vago obbligo di convertire gli ingenti beni in opere pie e di beneficenza: indeterminazione che all'epoca suscitò l'indignazione di Stefano Franscini (80). Il canonico Torricelli procedette quindi alla creazione negli stabili appartenuti ai Maghetti dapprima di un collegio per l'educazione delle fanciulle, che venne affidato alle Dame del Sacro Cuore, e successivamente di un orfanotrofio (1844) destinato ai fanciulli del Comune di Lugano ed affidato ai Somaschi di San Gerolamo (81). Malgrado successivamente il legato Maghetti contribuì a diverse opere di carattere caritativo, esso venne in special modo applicato all'assistenza degli orfani, e come tale è restato impresso nella memoria collettiva. Per volontà testamentaria del Torricelli, alla sua morte subentrò come legatario con le medesime facoltà il canonico Bernardo Solari (82). A sua volta questi nominò suo successore il canonico Andrea Primavesi. Nel frattempo l'assistenza degli orfani era passata alle suore Vincenzine del Beato Cottolengo (83). Il canonico Primavesi nel 1911 modificò la struttura amministrativa dell'Opera, abbandonando la formula dell'amministratore unico e creando un consiglio di amministrazione che comprese però unicamente propri familiari. Nel 1937 infine un successore del canonico, Davide Primavesi, rinunciò ad ogni diritto in favore dell'Amministratore Apostolico del Ticino mons. Angelo Jelmini, il quale divenne presidente dell'Opera. Nel 1939 Mons. Jelmini, per dare un nuovo assetto agli stabili Maghetti di Lugano, prese la decisione di trasferire l'orfanotrofio nella villa Turconi di Loverciano (Castel S. Pietro) di proprietà della Curia vescovile (84). Alla villa venne aggiunta una colonia agricola destinata agli orfani. In tempi più recenti l'orfanotrofio di Villa Turconi venne trasformato in un Istituto di educazione speciale posto sotto la direzione delle suore di Ingenbohl. • Lugano, Orfanotrofio Vanoni. Prende il nome da Antonia Vanoni di Lugano la quale nel 1867 aveva cominciato ad ospitare nella propria abitazione di Via Nassa un piccolo orfanotrofio femminile (85). Nel 1871, poiché l'assistenza delle orfanelle richiedeva un impegno sempre maggiore, la signora Vanoni affidò il piccolo istituto alle Suore di S. Giuseppe di Saronno, che però lo abbandonarono pochi anni dopo essendo stata sciolta la loro congregazione. Nel 1880 la direzione dell'orfanotrofio, che assisteva 16 ragazze, venne assunta dalle Suore insegnanti di Santa Croce di Menzingen e l'anno successivo l'istituto si trasferì in un altro edificio nel centro di Lugano (86). Fu nel 1888 che l'orfanotrofio venne eretto in fondazione autonoma, e questa è generalmente ritenuta la data di costituzione dell'Orfanotrofio Vanoni. Per volontà della fondatrice la nomina dei membri del Consiglio di Fondazione doveva essere approvata dall'Ordinario diocesano. Nel settembre 1892 l'orfanotrofio trovò la sua definitiva sistemazione in un edificio del quartiere della Madonnetta. • Lugano, Pio Istituto Arnaboldi. La Culla Arnaboldi di Lugano venne inaugurata nel 1912 (87) come opera annessa al Laboratorio di San Vincenzo. Prese il suo nome dai fondatori, i coniugi Arnaboldi, i quali desiderarono creare un istituzione che assistesse quelle madri che, per ragioni di lavoro o sociali, non potevano prendersi cura dei propri fanciulli. La culla era assistita dalle Figlie della Carità di S. Vincenzo de’ Paoli. Dopo un inizio assai modesto, lo sviluppo della culla comportò il suo trasferimento in un edificio appositamente costruito.
• Locarno Istituto dei sordomuti. L'educazione dei sordomuti fu un campo dove fin dai primi decenni dal XIX secolo la carità cattolica ebbe modo di intervenire, mossa sia da un anelito caritativo che dalla volontà di far partecipare anche questa categoria di persone alla vita della Chiesa. In Ticino però il problema posto dall'educazione dei sordomuti venne affrontato e risolto solo molti anni dopo, con la creazione da parte delle Suore di Ingenbohl dell'Istituto di Locarno (88). Anche in questo campo l'autorità statale si era più volte chinata sul problema senza mai risolverlo (89). All'origine dell'Istituto vi fu un'altra iniziativa promossa dall'autorità diocesana. Nel 1885 infatti l'Amministratore apostolico del Ticino mons. Eugenio Lachat aveva fondato a Locarno un istituto di educazione (Istituto S. Eugenio) e lo aveva affidato alle Suore di Santa Croce di Ingenbohl (90). Fin dagli inizi, per impulso soprattutto di suor Ventura Danzi, si pensò di affiancarvi un istituto di educazione dei sordomuti. Verso il 1890 il progetto si concretizzò. Vennero iniziati i lavori per la costruzione di un edificio apposito, e contemporaneamente due suore vennero inviate presso le Suore Canossiane di Como per essere formate a questo particolare compito educativo. L'Istituto venne ufficialmente aperto nel settembre del 1890. Accolse fanciulli di entrambi i sessi, di età fino a 14 anni, che ottenevano un'istruzione elementare ed una formazione professionale. Visto il carattere unico di questa scuola, successivamente il Cantone sussidiò un certo numero di alunnati. • Lugano e Locarno, Case della Protezione della giovane. Negli anni 1901 1904 l'Opera internazionale per la protezione della giovane aveva trovato diffusione anche in Ticino. Una delle sue realizzazioni fu la creazione di due pensionati, a Lugano e Locarno, avvenuta all'epoca dell'episcopato di mons. Bacciarini (91). La casa di Lugano era assistita dalle suore della Divina Provvidenza di Baldegg, quella di Locarno dalle Suore di S. Croce di Cham (92). • Medoscio, Sanatorio dei Bambini. Il Sanatorio
dei Bambini di Medoscio, destinato alla cura della tubercolosi polmonare nell'infanzia
e nell'adolescenza, fu uno dei pochi istituti caritativi la cui creazione venne
interamente gestita dall'autorità diocesana. Si trattò anche all'epoca
di uno dei maggiori impegni finanziari sostenuti per creare un istituto di matrice
cattolica: costò infatti 744.500 franchi (93). L'idea della creazione
di un Sanatorio per bambini venne al vescovo Mons. Bacciarini durante i suoi
soggiorni per malattia a Davos, considerando il fatto che non esisteva un sanatorio
per bambini nel Ticino, e quindi essi dovevano venire ricoverati fuori dal Cantone.
Il progetto prese corpo a partire dal 1928. Il vescovo procedette con particolare
cautela nello sviluppo dell'idea, appoggiandosi a persone qualificate, allo
scopo di creare un'istituzione tecnicamente aggiornata e conscio dell'impegno
e dei rischi che ciò comportava. L' 8 maggio 1929 venne costituita un'apposita
fondazione. In quell'anno si effettuarono i lavori preliminari, mentre la costruzione
dell'edificio fu iniziata nel giugno del 1930. L'apertura dell'istituto avvenne
il 15 settembre 1932, e quasi subito esso accolse una cinquantina di bambini.
La direzione e l'assistenza vennero affidate alle Suore di S. Anna di Lucerna,
che vi occupavano dieci suore oltre al personale laico.
In Ticino, a differenza della vicina Italia, l'istituzione dei laboratori professionali cattolici, pensati come mezzo di promozione economica e morale della popolazione più diseredata, non ebbe un grande sviluppo. Molti segnali indicano però che se le realizzazioni furono poche, molto più numerosi furono i progetti che tra il XIX e il XX secolo vennero promossi, soprattutto da parroci, e poi abbandonati a seguito di difficoltà pratiche. Lo stesso vescovo mons. Bacciarini, quando era ancora parroco ad Arzo, era giunto vicino alla realizzazione di un laboratorio parrocchiale con l'appoggio di don Guanella (96). Una certa attenzione vene pure dedicata dagli ambienti cattolici alla formazione professionale dei giovani. Nella metà dell'Ottocento il canonico Giovan Battista Torricelli aveva istituito a Lugano delle scuole laboratori professionali dove venivano istruiti anche gli orfani dell'Orfanotrofio Maghetti (97). Alcuni decenni dopo Mons. Molo progettò di creare accanto alla Pia Opera Maghetti una vera e propria scuola di arti e mestieri, ma il progetto dovette essere abbandonato. Il seguito il ruolo formativo in campo professionale fu, per quanto riguarda gli ambiti cattolici, prerogativa degli istituti assistenziali per la gioventù, come l'Istituto per i sordomuti di Locarno o l'Istituto Canisio di Riva S. Vitale, nei quali era prevista una sezione di formazione professionale (98). Tornando ai laboratori professionali, si è trovata notizia di tre realizzazioni. • Curio, Opera S. Giuseppe e maglieria. Quest'opera cattolica venne fondata da don Giuseppe Ferregutti. La sua realizzazione comportò una spesa di 70.000 fr. (99). • Lamone Fabbrica Orler. La fabbrica elettromeccanica Fratelli Orler fu ideata da don Giovanni Sarinelli, è l'ideatore stesso a ricordarcelo (100), per dare lavoro in paese alla gioventù soprattutto femminile. Vi si fabbricavano "lavori in ferro battuto [per chiese], indoratura, argentatura, nichelatura, ramatura di qualunque oggetto sacro e profano, termofori ferri da stiro ecc.". • Lugano, Laboratorio della Misericordia. Il laboratorio della Misericordia venne creato attorno al 1888 grazie a un lascito di Suor Luigia Trezzini, con lo scopo di impiegare in lavori di ricamo e cucito giovani ragazze senza mezzi (101). Nato come opera annessa all'Orfanotrofio Maghetti, esso seguì un suo destino indipendente sotto la protezione delle Dame della Carità di Lugano che favorirono particolarmente questa istituzione professionale. accanto al laboratorio sorse nel 1889 l'Opera della Misericordia, destinata inizialmente a distribuire minestre calde alle giovani che vi erano impiegate. Successiva mente l'Opera fornì pasti anche alla popolazione più povera di Lugano, giungendo in periodo di guerra a distribuire oltre 500 porzioni giornaliere di minestra.
Nel periodo preso in esame, una caratteristica dell'attività assistenziale e sanitaria "laica" ticinese (ma questa caratteristica è riscontrabile in moltissimi altri casi fuori dai confini cantonali), sia essa statale che privata, è la sua dipendenza operativa dalle congregazioni religiose. Non vi è istituzione di questa natura che non si avvalga almeno in un'epoca della sua storia di personale religioso. Molte istituzioni promosse dall'autorità civile, ancora prima di essere progettate, si sinceravano della possibilità di "ottenere" personale di servizio religioso: condizione questa che risultava spesso indispensabile per la realizzazione delle varie opere. Le ragioni di questo modo di agire sono facilmente identificabili. Da una parte stava il ritardo accumulato dal sistema sanitario ed assistenziale cantonale, che rendeva difficile il reperimento di personale sufficientemente formato, soprattutto in ambito infermieristico. Alcune congregazioni religiose per contro già negli ultimi decenni dell'Ottocento avevano dedicato parte della propria missione alla formazione sanitaria: si pensi ad esempio alle numerose congregazioni di suore "infermiere". Dall'altra parte stavano ragioni di evidente convenienza. Le congregazioni religiose, anche se non sempre potevano essere impiegate gratuitamente, comportavano alla gestione finanziaria un onere assai inferiore a quello di un corrispettivo personale laico. A un costo minore faceva riscontro pure un rendimento maggiore, poiché le religiose, che in genere vivevano nelle istituzioni stesse, si sottoponevano ad orari di lavoro superiori a quelli a cui si sarebbero assoggettati impiegati civili. Senza contare che in genere la dedizione al lavoro delle suore, essendo motivata da ragioni eminentemente spirituali, era superiore a quella di uno stipendiato. Una contabilità riguardante l'impiego di personale religioso impiego che in alcuni casi sfiorava lo sfruttamento comparato a quello del personale civile risulterebbe estremamente interessane. Sull'altro versante, parimenti interessante risulterebbe analizzare l'influenza avuta dal personale religioso all'interno di istituzioni laiche, come pure verificare entro quali termini si svolgeva l'opera di apostolato spirituale condotta dalle suore. L'elenco che segue presenta le principali istituzioni a carattere sanitario od assistenziale gestite da autorità civili o da laici ma servite da congregazioni religiose. L'elenco è posto in stretto ordine alfabetico. • Bellinzona, Ospedale S. Giovanni. L'Ospedale di Bellinzona figura tra i più antichi del cantone. Già nel XIV secolo esso ospitava infermi e viandanti (102). Ufficialmente si fa però risalire la fondazione ad una donazione da parte di Girardolo del Nato avvenuta il 1 ottobre 1440. Nella prima metà del XVII sec. l'ospedale trasferì la sua sede dal Dragonato alla chiesa di S. Biagio. Nel 1858 l'ospedale divenne di pertinenza del Municipio di Bellinzona. Nel 1883 venne interamente rinnovato, e poi ancora negli anni 1901 1902 subì profondi mutamenti. Nel 1940 trovò la sua definitiva sistemazione in un nuovo edificio costruito al Morinascio sopra Ravecchia. Nel 1882 la Commissione dell'Ospedale, posta davanti ad un aumento dei ricoveri dovuto all'apertura della ferrovia del S. Gottardo, ottenne dalla Piccola casa della Divina Provvidenza di Torino di poter assumere tre suore del Cottolengo per la cura degli ammalati, che poi aumentarono fino a 19. Per "ragioni di opportunità" nel 1920 l'Amministrazione dell'ospedale rimandò le suore del Cottolengo. Su proposta del Vescovo di Lugano esse vennero sostituite dalla Figlie della carità di S. Vincenzo de’ Paoli. • Cevio, Ospedale Ricovero Valmaggese, Nel 1912 venne creata in Valle Maggia un'associazione tra i comuni della valle avente come scopo anche la creazione di un ospedale ricovero distrettuale (103). Il fallimento delle banche ticinesi e lo scoppio della guerra fecero fallire il progetto. Nel 1916 l'idea riprese in seguito ad una donazione fatta dal prof. Eligio Pometta, segretario della direzione delle FFS in Lucerna, che legava all'Associazione l'"Hôtel Bosco et de la Poste" a Bosco, completamente ammobiliato. Il dono permise ai dirigenti dell'Associazione di aprirvi nell'estate dello stesso anno una casa di cura per bambini gracili affidata alle Suore di Menzingen. Nell'autunno immediatamente seguente le suore con il permesso della propria superiora Sr. Maria Carmela Motta si trattennero a Cevio dove in una casa privata aprirono un piccolo ospedale ricovero con una dozzina di letti. L'iniziativa ebbe successo e già nel 1917 l'istituto venne trasferito in un'altra casa privata capace di accogliere fino a 40 ricoverati. Si trattava però sempre di una situazione precaria, che si decise di risolvere costruendo un edificio completamente nuovo, inaugurato nel settembre 1922 e capace inizialmente di 60 letti. Le suore di Menzingen vi prestarono servizio fino all'inizio degli anni Settanta. Nel 1931 erano presenti 12 suore. • Faido, Ospedale Distrettuale Leventinese, L'ospedale distrettuale leventinese di Faido venne aperto il 1o maggio 1923 dopo che i tentativi di realizzarlo si erano protratti per oltre 10 anni (104). Una delle difficoltà che i promotori dovettero affrontare fu quella della concorrenza causata dalla costruzione nello stesso luogo di un ospedale ricovero privato, voluto dal clero leventinese. Fu uno dei pochi casi evidenti di conflittualità tra assistenzialismo pubblico e opere cattoliche in quegli anni. Per difficoltà finanziarie il progetto dell'ospedale distrettuale venne ridimensionato rispetto a quanto prospettato, e il settore sanitario venne allestito solo negli anni successivi all'apertura. L'assistenza dell'ospedale distrettuale fu affidata alle suore della Carità di Baldegg. Nel 1931 risultavano presenti 15 suore. Le suore di Baldegg partirono poi nel 1946 lasciando il posto alle Poverelle del Sac. Palazzolo di Bergamo. • Locarno, Ospedale della Carità. Il vecchio e storico ospedale San Carlo di Locarno aveva chiuso per fallimento nel 1853 (105). Un nuovo ospedale, molto modesto, venne inaugurato il 23 gennaio 1872 grazie all'assistenza prestata da tre suore provenienti dalla Piccola casa della Divina Provvidenza di Torino: fu la prima destinazione che le suore assunsero fuori d'Italia. Nel corso degli anni l'istituto si ingrandì e assume una fisionomia più marcatamente ospedaliera. Il 3 luglio 1948 l'associazione la Carità si fuse con quella per l'ospedale distrettuale, dando vita all'Ospedale distrettuale La Carità. • Locarno, Ricovero Comunale. La Città di Locarno, che era priva di una propria casa per anziani, alla fine del 1935 prese la decisione di creare un ospizio per vecchi e invalidi, impiegando a tale scopo anche vecchie donazioni rimaste inutilizzate (106). Quale sede venne scelta la Villa Balli in Selva, i cui lavori di trasformazione iniziarono nel 1937. Per l'assistenza il Municipio impiegò le Suore di S. Croce di Ingenbohl. • Lugano. Asilo dei ciechi al Ricordone. L'Asilo del Ricordone venne creato su iniziativa della "Società ticinese per l'assistenza dei ciechi" che era stata fondata nel 1911 a Lugano (107). Fin dal 1916 la Società aveva progettato di costruire un ricovero per i ciechi ticinesi, che erano costretti a cercare ricovero in istituti fuori cantone. A tal scopo la Società aveva proceduto all'acquisto di un terreno a Viganello, ma il progetto non aveva mai trovato realizzazione pratica. Solo negli anni Trenta esso venne ripreso, per impulso anche di mons. Giuseppe Antognini, che della Società era presidente oltre che socio fondatore, e con il contributo di benefattori privati. La sede venne però spostata nella zona del Ricordone di Lugano. Il lavori di costruzione vennero effettuati negli anni 1935 1936, e l'anno successivo il ricovero venne aperto con l'assistenza delle Suore Infermiere dell'Addolorata. • Lugano, Clinica privata Dr. De Maria. Secondo il Sarinelli (108) nel 1931 la "Clinica privata Dr. De Maria" di Lugano era assistita dalle suore di S. Croce di Cham. Lugano, Clinica privata di S. Rocco. La clinica S. Rocco di Soldino, di proprietà privata, venne aperta all'esercizio nel 1935. L'assistenza fu affidata alle suore di S. Anna di Lucerna. • Lugano, Croce Verde. Il servizio della Croce Verde di Lugano venne fondato il 3 marzo 1910 (109). Negli anni 1921 1922 l'autorità diocesana concesse alla Croce Verde di impiegare per il servizio sanitario della Policlinica alcune suore Misericordine di Monza. Le Misericordine restarono in servizio fino al 1964. • Lugano, Dispensario antitubercolare. Negli anni tra le due guerre le suore Misericordine di Monza prestarono servizio anche presso il Dispensario antitubercolare di Lugano. • Lugano, Ospedale Civico. Nel 1801 l'amministrazione dell'antico ospedale di Lugano passò al Municipio (110). Alcuni decenni dopo lo stesso municipio, nel 1843, su proposta del dottor Carlo Lurati introdusse nell'ospedale le Figlie della Carità di S. Vincenzo de’ Paoli. Con l'inaugurazione del nuovo ospedale, avvenuta nel 1909, le suore vennero rimandate. A proposito di questa "laicizzazione" Codaghengo menziona un ricorso al Consiglio Federale da parte della "popolazione" di Lugano (111). In ogni caso il servizio prestato dai laici non riuscì pienamente soddisfacente. L'8 gennaio 1919 i medici del Civico Ospedale, per ovviare "ai continui cambiamenti nel personale di assistenza... e al gravissimo inconveniente che non sempre il personale assunto ha una preparazione ... conveniente, e allo scopo di ottenere quella continuità di metodi e di personale indispensabile al buon funzionamento dell'ospedale" proposero al Municipio che il servizio dell'ospedale venisse affidato "in tutto o in parte a suore infermiere di lingua italiana". Il Municipio accolse favorevolmente la proposta, e il 24 marzo dello stesso anno chiamò le suore dell'Ordine di S. Vincenzo di Torino, in numero di 12. (112) • Lugano, Penitenziario. La casa penitenziaria di Lugano venne aperta nel 1873. In epoca successiva parte dell'assistenza venne affidata alle suore del Cottolengo di Torino. Fu la loro terza fondazione in Ticino. • Lugano, Ricovero Comunale di Assistenza. Nel XIX secolo i ricoverati e gli assistiti della Città di Lugano erano sistemati in uno stanzone annesso all'Ospedale di Santa Maria. Con la costruzione del nuovo Ospedale Civico, l'intero vecchio ospedale venne destinato a ricovero (113). La sistemazione non era però felice, cosi che nel 1909 il Consiglio comunale di Lugano approvò la costruzione di un nuovo ricovero comunale. Esso venne inaugurato il 13 ottobre 1910, con l'assistenza dello stesso personale che l'Ospedale civico aveva lasciato libero in un tentativo di laicizzazione dell'assistenza, e cioè le Figlie della Carità di S. Vincenzo de’ Paoli. Era caratteristica del Ricovero Comunale di Lugano di assistere sia anziani che fanciulli abbandonati o bisognosi di soccorso. Nel 1931 il ricovero impiegava 7 suore. • Mendrisio, Manicomio Cantonale. Nel 1898 il Canton Ticino si dotò finalmente di un manicomio, dopo anni di rinvii (114). Nel manicomio vennero impiegate le suore Infermiere di Sta. Croce di Ingenbohl. Benché vi sia chi afferma che esse prestavano assistenza agli ammalati, esse si dedicavano esclusivamente al servizio di guardaroba e di cucina. Nel 1906 le suore presenti erano 5: una dispensiera, due guardarobiere, due cuciniere. • Mendrisio, Maternità cantonale. L'Istituto cantonale di Maternità venne aperto il 26 gennaio 1935. Per i servizi di guardaroba e di cucina vennero impiegate le suore di Ingenbohl. • Mendrisio, Ospedale Beata Vergine, Fondato dal Conte Alfonso Turconi nel 1803, venne effettivamente aperto nel 1860 in un edificio appositamente costruito. Per espresso desiderio del fondatore, la cura dei malati venne affidata alle Figlie della Carità di S. Vincenzo de’ Paoli, che si occuparono anche dell'Opera dei Catechismo parrocchiali e di un Oratorio per 200 bambine (115). • Mendrisio, Ricovero distrettuale per i vecchi. Il ricovero venne fondato per testamento di Giuseppe Torriani, morto nel 1918, e fu aperto il 15 marzo 1921 (116). Per desiderio del fondatore, che fu per molti anni amministratore dell'ospedale della Beata Vergine, l'assistenza venne affidata alle Figlie della Carità di S. Vincenzo de’ Paoli. Nel 1931 le suore presenti erano 3. • Morcote, Asilo di vecchiaia di fondazione Caccia Rusca. Aperto nel 1903 in seguito a lascito testamentario dell'architetto Giovanni Caccia e della moglie Franceschina Rusca (117). Secondo la volontà dei fondatori il controllo della gestione e dell'amministrazione dell'istituto fu affidato al Comune di Morcote. Per contro l'assistenza venne affidata alle Suore della Sacra Famiglia di Castelletto. Nel 1931 vi prestavano servizio 8 suore. • Piotta, Sanatorio Cantonale. Nel 1905 a Piotta una società fondata dal dottor Fiorenzo Maffi, profugo italiano, apriva a Piotta il "Sanatorio del Gottardo", concepito come istituto di lusso per degenti facoltosi (118). Varie vicissitudini, tra cui lo scoppio della prima guerra mondiale, portarono al fallimento dell'impresa. Durante la guerra funzionò come sanatorio militare. Nel 1919 venne acquistato dallo Stato per essere destinato a sanatorio cantonale. Dopo le opportune sistemazioni, aprì i battenti nel 1921. Nel 1934 si diede luogo a un primo ampliamento, e pochi anni dopo, nel 1938, vi fu il completo rinnovamento dell'istituto. Per il servizio di infermiere, negli anni 1921 1926 si provvide con le infermiere laiche di Friburgo. Nel 1926 esse furono sostituite dalle Suore della Santa Croce di Menzingen che rimasero sino al 1941, quando lasciarono il posto alle Suore di Sant'Anna di Lucerna. Occorre ricordare che il vescovo Aurelio Bacciarini sostenne in modo particolare la creazione del sanatorio cantonale, appoggiando anche la raccolta di fondi presso i fedeli (119). • Pregassona, Clinica Viarnetto. Fondata a metà degli anni Venti dai medici Giovanni Bolzani e Bruno Bariffi (120), la clinica per malattie nervose di Viarnetto ebbe secondo il Sarinelli l'assistenza delle Suore di S. Anna di Lucerna (121). • Someo, Ricovero comunale. Il piccolo Ricovero Comunale di Someo, detto anche ospedale ricovero, venne iniziato nel 1919 con l'assistenza delle suore guanelliane di Como. Venne parzialmente distrutto dall'alluvione del 1924, e quindi riedificato. Nel 1931 contava due suore e 5 posti occupati. • Tesserete, Ospedale Ricovero Capriaschese. L'Associazione pro Ospedale Ricovero capriaschese venne fondata l'8 settembre 1929: l'opera dell'Ospedale era iniziata grazie ad una cospicua donazione da parte di un abitante della regione (122). La costituzione di una Fondazione per l'Ospedale Ricovero capriaschese avvenne il 10 gennaio 1931: in essa vi figuravano essenzialmente rappresentati dei comuni e dei patriziati della Capriasca. Con l'approvazione del Vescovo diocesano l'assistenza venne affidata alle Suore della Carità di Baldegg. Ma la Fondazione in poco tempo fallì e nel 1934 fu rilevata da una congregazione religiosa che riaprì l'istituto per proprio conto (123). • Sorengo, Ospizio dell'Opera ticinese per l'assistenza alla fanciullezza. L'Ospizio, dovuto all'iniziativa dell'ing. Arnoldo Bettelini, venne aperto nel 1921 quale ricovero per fanciulli con carenze fisiche o provenienti da ambienti insani. Secondo il numero unico per il 50 della Diocesi, pubblicato nel 1935, in quell'epoca alcune suore garantivano l'assistenza all'Ospizio (124). • Viganello, Ospedale Italiano. L'Ospedale Italiano di Viganello venne promosso nel 1900 da quattro medici italiani (Bonardi, Amerio, Ceretti, Cicardi) perché servisse quale ospedale della colonia italiana (125). A tale scopo si provvide ad acquistare la Villa Blanche al Luganetto, che venne trasformata ed adattata. Per l'assistenza ai malati vennero assunte le suore del Cottolengo di Torino, che entrarono il servizio il 15 luglio 1902 (loro quarta fondazione in Ticino). L'Ospedale Italiano però divenne presto teatro di conflitti negli organi di gestione, conflitti che rispecchiavano le divisioni politiche presenti nella colonia italiana. Oltre ad ostacolare il funzionamento dell'Istituto, questi conflitti causarono il congedo delle suore che furono rinviate nel 1904 per dare all'ospedale un'impronta marcatamente laica. Nel 1931, dopo che diverse gestioni si erano succedute, vennero chiamate in servizio le Figlie della Carità di S. Vincenzo de’ Paoli. Esse a lato dell'attività nell'ospedale, organizzarono pure un oratorio femminile a La Santa di Viganello.
1. Don E. Cattori, Ricovero ed assistenza dei Vecchi nel Cantone Ticino. L'opera della Religione, in Pro Senectute, 1931 (IX), no 1, p. 23 29. 2. Don Emilio Cattori (1889 1968) dal 1917 risiedeva nella Curia ricoprendo l'incarico di cancelliere vescovile e, dal 1923, di pro vicario generale. Ebbe un ruolo preminente nell'amministrazione della Diocesi durante l'episcopato di Mons. Aurelio Bacciarini. 3. G. SARINELLI, La Diocesi di Lugano. Guida del clero, Lugano, 1931, 354 p. 4. Come riconoscono tutti coloro i quali hanno avuto modo di occuparsi in epoca recente della storia della diocesi di Lugano. Si veda ad esempio quanto afferma F. PANZERA, Gli studi sul movimento cattolico nella Svizzera italiana, nel Bollettino dell'Associazione per la storia del movimento cattolico nel Ticino, 1992 (X), p. 3 10. Il quadro storiografico complessivo presentato da Panzera suscita però più d'una perplessità. 5. Cfr. Storia della Chiesa iniziata da Augustin Fliche e Victor Martin. Vol. XXIII I cattolici nel mondo contemporaneo (1922 1958), Milano/Torino, 1991, p. 466. 6. In questo campo possono essere consultati: Della pubblica assistenza nel Cantone Ticino. Memorie pubblicate per cura della Società degli Amici dell'Educazione del Popolo e di Utilità Pubblica, Bellinzona, 1894, che contiene gli studi di B. BERTONI e di F. CHICHERIO [Pauperofilo]; A. GALLI, Notizie sul Cantone Ticino. Studio storico politico e statistico pubblicato sotto gli auspici della Società Demopedeutica, Bellinzona, 1937, 3 vol.; R. CESCHI, Ottocento ticinese, Locarno, 1986, 187 p. Lo studio descrittivo di R. TALARICO Il cantone malato. Igiene e sanità pubblica nel Ticino dell'Ottocento, Lugano 1988, si legge con interesse anche per i suoi accenni ad alcuni aspetti dell'assistenzialismo ottocentesco, malgrado una visione piuttosto deterministica dell'evoluzione socio sanitaria dell'Ottocento. Non ha per contro utilità storica il recente studio di A. DALESSI, il cui titolo di copertina Evoluzione e sviluppo dei servizi della salute nel Canton Ticino in relazione alla situazione demografica e socio economica cela una ricerca a carattere sociale e riguardante un ambito strettamente regionale. 7. Un punto di partenza per una ricerca documentaria nel campo della carità potrebbe essere l'Archivio vescovile di Lugano, e segnatamente oltre che alcuni fondi specifici, i fondi riguardanti i vescovi, le congregazioni religiose, le parrocchie. 8. In questo ambito, sempre come base di partenza, ci si potrà riferire ad alcuni fondi dell'Archivio cantonale di Bellinzona, e segnatamente la documentazione riguardante i vecchi dipartimenti cantonali di Igiene e Polizia. 9. S. BORRANI, Il Ticino Sacro. Memorie religiose della Svizzera italiana, Lugano, 1896. 10. A. CODAGHENGO, Storia religiosa del cantone Ticino, Lugano, 1941 42, 2 vol. Interessano: la parte settima, riguardante gli Istituti ecclesiastici, la parte ottava, riguardante l'attività caritativa ed assistenziale delle comunità religiose nel Ticino, e la parte nona, riguardane le organizzazioni di Azione cattolica. 11. G. SARINELLI, La Diocesi di Lugano cit. 12. 50.mo anniversario delle Convenzioni tra la S. Sede e i Governi Federale e Cantonale per la costituzione della Diocesi Ticinese, Lugano, 1935, 116 p. Si vedano in particolare i contributi di Emilio Cattori, L'Organizzazione Femminile Cattolica Diocesana, di P. Giuliano O.M.C. Ordini e Congregazioni religiose nel Ticino, di Gioachimo Masciorini Chiese, oratori ed opere cattoliche negli ultimi 50 anni, di Don Snider Istituti ed Ospizi cattolici della Diocesi. 13. In genere sono di difficile reperimento poiché gli schedari degli istituti pubblici di documentazione al riguardo si mostrano inaffidabili. Anche in questo ambito non abbiamo quindi pretese di esaustività. 14. Nelle indicazioni bibliografiche che via via forniremo ci siamo soffermati essenzialmente sulle opere a carattere storico, tralasciando di indicare i regolamenti a stampa e i conti resi annuali di singole istituzioni, materiali che restano pur sempre assai utili per ricostruire una storia di dettaglio della attività caritativa istituzionale. Di un certo interesse è anche la pubblicistica locale monografie regionali, stampa locale soprattutto per quanto riguarda la storia di singole istituzioni. 15. In Generazioni luganesi in un luogo vivente, Lugano, 1985, p. 9. 16. Così E. GATZ in Storia della chiesa diretta da Hubert Jedin, vol. X/1, p. 377. 17. In particolare secondo il catechismo romano dal quinto e dal settimo comandamento. 18. Catechismo ossia compendio della dottrina cristiana introdotto da Monsignor Vescovo Alfredo Peri Morosini nella Diocesi di Lugano. Libro secondo: catechismo maggiore, Lugano, 1906, domande 957 960. 19. Cfr. Monitore ecclesiastico, 1929 (XIII), p. 140 143. 20. Si intende qui l'istruzione di base, non quella catechistica. 21. Senza per questo negare i precedenti concetti riguardo alla carità. 22. Si vedano gli articoli di Antonio Gili e Antonio Lepori. 23. Per alcuni accenni alla situazione sanitaria, si veda più avanti nella sezione 3 di questo articolo. 24. Non dimentichiamo che nello sviluppo anche numerico di queste congregazioni giuoca un ruolo non indifferente la spiritualità individuale dell'epoca. 25. Mons. Bacciarini apparteneva infatti alla Congregazione dei Servi della Carità. Per ulteriori informazioni biografiche riguardanti la gerarchia ecclesiastica della diocesi di Lugano rimandiamo al recente volume di Helvetia Sacra, vol. I/6. 26. Eugenio LACHAT, Lettera pastorale (...) nell'occasione della Sua presa di possesso in qualità di Amministratore Apostolico del Ticino, Lugano, 1885, p. 7. – 27. Giuseppe CASTELLI, Lettera circolare sull'indulto quaresimale, Lugano, 1887, 8 p. 28. Vale la pena di citare il testo dell'articolo: "Quis emigrationem tot fidelium nostrorum, praesertim vallium, in terra songinquas non videt? Quidam egestate compulsi, pluriores vero solummodo lucri causa, terras alienas petunt, ibique perpetuo degunt.". 29. Se le fonti a stampa indubbiamente tacciono, è possibile che un esame delle fonti archivistiche porti a modificare in qualche punto questo quadro. 30. Un repertorio dei principali lasciti beneficiari a livello parrocchiale, di certo non completo ma significativo, sembrebbe possibile a partire dai materiali presenti nell'Archivio Vescovile di Lugano. 31. Sulle conferenze di S. Vincenzo in Ticino, la cui storia resta in parte sconosciuta, si vedano: Conferenza di S. Vincenzo DE’ Paoli. Resoconto Annuale della Conferenza di S. Lorenzo in Lugano 1898 Anno I, Lugano, 1899, 10 p.; Nel Primo Centenario della istituzione della Società di S. Vincenzo de’ Paoli 1833 1933, Lugano Stazione, 1933, 12 p.; Centenario Conferenze di S.Vincenzo 21 V 1933, Locarno, 1933, 40 p. 32. Sulle Dame della Carità in Ticino si veda Dame della Carità Opera della Misericordia Lugano. Sessantesimo 1890 1950. Numero unico, Lugano, 1950, 16 p.; Centenario delle Volontarie Vincenziane Lugano 1889 1989, Lugano, 1989, 59 p. 33. Monitore ecclesiastico, 1919 (III), p. 16 17: intervento vescovi svizzeri per la colletta Charitas. Intervento del vescovo in merito in Monitore ecclesiastico, 1919 (III), p. .83 84. 34. Cfr. G. ROSOLI in Storia della Chiesa iniziata da Augustin Fliche e Victor Martin, Vol. XXIII, p. 466 e 469. 35. Ne accenna brevemente F. PANZERA, Benedetto XV e la Svizzera negli anni della Grande Guerra, in Rivista storica svizzera, 1993 (XLIII), no 3, p. 321 340. Un sacerdote della diocesi di Lugano mons. Noseda, il futuro vicario generale, durante la prima guerra mondiale ebbe l'incarico di visitatore dei prigionieri di guerra nelle nazioni belligeranti. Si veda la sua nomina nella Settimana religiosa di Lugano, 1916 (VI), no 1, p. 2. 36. Abbiamo accennato a questa crisi diocesana, seppure in modo incompleto, nel nostro articolo La "crisi diocesana" (1915 1916) e Giuseppe Motta, in Bollettino 1990 dell'Associazione per la storia del movimento cattolico nel Ticino, numero speciale del Risveglio, 1990 (XCIV), n 7 8, p. 195 203. Mons. Peri Morosini alla fine del 1916 abbandonò la diocesi. All'inizio dell'anno successivo venne sostituito da mons. Aurelio Bacciarini. 37. Monitore ecclesiastico, 1917 (I), p. 27 31. 38. Cfr. Monitore ecclesiastico, 1918 (II), p. 211 217. Alla lettera fa seguito lo statuto in 12 punti dell'Associazione. 39. La lettera del 31 ottobre 1918, che fa riferimento ad alcuni contrasti sorti tra le due autorità, è citata in E. CATTORI, Il Vescovo Aurelio Bacciarini cit., p. 640. 40. Sembra nell'ultimo decennio del secolo che l'ospedale di Bellinzona fosse più aggiornato rispetto agli altri. 41. Si veda ad esempio la rigorosità del progetto proposto da G. BULLO nella sua opera Problemi Regionali e Comunali, Locarno, 1917, per l'ospedale distrettuale di Faido. 42. Curiosamente A. DALESSI, Evoluzione e sviluppo dei servizi della salute nel Canton Ticino cit., p. 107 108 ritarda di alcuni decenni questo sviluppo. 43. Fa eccezione la clinica di Moncucco, sorta alla periferia urbana nel 1900 per servire, oltre che di ricovero, da struttura medica alternativa al tanto deprecato vecchio ospedale di Lugano. 44. Nell'elenco che segue abbiamo rinunciato ad una differenziazione interna a causa della natura promiscua della maggior parte degli istituti. Le varie istituzioni sono quindi presentate in stretto ordine alfabetico secondo le località. 45. Strettamente legato al problema degli anziani vi era il problema degli invalidi: le considerazioni fatte per la prima categoria di persone valgono in larga parte anche per la seconda. 46. V. SAVI CASELLA, I vecchi nel Ticino e l'opera "Per la vecchiaia", in Pro Senectute, 1929 (VII), no 3, p. 71 78., accenna anche alla povertà della vecchiaia nelle aree urbane ticinesi, povertà causata dai bassi salari percepiti durante l'attività lavorativa. 47. Non dimentichiamo inoltre che all'epoca queste istituzioni apparivano un lusso rispetto alle normali condizioni abitative in campagna, tanto che il ricovero era da molti considerato più un premio che una costrizione. 48. Descrizione dettagliata delle procedure che portarono alla fondazione nel Cenno storico sulle origini dell'Ospedale Bleniese con brevi note biografiche dei Fondatori Sacerdoti Del Siro e Bontadina, Massagno Lugano, 1923, 40 p; si veda inoltre L' Ospedale Maria Ausiliatrice. Agli abitanti ed amici della Valle di Blenio in occasione della festa del suo XL, Lugano Stazione, s.d., 31 p. 49. Il progetto iniziale dell'Unione Apostolica del Clero Bleniese ne prevedeva, per ragioni economiche, solo 8. Furono le Suore di Menzingen a chiedere di aumentarne il numero. 50. Cfr. Ricovero Paganini Rè a Bellinzona, in Pro Senectute, 1932 (X), n 2, p. 37 42.; Fondazione Paganini Rè. Ricovero per gli inabili al lavoro Bellinzona. Il primo decennio di vita (1921 1930), Bellinzona, 1932, 31 p.; Adolfo CALDELARI, Mezzo secolo di attività del Ricovero "Paganini Rè", Bellinzona, 1971, 42 p. 51. Cfr. G. SARINELLI, La Diocesi di Lugano cit., p. 128, nota 12; E. CATTORI, Il Vescovo Aurelio Bacciarini cit., p. 692, nota 1, e p. 763; 52. Riguardo alla data di apertura le fonti non sono concordi. Secondo A. CODAGHENGO, Storia religiosa del Cantone Ticino cit., vol. II, p. 364 le suore giunsero a Capolago nel 1899. E. CATTORI, Ricovero ed assistenza dei Vecchi nel Cantone Ticino cit., p. 27 dice che il ricovero fu aperto nel 1900. Don Luigi Guanella e le Opere sue nella Svizzera Italiana cit., p. 22, afferma per contro che il ricovero venne iniziato nel 1902. 53. Cfr. Teucro A. ISELLA, Ospedale Ricovero Malcantonese
a Castelrotto, in Pro Senectute, 1933 (XI), no 2, p. 36 38. 55. E. CATTORI, Il Vescovo Aurelio Bacciarini cit., p. 764; un accenno alla Casa chiamata di Nazaret in A. CODAGHENGO, Storia religiosa del Cantone Ticino cit., vol. II, p. 369. 56. Per ulteriori informazioni si vedano più sotto le note concernenti l'Ospedale distrettuale leventinese. 57. Non contiene particolari informazioni storiche la recente pubblicazione Istituto Santa Croce Faido. Casa per anziani della Leventina, Rivera, [1992], 48 p. Da notare che nel 1983 l'Ospedale Santa Croce, assieme all'Ospedale distrettuale, venne assunto dall'Ente ospedaliero cantonale. Tornò autonomo nel 1988 per essere gestito da un consorzio locale e convertito in ricovero per anziani. 58. Cfr. Cesare SCATTINI, Il "Solarium" di Gordola, in: Pro Senectute, 1937 (XV), n 3, p. 81 85 (il periodico Pro Senectute contiene altri articoli riguardante il ricovero di Gordola); Il Ricovero Solarium 1926 1966, Gordola, 1966, n.p. 59. Don Giovanni Guggia (1879 1953), originario del Malcantone, fu parroco prevosto di Gordola dal 1918 al 1929. 60. Cfr. Eugenio BERNASCONI, L'Asilo ricovero San Donato Intragna, in Pro Senectute, 1930 (VIII), n 2, p. 98 101. L'anno precedente al testamento di Donato Cavalli un altro lascito era stato finalizzato alla creazione di un ricovero a Intragna, ma senza effetto per difficoltà sopravvenute. 61. Unica notizia in E. CATTORI, Il Vescovo Aurelio Bacciarini cit., p. 693. 62. La Clinica Luganese. Cenni storici in occasione del Cinquantesimo di sua Fondazione 1900 1950, Lugano Stazione, [1950], 27 p. 63. Ibid., p. 13. 64. Nel fascicolo La Clinica Luganese nel XXV di sua fondazione. Monografia. MCM MCMXXV, Lugano, 1925, 8 p.; il fascicolo è accompagnato da una raccolta di fotografie sciolte pubblicata separatamente con il titolo Nel XXV Anno di Fondazione della Clinica Luganese MCM MCMXXV. 65. Ibid., p. 3. Altre notizie sulla clinica anche in: Rodolfo MAJOCCHI, L'Istituto delle Suore infermiere di Valduce in Como, Como, Unione Tipografica, 1922, 68 p. 66. Gli antichi ospedali quali quello di Lugano avevano infatti una funzione promiscua. 67. Notizie sulle disposizioni testamentarie nel Monitore officiale ecclesiastico, 1905 (IX), p. 154 159. 68. Cfr. V. CHIESA, L'Ospedale Civico di Lugano. Dati storici e notizie, Bellinzona Lugano, 1944, p. 84. 69. Cfr. Don Luigi Guanella e le Opere sue nella Svizzera Italiana cit., p. 26 27, ed anche E. CATTORI, Il Vescovo Aurelio Bacciarini cit., p. 427 428. 70. Cfr. Il Ricovero S. Rocco di Morbio Inferiore, in: Pro Senectute, 1937 (XV), n 1, p. 11 14. 71. Cfr. Don G. ROVELLI, La Vecchiaia nelle vallate Luganesi, in Pro Senectute, 1931 (IX), n 2, p. 46 49.; Teucro A. ISELLA, La "Villa Riposo" di Sonvico e l'assistenza dei vecchi a domicilio, in Pro Senectute, 1930 (VIII), n 4, p. 99 101; Opera Charitas Sonvico. Cenni storici di venti anni di sua fondazione 1930 1950, Lugano, 1950, 27 p. 72. Così E. CATTORI, Il Vescovo Aurelio Bacciarini cit., p. 692; secondo A. GALLI, Notizie sul Cantone Ticino cit., vol. III p. 1297, l'apertura avvenne nel 1934. 73. Sul ricovero distrettuale di Tesserete si vedano le note più sotto. 74. Cfr. Il Ricovero Ospedale S. Giuseppe in Tesserete s/Lugano, in Pro Senectute, 1936 (XIV), n 2, p. 40 42; E. CATTORI, Il Vescovo Aurelio Bacciarini cit., p. 428 e 693 694. 75. Come abbiamo già avuto modo di dire, per evitare difficoltà legali dovute alle limitazioni poste in Svizzera all'attività di congregazioni estere l'ospedale venne acquistato da una società anonima di cui mons. Bacciarini era il rappresentante. 76. Con l'eccezione del sanatorio per bambini di Medoscio. 77. Notizie in A. CODAGHENGO, Storia religiosa del Cantone Ticino cit., vol. II, p. 357; E. CATTORI, Il Vescovo Aurelio Bacciarini cit., p. 692 dà come data di inizio di attività della culla il 1925. 78. Cfr. Ricovero Erminio von Mentlen per l'infanzia abbandonata 1912 1937, Bellinzona, 1937, n.p.; Istituto Erminio Von Mentlen. 80 di fondazione, Bellinzona, s.d., 16 p. 79. Cfr. A. CODAGHENGO, Storia religiosa del Cantone Ticino cit., vol. II, p. 325; [R. AMERIO] Generazioni luganesi in un luogo vivente cit., 117 p. 80. Cfr. S. FRANSCINI, La Svizzera italiana, Lugano, Ruggia, 1837, v. I, p. 370. 81. Occorre notare che le diverse fonti che si sono occupate della storia dell'Opera Maghetti presentano alcune incongruenze quanto a fatti e date. 82. Secondo CODAGHENGO, Ibid., il testamento del Torriceli è del 29 novembre 1842 e venne pubblicato il 9 marzo 1848. 83. Secondo CODAGHENGO, Ibid., dal 29 settembre 1903. Da notare che da almeno due decenni presso l'Opera Maghetti erano attive anche le Figlie della Carità di S. Vincenzo. 84. R. AMERIO, in Generazioni luganesi in un luogo vivente cit., situa erroneamente il trasferimento dell'orfanotrofio negli anni Cinquanta, ma il trasferimento è già citato dal CODAGHENGO che scriveva un decennio prima. 85. Cfr. A. CODAGHENGO, Storia religiosa del Cantone Ticino cit., vol. II, p. 349; R. BROGGINI, Contributo sulle organizzazioni scolastiche ticinesi: l'opera della Congregazione delle Suore insegnanti di Santa Croce di Menzingen, in: Bollettino 1984 dell'Associazione per la storia del movimento cattolico nel Ticino, numero speciale del Risveglio, 1984 (LXXXIX), n 7 8, p. 219 229. 86. Dal 1882 le suore di Menzingen diressero anche l'Istituto scolastico femminile che la signora Vanoni aveva aperto accanto all'orfanotrofio nel 1879: mutata sede, la scuola diventerà il noto Istituto S. Anna. 87. Cfr. Monitore officiale ecclesiastico, 1912 (XVI), p. 328. Notizie sulla culla in A. CODAGHENGO, Storia religiosa del Cantone Ticino cit., vol. II, p. 356. 88. Cfr. S. BORRANI, Il Ticino Sacro, p. 495; A. CODAGHENGO, Storia religiosa del Cantone Ticino cit., vol. II, p. 327; Una scuola nel cuore della Città. Istituto S. Eugenio di Locarno 1886 1986, s.l., 1986, 81 p. 89. R. TALARICO, Il Cantone malato cit., p. 126, ricorda ad esempio che nel 1856, nell'intento di raccogliere tutte le informazioni e conoscenze necessarie per istituire un ricovero per sordomuti, il Ticino aveva preso contatto con lo Speroni, direttore dell'istituto dei sordomuti di Bergamo. 90. L'istituto aveva sede nell'edificio del soppresso convento dei SS. Sebastiano e Rocco. In quello stesso edificio negli anni precedenti aveva trovato sede un altro istituto cattolico, il collegio di S. Giuseppe, sul quale si sofferma R. BROGGINI, Don Mattia Fonti e il collegio S. Giuseppe, in Bollettino 1985 dell'Associazione per la storia del movimento cattolico nel Ticino, numero speciale del Risveglio, 1985 (XC), n 10 11, p. 401 408. 91. Le fonti consultate non permettono di essere più precisi. Si vedano: E. CATTORI, Il Vescovo Aurelio Bacciarini cit., p. 763; A. CODAGHENGO, Storia religiosa del Cantone Ticino cit., vol. II, p. 361; Il primo mezzo secolo della Protezione della Giovane Lugano (1901 1951), Lugano, 1951, n.p. 92. In Ticino nel corso degli anni vennero aperti diversi
pensionati "cattolici", il cui carattere caritativo resterebbe da
verificare. Tra i molti ricordiamo qui il Pensionato Cima Norma di Dangio, retto
dalle Suore Rosminiane; la Pensione Edelweiss di Lugano, aperta dai Terziari
francescani per ecclesiastici provenienti dalla Germania; il pensionato femminile
aperto a Lugano Casserina dalle Suore di Santa Brigida. 94. Cfr. E. CATTORI, Il Vescovo Aurelio Bacciarini cit., p. 703 706; Fanciullezza prediletta 1926 1951 [N.U. per il 25 dell'Istituto Canisio di Riva S. Vitale], Parma, 1951, 16 p.; Istituto S. Pietro Canisio Opera Don Guanella da 60 anni a servizio dell'educazione speciale, Riva S. Vitale, 1987, n.p.; L'Istituto San Pietro Canisio Opera Don Guanella Riva San Vitale, Mendrisio, s.d., n.p. 95. E il noto autore delle "Note storiche religiose" delle chiese del locarnese, oltre che di un cospicuo numero di opuscoli devozionali. 96. Cfr. E. CATTORI, Il Vescovo Aurelio Bacciarini cit., p. 127. 97. Cfr. Generazioni luganesi in un luogo vivente cit., p. 10 98. Formazione professionale di tipo commerciale era fornita da vari istituti educativi cattolici, ma ciò esula dal campo caritativo. 99. Notizia in Congresso diocesano cit., p. 85. 100. Cfr G. SARINELLI, La Diocesi di Lugano cit., p. 59, n. 2. 101. Così nell'opera Centenario delle Volontarie Vincenziane Lugano 1889 1989, A. CODAGHENGO, Storia religiosa del Cantone Ticino cit., vol. II, p. 355 fa risalire invece la fondazione al 1881. 102. Cfr. A. CALDELARI, L'Ospedale San Giovanni di Bellinzona, Bellinzona, 1971, 119 p., 2a ed. 103. Sull'ospedale ricovero di Valle Maggia si veda soprattutto B. DONATI, L'ospedale distrettuale di Vallemaggia dal 1912 a oggi, in Pro Vallemaggia, 1976. p. 79 101. Si vedano anche: Cevio 23 24 Settembre 1922. Festa di beneficenza pro Ospedale Ricovero di Vallemaggia. Numero unico, Locarno, 1922, n.p.; V. BERNASCONI, Il problema della vecchiaia e l'Ospedale Ricovero di Vallemaggia, in: Pro Senectute, 1927 (V), p. 43 47; 104. Sull'ospedale distrettuale di Faido si vedano: G. BULLO, Problemi Regionali e Comunali. L'istituendo Ricovero Ospedale leventinese in Faido, Locarno, 1917, 79 p.; G. BULLO, Il Ricovero Ospedale del Distretto di Leventina in Faido. (Cantone Ticino Svizzera), in: Pro Senectute, 1923 (I), n 1, p. 16 21 e n 2, p. 43 46; Ricovero Ospedale del Distretto di Leventina nel venticinquesimo di sua attività. Faido 1923 1948, Bellinzona, 1949, 49p. 105. G. MONDADA, Locarno e il suo ospedale dal 1361 ai nostri giorni. Nel primo centenario dell'Ospedale "La Carità", Locarno, 1971, 99 p. 106. Cfr. U. PERUCCHINI, La Casa dei Vecchi a Locarno, in Pro Senectute, 1938 (XVI), n 2, p. 40 44. 107. Cfr. Società ticinese per l'assistenza dei Ciechi Lugano. Memoria commemorativa del 25 anno di fondazione e dell'inaugurazione dell'asilo dei ciechi in Lugano Ricordone (Fondazione Juan A. Bernasconi), Lugano, 1937, 63 p. 108. G. SARINELLI, La Diocesi di Lugano cit., p. 326. 109. Cfr. G. BISCOSSA , A. LIBOTTE, Croce Verde Lugano 1910 1985. 75 anni fra storia e cronaca, Lugano, 1985, 149 p. 110. Sull'ospedale di Lugano cfr. V. CHIESA, L'Ospedale Civico di Lugano. Dati storici e notizie. Pubblicato per cura del Comune di Lugano, Bellinzona Lugano, 1944, 144 p. 111. A. CODAGHENGO, Storia religiosa del Ticino, II, p. 354. 112. Ibid. p. 102 e 114. 113. Cfr. Città di Lugano Ricovero Comunale di
Assistenza. XXV della fondazione 12 ottobre 1935, Lugano, 1936, 14 p. L'opuscolo
è quasi interamente costituito da una relazione storica del direttore
del ricovero Egidio Viglezio. 115. Sull'ospedale si veda: L'Ospizio della Beata Vergine di Mendrisio 1860 1960, Mendrisio, 1960, 197 p.; a p. 158 160 figura l'elenco delle suore presenti all'ospedale. 116. Cfr. E. RISI, Ricovero distrettuale per i vecchi. (Fondazione Antonio Torriani fu Leopoldo) Mendrisio, In: Pro Senectute, 1932 (X), n 4, p. 98 101. 117. Cfr. Asilo vecchiaia Caccia Rusca in Morcote. In: Pro Senectute, 1933 (XI), n 4, p. 103 107; C. PALUMBO FOSSATI, Casa per anziani Fondazione Caccia Rusca Morcote 1877 1977, 1977, n.p. 118. Cfr. Sanatorio popolare cantonale Piotta. Pubblicato in occasione del 25 di attività 14 settembre 1947, 1947, 32 p. 119. Cfr. ad es.: Monitore ecclesiastico, 1920 (IV), p. 184: avviso in favore colletta Sanatorio popolare cantonale; Ibid., p. 205 206: Lettera del vescovo del 2 dicembre 1920 "pro sanatorio Popolare Ticinese". 120. Così A. GALLI, Notizie sul Cantone Ticino cit., vol. III p. 1297. 121. G. SARINELLI, Annuario Sacro, p. 155. È possibile che entrarono in servizio dopo il 1935. 122. Cfr. Omaggio della Associazione e della Fondazione Ospedale Ricovero Capriaschese in Tesserete, Lugano, s.d. 123. Come abbiamo visto più sopra trattando dell'Ospedale di S. Giuseppe. 124. Congresso diocesano cit., p. 111. 125. Cfr. L'Ospedale Italiano di Lugano (Viganello) 1900 1926, Lugano, 1926, 49 p. Bibliografia • AIROLDI Leone. L'assistenza alla vecchiaia nel Cantone Ticino. In: Pro Senectute, 1938 (XVI), no 1, p. 18 23. • ALBISETTI C. Per i nostri vecchietti. In: Pro Senectute, 1931 (IX), no 3, p. 91 93 e 1932 (X), no 3, p. 71 74. • AMALDI Paolo. Il Manicomio cantonale di Mendrisio in Casvegno (Cantone Ticino Svizzera). Cenni storici cenni descrittivi dati finanziari organizzazio ne note statistiche. Milano, Stabil. Lito Tipografico G. Abbiati, 1906, 104 p. • ASILO vecchiaia Caccia Rusca in Morcote. In: Pro Senectute, 1933 (XI), no 4, p. 103 107. • BERNASCONI Eugenio. L'Asilo ricovero San Donato Intragna. In: Pro Senectute, 1930 (VIII), no 2, p. 98 101. • BERNASCONI V. Il problema della vecchiaia e l'Ospedale Ricovero di Vallemaggia. In: Pro Senectute, 1927 (V), no 2, p. 43 47. • BERTONI B. Della pubblica assistenza. Considerazioni economiche, giuriche e statistiche in rapporto alle particolari condizioni del Cantone e seguite da un progetto di legge. Memoria premiata per concorso dalla benemerita Società degli Amici dell'Educazione del Popolo e di Utilità Pubblica. In: Della Pubblica assistenza nel Cantone Ticino, 150 p. • BISCOSSA Giuseppe, LIBOTTE Armando. Croce Verde Lugano 1910 1985. 75 anni fra storia e cronaca. Lugano, Edizione Croce Verde, 1985, 149 p. • BORRANI Siro. Il Ticino Sacro. Memorie religiose della Svizzera italiana. Lugano, Tipografia e libreria cattolica di Giovanni Grassi, 1896, 543 p. • BROGGINI Romano. Contributo sulle organizzazioni scolastiche ticinesi: l'opera della Congregazione delle Suore insegnanti di Santa Croce di Menzingen. In: Bollettino 1984 dell'Associazione per la storia del movimento cattolico nel Ticino, numero speciale del Risveglio, 1984 (LXXXIX), no 7 8, p. 219 229. • BROGGINI Romano. Il centenario del collegio di S. Eugenio a Locarno (1886 1986). In: Bollettino 1986 dell'Associazione per la storia del movimento cattolico nel Ticino, numero speciale del Risveglio, 1986 (XCI), no 7 8, p. 189 212. • BULLO Gustavo. Il Ricovero Ospedale del Distretto di Leventina in Faido. (Cantone Ticino Svizzera). In: Pro Senectute, 1923 (I), no 1, p. 16 21 e no 2, p. 43 46. • BULLO Gustavo. Problemi Regionali e Comunali. L'istituendo Ricovero Ospedale leventinese in Faido, Cantone Ticino, Svizzera. Base tecnica, finanziaria e giuridica. Con 3 tavole di Piani. Locarno, Tip. comm. Alb. Pedrazzini, 1917, 79 p. • CALDELARI Adolfo. L'Ospedale San Giovanni di Bellinzona. Bellinzona, Edizioni Casagrande, 1971, 119 p. • CALDELARI Adolfo. Mezzo secolo di attività del Ricovero "Paganini Rè". Bellinzona, Torriani S.A. Tipografia Offset, 1971, 42 p. • CATTORI Emilio. Il Vescovo Aurelio Bacciarini. Lugano Stazione, Tipografia "La Buona Stampa", 1945, 1013 p. • CATTORI Emilio. Ricovero ed assistenza dei Vecchi nel Cantone Ticino. L'opera della Religione. In: Pro Senectute, 1931 (IX), no 1, p. 23 29. • CENNO storico sulle origini dell'Ospedale Bleniese con brevi note biografiche dei Fondatori Sacerdoti Del Siro e Bontadina. Massagno Lugano, Tipografia Opera S. Agostino, 1923, 40 p. • CENTENARIO Conferenze di S.Vincenzo 21 V 1933. Locarno, Pedrazzini, 1933, 40 p. • CENTENARIO delle Volontarie Vincenziane Lugano 1889 1989. Lugano, La Buona Stampa, 1989, 59 p. • CESCHI Raffaello. Ottocento ticinese. Locarno,
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di Antonio Lepori 1. Il XIX secolo: emergenze, esitazioni e rinvii Nei primi decenni della sua esistenza il Ticino, alle prese con una serie di problemi che si manifesteranno per buona parte del secolo (tra cui citeremo solo quello dell'approvvigionamento cerealicolo, cronico viste le condizioni dell'agricoltura e perennemente condizionato dall'andamento delle relazioni con la Lombardia), non accordò grande importanza a quello che oggi definiremmo l'aspetto sociale della legislazione. Tutto ciò era dovuto più che all' esiguità delle risorse del Cantone a una mentalità di cui ritroveremo diverse tracce più avanti contraria o nel migliore dei casi scettica nei confronti di ogni intervento statale in questioni che da secoli erano state regolate più o meno bene dalla carità privata o dalle comunità locali. Rimasto estraneo al processo di industrializzazione iniziatosi in alcune regioni dell'Altopiano, il Ticino non conobbe mai i fenomeni di proletarizzazione e miseria diffusa che altrove accompagnarono il massiccio esodo rurale verso le città. Lo spezzettamento della proprietà e la presenza di beni patriziali a volte notevoli contribuiva a evitare che la vita stentata di buona parte della popolazione assumesse i caratteri della miseria, e se l'importanza dell'emigrazione che nel corso del secolo passò sempre più frequentemente da stagionale a definitiva testimoniava delle precarie condizioni di molti, essa veniva per lo più considerata come una fatalità inevitabile o addirittura benefica nella misura in cui scongiurava la diffusione del pauperismo. La situazione e la mentalità di quei decenni sono ben sintetizzate da un nostro storico: "La popolazione, composta da contadini ed artigiani emigranti, sembrava ancora al riparo dai nefasti effetti della civiltà industriale e, sebbene nel cantone fosse assai diffusa una certa povertà, essa appariva in genere dignitosa e sopportabile, mostrava in pochi casi i connotati vergognosi della miseria, e solo in circostanze eccezionali, in seguito a qualche calamità, assumeva le preoccupanti dimensioni del pauperismo. Anche i governanti ticinesi condivideva no le opinioni allora dominanti che fosse pericoloso e controproducente per lo Stato assumere troppo estese funzioni assistenziali e che non fosse lecito, se non in circostanze eccezionali, promuovere una politica di incisivi interventi sociali. La società andava lasciata nei suoi naturali equilibri e lo stato doveva intervenire solo per ristabilirli qualora fossero stati profondamente turbati o si presentassero seri pericoli per l' ordine pubblico o minacce di degenerazione morale e fisica della popolazione: per il resto bastava provvedere con l' educazione del popolo, la previdenza individuale, la carità privata" (1). Questo spiega perché il più delle volte gli interventi dell' autorità cantonale deriveranno come vedremo da circostanze eccezionali ed avranno spesso carattere temporaneo, In quest'ottica, era evidente che l'assistenza venisse concepita soprattutto a livello comunale, e sarà al comune che la costituzione del 1803 ne attribuirà l'obbligo. La giovane istituzione comunale, eredità lasciata dall'influenza delle idee rivoluzionarie, si era per così dire sovrapposta a quella patriziale, ben più radicata e che conserverà una notevole importanza anche nel nostro ambito di indagine: basti pensare che solo la legge del 1944, trasferendo gli oneri assistenziali al Cantone, sopprimerà il ruolo dei beni patriziali nel finanziamento dell'assistenza. Non stupisce quindi che la costituzione ne facesse carico al domicilio di attinenza, né che vi assumessero un ruolo sia i beni patriziali che il fuocatico (tassa riscossa dal comune di origine). L'aver ancorato nella Legge fondamentale questo principio non bastava peraltro ad assicurare una soluzione soddisfacente del problema, in particolare a causa della scarsità di mezzi di controllo a disposizione del Cantone; solo verso la metà del secolo l'aumento di potere dei commissari di governo e più tardi il rafforzamento delle condotte mediche permisero di ovviare almeno in parte agli abusi più gravi. Basti dire che fino alla fine del secolo la pratica del mantenimento a rotazione degli indigenti da parte di alcune famiglie sussistette in diversi comuni, senza contare gli innumerevoli litigi legati all' attribuzione di poveri "contestati" (2). Forse anche a causa delle altre spese a cui dovevano far fronte (in particolare quelle di culto e scolastiche, pure sovente trattate con estrema parsimonia) diversi comuni cercarono di restringere la libertà di domicilio per evitare di doversi far carico di potenziali indigenti non patrizi (3). Anche la disposizione di legge che prevedeva l'istituzione di un fondo comunale dei poveri che sarebbe stato alimentato coi proventi delle multe e delle tasse di naturalizzazione fu largamente disattesa, se si considera che verso la fine del secolo solo 43 comuni su 263 l'avevano applicata; neppure la Legge comunale del 1832 (che proibendo di mendicare al di fuori del proprio comune negava implicitamente il carattere obbligatorio dell'assistenza e che stabiliva che i mendicanti fossero ricondotti al loro comune che avrebbe potuto obbligarli a lavorare) produsse grandi cambiamenti. Gli anni che precedettero la guerra del Sonderbund e la Costituzione federale del 1848 furono caratterizzati da una maggiore attività, dovuta almeno in parte alle rovinose alluvioni della fine degli anni Trenta. Così nel 1841 venne istituito un fondo di soccorso destinato alle vittime di catastrofi e finanziato da multe e da due collette annuali (svolte a quanto pare senza grande zelo; si sarebbe dovuto attendere il 1896 perché il finanziamento del fondo venisse assunto dal Cantone). All' interno del Consiglio di Stato fu poi creata una commissione cantonale di beneficenza, mentre facilitazioni come l'esenzione delle spese giudiziarie furono accordate a poveri e orfani. Il provvedimento più importante di questo periodo fu l'istituzione delle condotte mediche, che si scontrò come era già stato il caso per la vaccinazione obbligatoria contro il vaiolo un decennio prima con forti resistenze e con una radicata diffidenza. A determinare il destino di questa legge concorsero in maniera decisiva le epidemie di colera che nei primi due terzi del secolo colpirono ad intervalli più o meno regolari la parte meridionale del cantone. Una di queste, nel 1854 55, contribuì ad accelerare l'applicazione della legge, ma bastarono pochi anni perché il Gran Consiglio decidesse contro il parere del governo la loro soppressione nel 1862, e solo una seconda epidemia fece compiere al Legislativo un completo voltafaccia che portò addirittura ad un ampliamento delle loro competenze di vigilanza nell'ambito del lavoro; a quest'istituzione si aggiungerà nel 1888 il Codice sanitario cantonale. Da notare tra l'altro che, dal punto di vista politico, fino al 1863 in Ticino esistette il suffragio censitario: dunque i poveri (ma anche molte persone di reddito medio e medio basso) nei primi sessant'anni di vita del nostro cantone non furono considerati cittadini attivi. I primi anni dello Stato federale furono particolarmente problematici per il Ticino, privato delle entrate doganali e costretto a far fronte alle pesanti conseguenze della repressione dei moti del 1848 nell'Italia settentrionale, che provocò il blocco delle importazioni di cereali e successivamente l' espulsione dei ticinesi dalla Lombardia. Le pesanti conseguenze sul piano sociale furono aggravate dalla malattia delle patate, che in quegli stessi anni avrebbe spopolato l' Irlanda. Il Consiglio di Stato reagì all'emergenza promuovendo alcuni lavori pubblici (di cui restano tracce nel Bellinzonese); nel contempo una nuova Legge comunale nel 1854 regolamentava l'assistenza in modo più preciso. La proibizione di mendicare diventava assoluta, il che può essere indirettamente interpretato come un segno della volontà di far applicare più strettamente la legge. Il 27 novembre 1855 veniva poi emanata la prima legge ticinese sull'assistenza, che confermava il principio dell'obbligo del comune di mantenere i propri attinenti assolutamente poveri ed incapaci al lavoro. Il comune, oltre a doversi occupare degli esposti trovati sul suo territorio il che provocò diversi casi di esposizione in più luoghi avrebbe dovuto assistere chiedendo poi il risarcimento gli ammalati non trasportabili di altri comuni e avrebbe potuto decurtare, in caso di ozio o vizio, i contributi ai poveri. Poco successo ebbero in quegli anni gli sforzi volti a limitare gli abusi legati all'emigrazione in netto aumento e spesso diretta verso paesi lontani come gli USA e l'Australia; una legge restrittiva votata nel 1855 fu applicata in maniera blanda, a dimostrazione del fatto che l'emigrazione era generalmente considerata un male necessario, e la questione non migliorò che con la nuova Costituzione federale del 1874.
Nell'ultimo terzo del secolo l'intervento cantonale, sollecitato in parte da disposizioni federali, si indirizzò verso categorie più specifiche di bisognosi: si assistette quindi a una diversificazione degli interventi, legata alla progressiva presa di coscienza della necessità di un' azione più puntuale, i cui primi beneficiari saranno gli orfani e i pazzi. La condizione di questi ultimi, "trattati peggio delle bestie" (4), era particolarmente miserabile: della fondazione di un Manicomio cantonale si iniziò a parlare nel 1868, quando l'Ospedale Beata Vergine di Mendrisio (inaugurato nel 1860 grazie a un lascito del conte A. Turconi), che fungeva da Ospedale cantonale, fu esentato dalle imposte sulla rendita in questa prospettiva. Dopo aver raccolto parecchi fondi il governo preferì però nel 1884 concludere una convenzione col manicomio di Como che ritardò il progetto di un decennio. Negli stessi anni il Consiglio di stato istituiva dieci borse di studio per sordomuti poveri. Quanto agli orfani e ai bambini abbandonati, che per decenni erano stati trasferiti in Lombardia in condizioni spesso spaventose (5) , una legge del 1869 impose ai comuni dove fosse avvenuto il ritrovamento di fornir loro un cognome e l'attinenza: questi provvedimenti permisero, provocando ricerche più approfondite, di ridurre notevolmente la piaga degli abbandoni. Negli anni Ottanta furono poi accordati sussidi cantonali all'istituto per discoli del Sonnenberg e successivamente agli asili infantili riconosciuti dal cantone. Intanto la scuola ticinese, pur in mezzo a molte difficoltà economiche (e ideologiche), si sforzava sempre di più di diffondere l'alfabetizzazione tra i giovani, infatti molti ragazzi in età scolastica dovevano svolgere lavori per contribuire a sostenere la famiglia in campagna o nelle fabbriche. Nei libri di testo si parlava spesso di povertà e miseria, adottando in genere un approccio molto tradizionale: solidarietà e benevolenza per i poveri "senza colpa" e disprezzo e disonore per i poveri a causa dei propri "vizi morali" (alcool, gioco, ...). Per combattere la povertà i testi scolastici predicavano il lavoro e il risparmio; alcuni, a partire dall'inizio del nostro secolo, cominciavano a proporre delle prime misure di previdenza sociale (6). Un settore in cui la legislazione cantonale restò costantemente arretrata, anche e soprattutto rispetto a quella federale, fu quella del lavoro, in ossequio al dogma del liberalismo economico: "La stagione della legislazione sociale tendente a proteggere gli operai e specialmente i bambini impiegati negli opifici fu inaugurata tardivamente, risultò assai blanda ed ebbe brevissima durata. Per parecchio tempo le autorità ignorarono il problema, negarono la necessità di qualsiasi intervento e perfino l' utilità di qualche inchiesta negli opifici poiché le fabbriche erano poche e le condizioni di lavoro facili a controllarsi" (7). Fu così che il Ticino non diede seguito nel 1869 all'invito federale a svolgere un'inchiesta nelle fabbriche, malgrado la notevole diffusione del lavoro minorile. Anche i provvedimenti presi per limitare l'emigrazione stagionale dei piccoli spazzacamini, diffusa soprattutto nel Locarnese, ebbero scarso effetto nella misura in cui la proibizione dell'emigrazione per i minori di 14 anni fu accompagnata dall'abbassamento dell'età lavorativa a 12 anni. Quando poi la legge federale sulle fabbriche del 1877, resa possibile dalla nuova Costituzione federale, riportò il limite a 14 anni e introdusse la giornata lavorativa di 11 ore, i proprietari delle manifatture di seta ticinesi fecero pressione sul Consiglio di stato perché chiedesse una deroga, ottenuta nel 1880 e prorogata fino al 1898 (8). Negli ultimi decenni del secolo, anche in seguito alla crescente mobilità della popolazione, si cominciò a parlare di una revisione della legge sull'assistenza che sgravasse almeno in parte i comuni di attinenza. Un progetto di legge del 1874 che prevedeva il passaggio degli oneri al comune di domicilio dopo vent'anni di permanenza non ebbe seguito, come pure due mozioni del decennio successivo, una delle quali proponeva addirittura il trasferimento completo degli obblighi al comune di residenza: i tempi non erano decisamente ancora maturi. Da notare intanto che, a livello internazionale, la Germania negli anni Ottanta inaugurava per prima una moderna politica sociale, con una serie di leggi sull'assistenza, sull'assicurazione malattia, sull'assicurazione infortuni e sulle pensioni (9). In questo periodo la lentezza della costruzione di una legislazione sociale nel nostro cantone fu dovuta anche a cause politiche, legate in primo luogo al clima di aspra lotta che caratterizzò buona parte degli anni Ottanta e che culminò l' 11 settembre 1890 con il rovesciamento violento del governo. Particolarmente severo a questo riguardo è il giudizio di Bertoni, lui stesso protagonista di quegli anni: "... sebbene il legislatore non abbia finora accordato alla bisogna quella cura che avrebbe dovuto, è generalmente riconosciuto che ad una riforma si debba addivenire. E più lo sarebbe, se il paese nostro non fosse eccezionalmente infesto da quella peste che sono i politicanti, a null'altro intesi che ad assordare il popolo con vecchi e sterili frasi, per intontirne il naturale intendimento, a sollecitare i pregiudizi per farsene sgabello a mire ambiziose, a intorbidare la coscienza con insane passioni, ad esaurirne le forze con sterili lotte, a fargli insomma tutto il male possibile sotto veste di procacciare la libertà e la sua salvezza in questo e nell'altro mondo." (10) Negli anni Novanta il sistema proporzionale, imposto da Berna contro il parere di entrambi gli schieramenti tradizionali, cominciò a tradursi in una maggiore collaborazione tra le correnti più possibiliste dei partiti: espressione di questo pragmatismo fu il governo Simen, esecrato dagli oltranzisti e dagli ideologhi delle due parti ma che riuscì in questo nuovo clima politico a far adottare diversi provvedimenti ampiamente necessari. In questi anni fu elaborato anche il progetto di riforma della legge sull'assistenza, che dopo un iter travagliato sarebbe stato votato nel gennaio del 1903 (11). Negli anni a cavallo tra XIX e XX secolo l'affermarsi di una certa sensibilità sociale in Ticino fu tra l'altro favorita da un lato dalla costituzione delle prime organizzazioni socialiste (nascita del PST nel 1900), dall'altra dagli inizi dell'associazionismo cristiano sociale nel solco della Rerum Novarum, pubblicata nel 1891 (le prime Leghe operaie cattoliche sorgono nel Locarnese e nella Leventina attorno al 1902 1903); già in precedenza alcune categorie professionali avevano cominciato a dotarsi di casse di mutuo soccorso.
Si assistette in questo periodo a un timido sviluppo della legislazione sociale federale, per esempio all'adozione della legge sull'assicurazione malattia del 1911 e all'accettazione del principio dell'AVS nel 1925 (ma la legge deve attendere il 1947...). Il primo conflitto mondiale con la tragica appendice della grippe del 1918 aggravò nuovamente il problema della povertà (12), che il Consiglio Federale cercò di alleviare con la costituzione di un fondo speciale destinato alle famiglie rovinate dalla guerra; da ricordare che nel 1918 1920, di fronte alle agitazioni e alle richieste del movimento dei lavoratori, il Consiglio Federale dovette concedere o perlomeno promettere una serie di miglioramenti nel campo sociale. Torniamo alla nuova legge sulla pubblica assistenza del 1903. In essa veniva ripreso il principio del passaggio degli obblighi al comune di domicilio trascorso un periodo di vent'anni: quanto al Cantone, rinunciando ad assumersi direttamente questi oneri, si addossava l'assistenza dei confederati e degli stranieri poveri (per quanto riguarda i confederati, durante il primo conflitto mondiale il Ticino aderirà ad un concordato intercantonale sull'assistenza, che sarà modificato in seguito più volte). Rispetto al progetto governativo del 1894, la legge rinunciava alla distinzione tra indigenti (permanenti) e bisognosi (temporanei), come pure ad includere tra gli scopi dell' assistenza la ricerca del lavoro ai disoccupati; anche per la concessione di sussidi ai comuni più gravati da spese assistenziali si sarebbe dovuta attendere la legge successiva del 1931. Bisogna per contro segnalare la maggior preoccupazione per i fanciulli, di cui si provvedeva al collocamento, la frequentazione di una scuola e l'apprendimento al lavoro. Sul piano cantonale la legge sull'assistenza del 1903 pur apportando alcuni miglioramenti non aveva potuto sopprimere che parzialmente gli abusi ricorrenti a livello comunale e di cui troviamo diverse tracce; il governo deplorava tra l'altro il fatto che i comuni tendessero a largheggiare sugli aiuti (rimborsabili) a confederati e forestieri, lesinando invece su quelli ai ticinesi. Già in quegli anni si levarono voci in favore dell'assunzione da parte del Cantone della ripartizione e versamento dei fondi, un'incombenza che era però ancora sproporzionata ai suoi mezzi, malgrado l'aumento delle competenze dei commissari in seguito all'adozione del Codice civile federale. Il Gran Consiglio il 16 maggio 1904 approvò una legge sul lavoro, in pratica un regolamento di applicazione della legge federale di due anni prima. Questo nuovo regolamento, di carattere innovativo, concedeva anche un sussidio di 1500 franchi alla Camera del Lavoro perché il segretario della stessa assumesse il controllo dell'applicazione della legge sul lavoro, tenendo informato il Consiglio di Stato con periodici rapporti; in pratica si trattava di un riconoscimento esplicito dell'organizzazione operaia ufficialmente "neutra" ma di fatto di ispirazione socialista (13) (proprio in quegli anni sorgevano intanto le prime organizzazioni operaie cristiano sociali; l'OCST, sorta nel 1919, ricevette il medesimo sussidio della Camera del Lavoro però solo nel 1944). All'inizio degli anni Venti la creazione del Sanatorio cantonale di Piotta, in seguito, permise di venire incontro ad un' altra categoria sfavorita; in questo stesso periodo si riprese a discutere della legge sull'assistenza, che fu l'oggetto nel 1930 di due votazioni popolari. Nella primavera di quell'anno il Gran Consiglio contrappose all'iniziativa socialista che prevedeva il passaggio completo allo Stato degli oneri assistenziali un controprogetto; entrambi caddero in votazione (14), ma l'esigenza di una riforma era ormai diffusa e trovò espressione il 19 settembre 1931 in una nuova legge che si ispirava in parte al controprogetto respinto. Esso rappresentava un piccolo ma ulteriore passo verso la cantonalizzazione dell'assistenza, in quanto il Cantone rimborsava ai comuni la metà delle spese legate ai ricoveri al Sanatorio o Manicomio cantonale e di quelle relative ad orfani, illegittimi, abbandonati o persone di età superiore ai 65 anni (15). Veniva inoltre costituito un fondo cantonale di 75.000 franchi destinato ai comuni particolarmente gravati da spese legate ai poveri. Nel 1936 il sistema veniva poi reso più flessibile con un sussidio ai comuni dal 25% al 75% a seconda dei casi. Ogni comune era peraltro tenuto esplicitamente (e, visti i precedenti, questa disposizione non era certo superflua) ad istituire un Fondo d'assistenza con capitale dichiarato intangibile alimentato oltre che da tasse di attinenza e multe, dalle quote spettanti ai comuni sulle tasse di successione. Ben presto i tempi, complice la guerra e la delicata situazione sociale derivantene, furono maturi per un passo successivo, che per la prima volta avrebbe posto il Ticino all'avanguardia rispetto ad altri cantoni (16). L'iniziativa partì dai sindacati. Il 7.11.1940 l'OCST e la Camera del Lavoro avevano costituito la Comunità Sindacale Ticinese (CST), sorta di alleanza strategica, visti i tempi, per un'opera comune in favore della classe lavoratrice. Dopo un lavoro preparatorio di vari mesi la CST il 10.1.1942 spediva al Consiglio di stato un dettagliato progetto di legge sull'assistenza pubblica; l'8 luglio successivo Masina, Zeli e altri parlamentari vicini ai sindacati presentavano una mozione per spingere il governo a preparare una nuova legge sulla pubblica assistenza. I motivi addotti erano le reiterate difficoltà finanziarie di alcuni comuni (17) e in genere l'aggravamento della situazione sociale legato alla mobilitazione e alla guerra. Il Dipartimento degli Interni nominava allora una Commisssione speciale, che riunitasi a Frasco nel luglio del 1943 elaborò un progetto rispetto al quale il Consiglio di stato propose e ottenne poi modifiche concernenti il finanziamento, per il quale fu prevista accanto alle entrate consuete un'imposta dell'1,5 per mille che sarebbe stata percepita dai comuni. L'importanza della legge non era legata soltanto al fatto che essa rappresentava in pratica la conclusione di un lungo processo iniziatosi quarant' anni prima, né al suo carattere progressista. Una parte importante della legge, che affermava fortemente nei primi articoli il principio di sussidiarietà sottolineando il ruolo della famiglia, era dedicata alle misure preventive, che interessavano tra gli altri i disoccupati e che miravano ad evitare la diffusione di fenomeni quali malattie contagiose ed alcoolismo. Se i comuni erano definitivamente liberati dagli oneri finanziari, essi mantenevano attraverso la creazione di una commissione comunale di assistenza diverse competenze ed in particolare quella di segnalare, con preavviso, le domande all'autorità cantonale e di sorvegliare l'uso che veniva fatto dei sussidi da parte degli assistiti con possibilità di sopprimerli; il Cantone, oltre a disporre dei fondi comunali destinati in precedenza all'assistenza (legati, donazioni e beni stabili esclusi), stanziava annualmente la somma di 500.000 franchi. L'adozione della legge da parte del Gran Consiglio il 17 luglio 1944 può essere un po' considerata per quanto riguarda il nostro tema come la fine di un epoca, ma essa costituiva anche la base sulla quale si sarebbe sviluppato nei decenni del dopoguerra un intervento sociale tempestivamente adattato alle esigenze di una società segnata da cambiamenti sempre più rapidi. 4. Verso il presente: la costruzione dello Stato sociale La seconda guerra mondiale rappresenta, a livello federale (18), un primo importante momento di intervento dello Stato nel sociale, sotto l'esigenza della solidarietà nazionale. È risaputo che la costruzione della sicurezza sociale, nel nostro paese, avviene con lentezza e pragmatismo, e risale al dopoguerra; lungi dall'essere completa, è sicuramente ancora molto perfettibile (è noto, tra l'altro, che la Svizzera per le spese sociali consacra una parte del suo reddito nazionale nettamente minore rispetto alla media dei paesi della OCDE). In Ticino nell'immediato dopoguerra a livello cantonale non si registrano subito particolari progressi nella legislazione sociale. Sono ancora le organizzazioni sindacali che, con le loro azioni e anche con una serie di scioperi piuttosto importanti (tra cui quello dei falegnami nell'estate del 1949, durato ben tre mesi) riescono in alcune professioni a migliorare le condizioni di lavoro e gli stipendi. Nel campo socio sanitario nel 1949 è da segnalare la costituzione, presso il Dipartimento d'igiene, del Servizio cantonale di igiene mentale (SIM), divenuto necessario dalla constatazione dell'aumento dei vari disturbi di origine nervosa e mentale e dalla necessità di un'opera di prevenzione. Senza alcuna pretesa di completezza vediamo ora in sintesi alcune delle principali tappe della costruzione dello Stato sociale nel Ticino.
Un tema molto importante, portato avanti in particolare dalle forze dell'area cattolica, è quello della difesa della famiglia. Nella votazione del 25.11.1945 il popolo svizzero accetta l'art. 34 quinquies della Costituzione federale, detto di protezione della famiglia, che è il controprogetto delle Camere su un'iniziativa popolare degli ambienti cattolici presentata tre anni prima; il nuovo articolo autorizza, fra l'altro, a legiferare in materia di assegni familiari. In Ticino già il 21.11.1940 una mozione Masina invita il governo a presentare una legge per delle allocazioni familiari obbligatorie. Il 13.10.1949 è poi la volta di Visani (19) a presentare una mozione per un progetto di legge sugli assegni familiari in favore dei salariati. A questo punto una parte non piccola di contratti collettivi, oltre agli impieghi pubblici, prescrivono degli assegni familiari, si tratta quindi di riparare a una disparità sociale. La Legge cantonale sugli assegni familiari ai salariati (LAF) viene dunque adottata il 22 luglio 1953. Le indennità spettano alla Casse di compensazione, la cui istituzione è opera del Cantone o delle associazioni professionali; l'aliquota minima è di 10. franchi mensile per figlio. La LAF (poi più volte migliorata) pur in modo molto timido contribuisce così a una politica di protezione della famiglia (politica particolarmente lacunosa ancora adesso...).
Alla fine degli anni '50 il vecchio Dipartimento d'Igiene è ormai inadeguato a far fronte a tutta la nuova e vastissima problematica del campo sociale e sanitario. Il Cantone, finalmente, capisce di doversi assumere la sua responsabilità nei confronti dei più bisognosi. La creazione del DOS nel 1959 è quindi importante, seppur tardiva: il ritardo accumulato in questi settori non sarà facilmente recuperabile, e di fatto i singoli provvedimenti legislativi avverranno sotto il segno dell'urgenza, senza una visione politica globale. Nel 1963 entra in funzione il Servizio Sociale Cantonale, con una serie di assistenti sociali a disposizione dei vari enti statali e privati. Negli anni seguenti vengono poi istituiti altri servizi sociali: quello del Penitenziario nel 1967, il Servizio psico sociale (SPS) e il Servizio medico psicologico (SMP) nel 1969 si tratta di una suddivisione del vecchio SIM il Servizio di Patronato nel 1972, ecc. 4.3. La Legge per la protezione della maternità, dell' infanzia, della fanciullezza e dell' adolescenza (LPMI) del 1963 Fino agli inizi degli anni '60 la cura di minorenni orfani, abbandonati o deboli in pratica è assunta da istituti retti da enti privati (Congregazioni, Fondazioni, Associazioni) caritativi e religiosi. L'inchiesta promossa dal DOS nel 1959 60 mette in rilievo la grave situazione in cui versano molte centinaia di ragazzi nel nostro cantone, proprio perché la pur generosa attività dei vari istituti privati non può garantire le adeguate cure a tutti i ragazzi bisognosi (20). Si arriva così, proprio per i cambiamenti della società, a concepire una legge sulla protezione della maternità, dell'infanzia e dell' adolescenza, che esprime la volontà dello Stato di promuovere l'azione di prevenzione per le gestanti, le madri e i bambini, e di assumere la protezione di determinate categorie di minorenni: lo Stato promuove e coordina l'assistenza sociale a favore della maternità e dei minorenni, dice l'art. 1. della legge. In particolare a carico del bilancio dello Stato vi sono il versamento di assegni di natalità, il sussidio a colonie estive, l'aiuto all' esercizio di poliambulatori, la creazione e la gestione di istituti pubblici, il sussidio di istituti comunali e privati, l'aiuto alla formazione del personale, ecc. La LPMI del 15.1.1963 è dunque una legge importante nella costruzione del nostro Stato sociale, e dà l'avvio a numerosi altri interventi in questo campo.
Malgrado tutti i miglioramenti legislativi e assicurativi alla fine degli anni Sessanta nel nostro cantone ci si rende conto che si è ben lungi da una sicurezza sociale globale. Già con una legge del 24.3.1966 (modifica di alcuni articoli della legge tributaria) gli oneri finanziari derivanti dall'applicazione della legge sulla pubblica assistenza sono posti a carico del bilancio ordinario dello Stato. Si sente poi la necessità di cambiare tutta l'ormai vecchia legge sull'assistenza pubblica del 1944, introducendo alcune novità importanti, tra le quali appunto la trasposizione dei diritti finora spettanti ai Comuni direttamente allo Stato (i Comuni mantengono però una funzione importante nell' informazione, nel preavviso, nella vigilanza). Già il titolo della legge è significativo; non più "assistenza pubblica" ma "assistenza sociale". "L'assistenza sociale non è carità, ne beneficenza, non è neppure un mezzo di frenare moti incomposti di masse lavoratrici insoddisfatte: l'assistenza è un dovere (21), un obbligo della collettività verso quei membri di essa che si trovano in condizione disagiate, e quindi si risolve in un vantaggio della collettività stessa, perché il benessere della parte non può che contribuire al benessere del tutto" afferma tra l'altro il messaggio del 5.6.1970 che accompagna la nuova legge. Tra le altre novità, da segnalare la scomparsa del principio di sussidiarietà (la legge del 1944 dichiarava, nell'art. 1., come fosse la famiglia a dover provvedere prima di tutto ai bisogni materiali e morali dei propri membri; nella nuova legge l'art. 4. stabilisce che le prestazioni assistenziali sono di regola dovute allo Stato indipendentemente da qualsiasi obbligo assistenziale tra parenti) e il diritto del cittadino indigente di essere sentito e quindi di poter motivare la propria situazione. La legge del 1971 innova profondamente la situazione della vecchia assistenza pubblica, e abbandonata l'impronta caritativa si fa assistenza sociale gestita dallo Stato e prende anche un carattere di previdenza sociale, pur restando complementare ad altre istituzioni caritative.
Altro tema importantissimo è quello dell'assistenza agli anziani, in un'epoca caratterizzata da un forte invecchiamento della popolazione. Di fronte alla mancanza di interessamento pubblico fino agli anni '60 la cura degli anziani è, anche in questo settore, opera di istituti caritativi privati, soprattutto religiosi, con qualche casa di riposo comunale. Un'indagine del DOS del 1962 mette alla luce una situazione di grande inadeguatezza delle strutture esistenti (il bisogno reale è molto maggiore di quello a cui possono far fronte gli istituti privati) e scatta di nuovo il criterio dell'urgenza. Con un decreto legislativo del 10.7.1963 il Cantone provvede a garantire la concessione di sussidi per la costruzione di nuove case di riposo e l'ammodernamento e l'ampliamento di quelli esistenti. Quest'azione, pur positiva, risulta insufficiente (22) e agli inizi degli anni Settanta dopo una serie di studi sulla questione, si decide una nuova legge di aiuto agli anziani. Questi ne sono i principali punti: il potenziamento e la coordinazione di appartamenti protetti e di case di riposo; la facilitazione del buon funzionamento degli alloggi protetti e delle case di riposo e il perfezionamento delle prestazioni assistenziali; il promovimento di servizi ambulatoria li e domiciliari di assistenza specialistica e di aiuto infermieristico, domestico e ricreativo; il potenziamento della formazione del personale. La legge sul promovimento, il coordinamento e il sussidiamento delle attività sociali a favore delle persone anziane del 1973 permette quindi al Cantone di assumere un ruolo attivo e di favorire delle necessarie iniziative territoriali nei confronti di una parte importante e sempre crescente della nostra popolazione, a lungo dimenticata dallo Stato. Vi sono poi altre importanti leggi cantonali di portata sociale (per esempio la legge sulle colonie del 1973, la legge del 1979 atta a favorire l'integrazione sociale e professionale degli invalidi, quella sugli ospedali pubblici del 1982, la legge sull'assistenza sociopsichiatrica del 1983, quella per il promovimento di abitazioni del 1986, ecc.) che completano il quadro dell'attuale nostro Stato sociale. Da ricordare ovviamente inoltre le fondamentali leggi a livello nazionale. Dal 1986 la Confederazione è competente in tutti i settori della sicurezza sociale, ad esclusione dell'assistenza sociale e degli assegni familiari (e della salute, riservate alcune disposizioni); la legislazione federale in materia comprende l'AVS con le prestazioni complementari, l'AI, la previdenza professionale, l' assicurazione contro gli infortuni, l'assicurazione malattia, le indennità di perdita di guadagno in caso di servizio militare o di protezione civile, l'assicurazione disoccupazione, gli assegni familiari per agricoltori, l'aiuto all'alloggio. Abbiamo sinteticamente schizzato, senza alcuna velleità di completezza, il cammino dalla carità privata e comunale all'assistenza pubblica e allo stato sociale del nostro cantone. Auguriamoci che la nostra legislazione sociale sappia rispondere alle nuove e gravi sfide presenti (crisi del welfare state, nuove forme di povertà, crisi economica e finanziaria, ...) in maniera coraggiosa.
1. R. CESCHI, Legislazione sociale. In Scuola Ticinese 102, dicembre 1982, p. 20. 2. Secondo Brenno Bertoni, autore nel 1894 di uno studio sulla pubblica assistenza nel Ticino, due terzi delle liti tra comuni riguardavano questo argomento. 3. La tendenza a "scaricare" soggetti considerati pericolosi per il buono stato delle finanze comunali sarà dura a morire, se si pensa che ancora nel 1944 (cfr. più avanti, nota 13) una commissione del Gran Consiglio parlerà della tendenza di alcuni comuni a favorire l'esodo verso i centri. 4. R. TALARICO, Il cantone malato. Igiene e sanità pubblica nel Ticino dell' Ottocento, Lugano 1988, p. 113. 5. R. CESCHI, Ottocento Ticinese, Locarno 1986. Alle pagine 137 138 parla di una mortalità attorno al 75 % nell'ospizio di Como. 6. Cfr. le interessanti osservazioni a proposito presenti in G. CAIROLI, Libri di scuola ticinesi 1880 1930, Bellinzona 1992, pp. 111 119. 7. R. CESCHI, Legislazione sociale, op.cit., p.20. 8. Quando il Consiglio Federale rifiutò di mantenere oltre questo regime d' eccezione molti industriali si trasferirono oltre confine. 9. Per un confronto sull'evoluzione e sullo sviluppo della legislazione sociale nei paesi europei vedi, per es. J. ALBER, Dalla carità allo stato sociale, Bologna 1987. 10. B. BERTONI, Della pubblica assistenza, Bellinzona 1894, p. L'autore proponeva tra l'altro una legge basata su un sistema di consorzi analogo a quello delle condotte mediche, idea interessante ma che non fu considerata. 11. Il Conto Reso del Consiglio di Stato 1901, alla p. 127 menziona il caso di comuni che si erano rifiutati di assistere bisognosi anche dopo un'intimazione da parte dell'autorità comunale; in questi anni del resto il governo esprimerà il timore che l'adozione della legge del 1903 provochi l'espulsione dei poveri prossimi al ventesimo anno di residenza. 12. È noto che il successo numerico (almeno nelle grandi città della Svizzera interna) dello sciopero generale del novembre 1918 fu dovuto a una reale situazione di disagio sociale e politico dei lavoratori; dei 250 300.000 partecipanti allo sciopero una buona parte di operai non era certamente né socialista né, soprattutto, comunista. 13. "La legislazione sociale nel Ticino nasceva così sotto la pressione della classe operaia organizzata, ma senza che i suoi dirigenti politici e sindacali vi avessero parte diretta"; così commenta a proposito GUIDO PEDROLI, Il socialismo nella Svizzera italiana, Milano 1963, p. 73. 14. Nel febbraio del 1931 l'iniziativa aveva prevalso per 7922 voti contro 7196, ma era poi stata respinta in marzo con 10698 voti contro 8144; per il rigetto era stato determinante il voto dei centri maggiori, nei quali verosimilmente l'assistenza era meglio organizzata. 15. Nello stesso 1931 il Ticino respinse malgrado l'invito del governo il progetto di legge sull'AVS (il cui principio era stato inserito nella costituzione sei anni prima), accolto solo da due cantoni e mezzo. 16. Stando al rapporto della Commissione speciale (Processi verbali del Gran Consiglio, sessione primaverile 1944, p .161) il Ticino sarebbe stato il primo cantone ad assumersi completamente gli oneri assistenziali. 17. Il già citato rapporto della Commissione speciale segnalava le molte difficoltà che la legge avrebbe risolto. Per molti comuni i carichi dell'assistenza costituivano il maggior bilancio; bastava la presenza di una famiglia affetta da malattie inguaribili (la demenza, la paralisi, ecc.) per compromettere definitivamente la situazione finanziaria di un comune. Si rilevavano poi le grandi differenze sia a livello di carichi che di soccorsi tra un comune e l'altro. 18. Anche a livello cantonale vi sono dei miglioramenti su singole questioni; si può citare almeno la legge sull'obbligatorietà dell' assicurazione contro la disoccupazione, approvata dal Gran Consiglio il 21.4.1943. 19. Da notare che le organizzazioni sindacali di ispirazione socialista negli anni '30 e ancora negli anni '40 tempo avevano mantenuto delle riserve sulla rivendicazione degli assegni familiari, tipica del movimento cristiano sociale. 20. Gli istituti hanno vissuto di lasciti, doni e della minuta beneficenza pubblica, potendo prestare per le persone bisognose cure prevalentemente sanitarie e non potendo sviluppare con mezzi idonei la possibilità di un recupero teso a una loro reintegrazione sociale, dice tra l'altro un documento del DOS del 29.1.1974 (Messaggio no. 1941). 21. "Lo Stato provvede, nel rispetto della dignità e dei diritti della persona, all'attribuzione delle prestazioni sociali stabilite dalla legislazione federale o cantonale e, in particolare, all'assistenza di quanti stanno per cadere o siano caduti nel bisogno" recita l'art. 1. della nuova legge. 22. Nell'accavallarsi dei bisogni sociali degli anni Sessanta una netta prevalenza è stata data al problema dei minorenni, e gli aiuti concreti per le persone anziane sono stati limitati; questa è una considerazione del messaggio 1868, del 15.11.1972, del Consiglio di Stato, che accompagna la nuova legge per il promovimento delle persone anziane. 50 ANNI DI STORIA DELLA CARITAS TICINO (1942 1992) di Alberto Gandolla 1. Gli inizi 1942 1948 1.1 Nascita e primo sviluppo di Caritas 1.1.1. La situazione sociale in Ticino allo scoppio della seconda guerra mondiale Il Ticino allo scoppio della seconda guerra mondiale si trova in una situazione di depressione economica e sociale. In questo senso, e più in generale, alcuni ricercatori hanno proposto per il periodo dalla metà del secolo scorso fino al 1945 il modello sintetico di un Ticino periferico ed emarginato. La crisi economica degli anni Trenta, in particolare, colpisce tardi il nostro cantone, ma con una violenza notevole, maggiore rispetto alla media degli altri cantoni svizzeri (1). La legislazione sociale è ancora estremamente lacunosa e i pochi progressi in questo settore sono dovuti soprattutto all'azione delle organizzazioni operaie e sindacali. Nel campo dell'assistenza ai poveri e ai bisognosi l'intervento pubblico, limitato e molto spesso insufficiente, è di competenza comunale; di fatto vi sono una miriade di disparati interventi privati, soprattutto per opera del mondo cattolico (2). Quando scoppia la guerra, all'inizio di settembre del 1939, le autorità federali e cantonali si vedono in dovere di istituire tutta una serie di decreti su varie problematiche sociali (è ancora vivo il ricordo dello sciopero generale del 1918 e del delicato primo dopoguerra...). Si può dire che è proprio per le costrizioni della guerra e nell'ambito dei pieni poteri del Consiglio Federale di questo difficile periodo che, pur in modo episodico e all'infuori di un piano globale, prende forma un primo corpo di legislazione sociale. Così la Confederazione prende delle misure per migliorare la condizione materiale dei mobilitati e delle loro famiglie, e il 20 dicembre 1939 il governo emana un decreto che istituisce un regime di allocazioni per perdita di guadagno per i militi attivi, primo inizio di un sistema di solidarietà nazionale. Altro esempio: il decreto federale del 10 ottobre 1941 sulla partecipazione della Confederazione ad azioni di soccorso; a partire da questo atto il Consiglio di Stato ticinese può organizzare degli aiuti per le famiglie bisognose. All'interno del Dipartimento federale dell'economia pubblica, all'inizio del conflitto, vengono poi creati degli uffici dell'economia di guerra, tra cui un ufficio di guerra per l'assistenza; la stessa cosa viene in seguito organizzata a livello cantonale (3). La guerra comporta ben presto un peggioramento della situazione sociale, e in particolare si assiste a un forte rincaro dei prezzi (4) non certo compensato dal corrispondente aumento dei salari. In questo difficile contesto all'interno del mondo cattolico particolarmente combattiva è l'Organizzazione Cristiano Sociale Ticinese, che alla fine degli anni Trenta sotto la spinta del suo giovane e dinamico segretario don Luigi Del Pietro diventa il primo sindacato del cantone. Tra le principali preoccupa zioni dei cristiano sociali in questo periodo vi sono l'organizzazione delle lavoratrici (5), la conclusione e l'estensione a tutte le professioni dei contratti collettivi di lavoro e la promozione della famiglia (6) (si può poi ricordare, fra le varie istituzioni dell'OCST, la fondazione della "Colonia estiva Leone XIII", avvenuta nel 1936). Molti sono poi gli interventi dei granconsiglieri del movimento sindacale (Francesco Masina, Giovanni De Giorgi e Agostino Bernasconi) in difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori. Da notare che durante la guerra, a riprova della difficile situazione sociale, non si verifica una pace sociale assoluta (la convenzione nazionale della metallurgia istituente la pace del lavoro era stata firmata già nell'estate del 1937) ma al contrario anche nel Ticino si verificano vari scioperi. Nel giugno 1941, per esempio, quando l'OCST festeggia con un congresso i 50 anni della Rerum Novarum, il sindacato è addirittura impegnato in quattro diversi scioperi (7). I cristiano sociali sono insomma i delegati "ufficiali" della diocesi a occuparsi della questione sociale, e lo fanno con particolare impegno (8). In mancanza di particolari analisi sulla povertà e sulla situazione sociale del Ticino in questo periodo, ecco un dato: oltre 4000 sono le domande di soccorso pervenute ai responsabili del Soccorso invernale per l'inverno 1943 44. Commentando questa ed altre indicazioni, don Del Pietro afferma inoltre che i 3/4 delle operaie non raggiungono i limiti di reddito per persone sole, che tutti gli operai con salari da fr 1,40 1,50 all'ora si trovano nel bisogno dal momento che hanno un figlio, che buona parte degli operai qualificati non raggiunge i limiti sufficienti di reddito dal momento che hanno due figli, e che la quasi totalità degli operai dell'industria privata non ha salari sufficienti per sfuggire al bisogno se ha 3 figli o più(9).
A livello nazionale nel campo assistenziale privato è poi presente la Charitas Centrale di Lucerna, sorta nel 1901, sostenuta dai vescovi svizzeri. A partire dal 1917 la Conferenza episcopale svizzera provvede tutti gli anni alla ripartizione su scala nazionale della colletta quaresimale per Charitas; la cifra totale raccolta si aggira normalmente sui 40.000 50.000 franchi. Questa somma è dunque piuttosto bassa, per cui si può constatare che questa colletta per molto tempo non ha un ruolo particolarmente significativo nella vita della Chiesa svizzera; inoltre si può avanzare l'ipotesi che le varie diocesi stabiliscono l'entità del contributo da versare alla cassa centrale più sulla base delle loro disponibilità finanziarie che a partire dall'esito della colletta stessa (10). In ogni caso per la Charitas centrale la possibilità di reale intervento locale è ridotta, soprattutto dove non esistono ancora le Charitas regionali, mentre invece le persone che si trovano in una situazione di bisogno aumentano all'inizio del conflitto bellico. Nel corso del 1941 alcuni responsabili del movimento cattolico ticinese sentono arrivato il momento di costituire una vera opera diocesana di carità. I motivi in proposito sono diversi e gravi: il dilagare della miseria, la fioritura di iniziative laiche (Croce Rossa, Soccorso Invernale Svizzero, Pro Juventute, Pro Infirmis, Pro Senectute,...), l'invadenza della Commissione cantonale di coordinamento delle opere assistenziali (istituita con risoluzione governativa il 24 ottobre 1939 e gestita soprattutto dai socialisti Canevascini e Patocchi), la necessità di coordinare le istituzioni di carità cattoliche (11). Interessanti quindi le motivazioni, di carattere sociale, religioso e anche politico: i cattolici rischiano di essere emarginati da una serie di importanti iniziative assistenziali, occorre dunque un ufficio diocesano per una migliore presenza nel campo caritativo e per poter costituirsi come un valido interlocutore di fronte alle autorità politiche. Il modello che viene scelto per questo nuovo ente è quello delle Charitas diocesane, emanazione della Centrale di carità Charitas di Lucerna. Dopo una breve preparazione, il vescovo Angelo Jelmini annuncia in una circolare dell'11 dicembre 1941 la creazione di Charitas, presentata come un "Ufficio diocesano centrale delle nostre opere assistenziali e caritative esistenti in Diocesi. Esso avrà anche lo scopo di tenersi in contatto colle diverse istituzioni di beneficenza del paese e di organizzare, nel miglior modo, l'opera di assistenza e di carità, che, in questi tempi di strettezze, si rende sempre più necessaria" (12). All'inizio di gennaio del 1942 Charitas diocesana apre il suo ufficio a Lugano in via Nassa 66, la casa vescovile. Si tratta di un inizio abbastanza in sordina: l'ufficio è aperto tutte le mattine salvo il venerdì, la pubblicità è molto scarsa, il personale ridottissimo e volontario. Primo direttore dell'ente diocesano è Francesco Masina, persona molto nota, generosa e impegnata nel campo sociale (13). Malgrado questo modesto avvio comincia ben presto un'attività notevole, perché i poveri e i bisognosi sono purtroppo numerosi. È in occasione della festa di Pentecoste del 1942 e con la relativa colletta della carità che vi è una sorta di presentazione in tutto il cantone del nuovo ufficio diocesano. Ecco in breve come funziona Charitas i primi tempi: si accolgono le persone bisognose, o si controllano le segnalazioni; vi è poi un accertamento, nel limite del possibile, delle reali condizioni di vita dell'assistito, si controlla se ha diritto a prestazioni pubbliche, e se del caso l'ufficio dà del suo (indumenti, buoni per alimenti, mobili, denaro) o aiuta in pratiche concrete (collocamento in un posto di lavoro, ecc.) (14). Oltre al modesto ma prezioso soccorso materiale il nuovo ente diocesano persegue anche l'aiuto morale, l'assistenza spirituale, il consiglio per una determinata situazione delicata, rimanendo chiaro che al bisognoso non si chiede certo l'appartenenza politica o religiosa. Ecco un esempio di intervento: nell'autunno del 1942 giungono in Ticino molti bambini francesi, scappati dalla guerra; Charitas oltre a vari aiuti concreti consegna a ogni ragazzo anche un libretto di preghiera e una Storia Sacra (15). All'ente viene poi affidato anche il segretariato dell'Associazione famiglie numerose, istituita dalla Lega Uomini Cattolici nella primavera del 1940. Interessante anche il tentativo di far nascere delle Charitas parrocchiali, coinvolgendo i sacerdoti e alcuni collaboratori in attività caritative locali. Stilando il primo rapporto annuale, Masina può riferire al vescovo mons. Jelmini, tra l'altro, di aver distribuito ad oltre 1000 persone bisognose complessivamente 28.683,10 fr (16). Nella primavera del 1943, dopo essere stata riconosciuta dalla Caritas Centrale svizzera, vi è un cambiamento di nome: l'ente perde l'"h" diventando Caritas, centrale diocesana di carità. Nel luglio del '43 vi è poi un interessamento di Masina presso il vescovo, su iniziativa della signorina Beatrice Motta di Pro Infirmis, riguardo la necessità di creare un istituto apposito di rieducazione per "giovani difficili, abbandonate o di cattiva condotta". Il progetto rimane nel cassetto, anche perché due mesi dopo, l'improvvisa emergenza rifugiati fa nascere una nuova e impellente priorità; da ricordare che le minorenni problematiche in quegli anni finivano in istituti tipo il Von Mentlen di Bellinzona o il San Gerolamo Emiliani di Faido. Nel limite del possibile già in questi primi anni di esistenza Caritas organizza poi di tanto in tanto anche qualche conferenza pubblica su tematiche particolari: sicuramente interessante, per esempio, quella indetta il 17 dicembre 1944 sul tema "Gurs, campo di concentramento e di deportazione in Francia" tenuta dal testimonio svizzero padre Albert Gross di Friborgo.
Nell'estate del 1943 la situazione politica e militare della vicina Italia precipita (10 luglio sbarco alleato in Sicilia, 25 luglio dimissioni e arresto di Mussolini, 8 settembre armistizio fra Italia e alleati, poi fuga del re, sbandamento dell'esercito italiano, occupazione della penisola da parte delle truppe tedesche, ecc.). Per il Ticino la conseguenza importante di questi avvenimenti è il forte afflusso di migliaia di profughi italiani, fra cui moltissimi ebrei, nel nostro cantone. È noto come la Confederazione fino a tutto il 1942 abbia mantenuto un atteggiamento molto restrittivo nei confronti dei rifugiati (17); a partire dall'estate del 1943, però, con il miglioramento della situazione bellica internazionale nel campo degli alleati, vengono adottati dei criteri più aperti all'accoglienza degli ebrei e degli altri profughi. L'afflusso dei numerosissimi antifascisti nel settembre del '43 prende comunque di sorpresa le autorità ticinesi e di Berna, che devono organizzare una serie di campi di raccolta per i civili e i militari (18). Si sviluppa una gara di solidarietà: varie associazioni e partiti politici si impegnano ad assistere i profughi, specialmente quelli vicini alla propria area politica religiosa. In particolare molto attivo si dimostra il Comitato ticinese per l'aiuto ai rifugiati, che lancia una sottoscrizione e una raccolta di materiale (presidente di questo comitato interpartitico è Adolfo Janner, segretario Francesco Masina; tra i membri del comitato anche don Leber, don Del Pietro, Guglielmo Canevascini, Fulvio Bolla, ecc.). Si muovono anche i vescovi svizzeri, che il 26 settembre indicono una colletta nazionale per gli internati cattolici. Anche l'appena nata Caritas diocesana, incoraggiata dal
vescovo Jelmini (che dà l'esempio impegnandosi generosamente di persona
a soccorrere molte persone, indipendentemente dalla loro confessione e credo
politico) (19) comincia dunque una nuova attività: l'aiuto ai rifugiati.
Inizialmente l'ente diocesano provvede a portare i primi soccorsi e stabilisce
in una dozzina di posti di confine delle speciali stazioni per una prima assistenza
ai profughi. Il governo costituisce in seguito dei campi di disinfezione, quarantena,
di smistamento e di lavoro, e fa attrezzare come ricoveri per internati anche
molti alberghi, case di riposo, orfanotrofi. Caritas riceve ben presto anche
il segretariato del Comitato ticinese per i rifugiati, presieduto da Adolfo
Janner. L'aiuto materiale consiste soprattutto nella raccolta e nella spedizione
di vestiti (le Dame della Misericordia si occupano della pulizia e del rammendo
dei capi selezionati), in un piccolo sussidio mensile, nella distribuzione di
medicinali, ecc. Grazie anche alla mediazione dell'Ufficio Assistenza Internati
Italiani, aperto nell'ottobre del 1943 negli uffici della Caritas centrale con
lo scopo di dare voce alla presenza cristiana nei campi di lavoro attraverso
proposte culturali e religiose, Caritas Ticino fornisce ai rifugiati cattolici
pure un'assistenza morale e spirituale con il dono di libri religiosi, di rosari,
del Giornale del Popolo e, in occasione del Natale, di speciali pacchi regalo
e di presepi. Gli ultimi due anni di guerra sono dunque caratterizzati da una grande impennata di richieste di aiuto; questa situazione porta al graduale aumento delle uscite e di conseguenza alla necessità di trovare nuove e maggiori fonti di entrata. Pur non rinunciando all'attività in favore dei poveri della diocesi, la stessa è in parte condizionata dall'emergenza rifugiati, infatti una fetta cospicua dei mezzi sia finanziari che materiali è assorbita dalle varie azioni in favore dei profughi. A partire dal 1943 per far fronte alla complessità delle operazioni viene creata una doppia contabilità che registra in modo separato le voci concernenti le opere in favore dei poveri del cantone e quelle in favore dei rifugiati.
1.2.1. I preparativi Nell'estate del 1944 le forze nazi fasciste sono ormai in ritirata dappertutto, pur con una difesa disperata, e l'esito finale della guerra è ormai certo. I responsabili di Caritas centrale nel mese di luglio cominciano a stabilire delle linee direttive per il dopoguerra, comprendente degli aiuti materiali, culturali e spirituali per le popolazioni delle nazioni confinanti con la Svizzera colpite dalla vicenda bellica. Caritas centrale decide di delegare alle Caritas diocesane l'aiuto alle popolazioni delle nazioni circostanti; alla Caritas diocesana ticinese spettano così gli aiuti per la popolazione italiana. Le motivazioni di questo aiuto sono prima di tutto umanitarie, volendo esprimere un tangibile soccorso alle popolazioni vittime della guerra, religiose (solidarietà ai correligionari cattolici) e anche politiche: in Italia, per esempio, le varie organizzazioni socialiste e comuniste stanno riprendendo forza e si vuole contrastarle anche sul piano assistenziale. Nel frattempo la Confederazione, per iniziativa del consigliere federale Wetter, decide di stanziare un credito di 100 milioni di franchi per un Dono svizzero per le popolazioni bisognose; lo Stato metterà a disposizione alle diverse associazioni caritative del denaro e delle derrate alimentari per la loro azione, che verrà naturalmente controllata. In Ticino i responsabili di Caritas si mettono al lavoro e Masina il 17 novembre presenta al vescovo un progetto (24) dettagliato per la costituzione di una sezione "Caritas aiuto ticinese all'alta Italia" (in seguito si usa anche la dizione "Caritas Soccorso Italia Settentrionale"). Interessanti i quattro motivi espliciti per tale azione: la necessità di agire in quanto cattolici; la necessità di curare il disagio materiale e morale; il dover controbattere l'intenso lavoro del Soccorso operaio svizzero, socialista; il debito secolare di riconoscenza che il Ticino cattolico ha verso le diocesi di Como e Milano. Tutta l'azione, continua il documento, potrà svilupparsi nel quadro del costituendo Dono svizzero alle vittime della guerra, che sussidierà le iniziative private, inoltre sono da prevedersi in Ticino delle collette particolari e delle raccolte di vestiti, medicinali, ecc. Poco dopo, l'8 dicembre, si costituisce intanto il Centro di Azione Ticinese per l'Alta Italia (CATAI), un ente che riunisce associazioni di diversa estrazione e tra i cui dirigenti troviamo gli onorevoli G. Lepori e G. Canevascini e anche G. Calgari e S. Molo, con lo scopo di collaborare alla futura azione del Dono svizzero. Per dare maggiore peso alle proprie iniziative, Caritas aderisce subito al CATAI, dando vita ad un interessante rapporto di collaborazione (che in taluni frangenti darà pure origine ad un clima di competizione per aggiudicarsi il primato di alcuni progetti). Siamo ormai intanto ai preparativi: i primi mesi del 1945, parallelamente all'avvicinarsi della sconfitta definitiva dei nazi fascisti, le varie organizzazioni assistenziali mettono a punto i loro piani concreti di aiuto; la sezione Caritas aiuto ticinese all'alta Italia si costituisce ufficialmente il 18 gennaio. Da notare che i responsabili di Caritas per lo meno dall'autunno precedente sono in costante contatto con il Cardinale di Milano Schuster in vista di un aiuto, e a più riprese l'illustre porporato scrive al vescovo ticinese illustrando la necessità di un soccorso vista la tragica situazione del popolo milanese. Due esempi: il 1. febbraio 1945 l'arcivescovo Schuster scrive al vescovo Jelmini "...qui i mezzi di trasporto quasi non esistono più... l'approvvigionamento nelle grandi città è diventato quasi irrisorio, e si prova fame, freddo, miseria, per non dire da parte di molti, disperazione"; il 17 febbraio il porporato milanese inizia una sua nuova lettera dicendo "Eccellenza, le Autorità mi avvertono che si delinea imminente e necessaria una grande fame ...". Intanto in gennaio Masina chiede ufficialmente al Dono svizzero per le vittime di guerra il necessario appoggio e contributo, dichiarando di sottostare alle direttive emanate in proposito, mentre i vescovi svizzeri con una dichiarazione del 28 febbraio sottoscrivono e appoggiano i vari progetti della Caritas, invitando a sostenere le diverse collette organizzate a proposito. Il 1. marzo 1945 vi è poi un importante appello di Caritas sezione aiuto alta Italia ai parroci, alle istituzioni cattoliche e alle associazioni di Azione Cattolica a voler collaborare concretamente all'azione; il documento (25) è firmato dal vescovo Jelmini, da Janner, Masina, da mons. Cattori e da don Leber, don Del Pietro, A. Bottani e A. Bernasconi. Caritas pubblica anche delle indicazioni precise sulle possibilità di aiuto concreto: raccolta di denaro, vestiti, oggetti utili, derrate alimentari, preparazione di casse standard, distribuzione di salvadanai appositi, assunzione di padrinati, organizzazione di recite di beneficenza, costituzioni di comitati locali, eccetera; inoltre sono anche organizzati dei corsi di formazione per il personale volontario che si impegnerà ad andare a lavorare per conto di Caritas in Italia. Contemporaneamente anche l'OCST partecipa al progetto creando l'apposita istituzione "Solidarietà operaia cristiana, per i lavoratori vittime della guerra". Il mondo cattolico ticinese impegnato nel sociale (26) si lancia così in un'impresa caritativa fuori dai nostri confini di notevole proporzioni, con un grande slancio di solidarietà. Alla fine di marzo inizio di aprile Caritas elabora, per prima, un piano dettagliato di aiuto alla città di Milano e il progetto è spedito alla centrale del Dono svizzero per approvazione; quest'ultima arriva qualche settimana più tardi.
La guerra finalmente finisce alla fine di aprile. Dopo molti contatti e lunghi e laboriosi preparativi, non privi anche di qualche polemica (27), si passa all'azione concreta. L'11 maggio ha luogo a Lucerna un incontro tra i responsabili del Dono svizzero e i responsabili delle varie associazioni di aiuto (Caritas Ticino, CATAI, Soccorso Operaio svizzero, Croce Rossa, Comitato svizzero per l'aiuto ai bambini italiani, ...) e si stabiliscono le linee direttive e una certa divisione dei compiti. A Caritas viene affidato soprattutto l'aiuto ai bambini sotto i 3 anni e alle mamme. Dopo aver ottenuto un regolare permesso da parte delle truppe alleate (28), dal 22 al 26 giugno 1945 il vescovo Jelmini e il consigliere nazionale Janner si recano a Milano e a Genova per constatare personalmente la situazione, prendere una serie di contatti con personalità civili e religiose (in particolare i rispettivi cardinali Schuster e Boetto) e organizzare alcuni primi soccorsi (29). Il grave quadro entro cui avviene il soccorso alle popolazioni del nord Italia è quello di una popolazione alle prese con problemi di malattie, mancanza di cibo e vestiti, molte case distrutte dai bombardamenti, e di un momento sociale e politico molto teso con i partiti socialisti e comunisti in piena attività e con grande capacità di mobilitazione (30). Il primo trasporto di merce del Dono svizzero gestito da Caritas ai bambini di Milano avviene il 27 luglio: i 954 colli dal peso di oltre 38000 kg e dal valore di 90000 fr vengono immagazzinati in attesa della distribuzione. Finalmente il 10 settembre i primi volontari di Caritas (il capo missione Emanuele Bianchetti già noto per il suo generoso impegno nella Conferenza di San Vincenzo di Locarno con il fratello Piero, la signora Cattaneo e le signorine Ruffoni, Eichmann, Borella e Taddei; in seguito si aggiungeranno molti altri volontari) ricevono il permesso di iniziare l'azione, la cui sede è situata in via San Tommaso 4, presso la Conferenza milanese di San Vincenzo. Il soccorso si svolge attraverso l'aiuto a 17 nidi dell'Opera Maternità e infanzia, a 17 dispensari gestiti dalla Conferenza di San Vincenzo e a vari altri istituti di assistenza, per un totale di circa 7500 bambini e madri assistiti. A Milano la prima fase di aiuti consiste dunque nella distribuzione di latte e alimenti vari, ma in seguito si passa anche alla realizzazione della costruzione di una quarantina di baracche per accogliere circa 2500 sfollati. Nel frattempo tutta l'azione del Dono svizzero si allarga anche a numerose altre grandi città italiane. Caritas può iniziare così la sua attività di soccorso anche a Varese (31) e poi a Bergamo, Verona, Brescia, Treviso, Lecco, Verbania, Udine, Belluno. Si tratta soprattutto di aiuto ai bambini e alle madri; naturalmente l'ente caritativo diocesano ticinese deve far ricorso anche a personale del posto, e spesso collaborano anche confederati che risiedono nelle località assistite. Da notare che nell'autunno del 1945 la Caritas diocesana ticinese partecipa pure a un'azione in favore dei bambini di Cassino, promossa dalla Caritas centrale di Lucerna; su proposta del vescovo Jelmini si decide di mantenere per un anno cinquanta piccoli orfani, ospitati da private famiglie. Oltre ai contributi del Dono Svizzero già evidenziati in precedenza, Caritas può disporre di mezzi propri frutto della generosità dei ticinesi. Inoltre fin dalla sua costituzione alla fine del 1944 Caritas aiuto ticinese all'alta Italia può avvalersi del completo appoggio di Caritas centrale, che a più riprese invia a Lugano sia denaro che materiale. Tra i sovvenzionatori dell'Ufficio diocesano di Carità si deve annoverare in particolare monsignor Jelmini, che non esita ad attingere alle esigue risorse della Amministrazione Apostolica di Lugano e interviene personalmente per sostenere diversi progetti assistenziali, soprattutto quelli in favore delle vittime più giovani. Malgrado questo l'azione di Milano (32), per mancanza di mezzi finanziari, deve terminare la sua opera già alla fine del giugno 1946, poi finiscono le altre, quasi tutte alla fine di febbraio del 1947; l'ultima a chiudere, alla fine del settembre successivo, è l'assistenza alla casa per ragazze madri a Varese. Francesco Masina il 1. dicembre 1947 fa un rapporto finale di tutta l'azione per il vescovo Jelmini, da cui ricaviamo che si sono soccorse in totale ben 220.346 persone (per un confronto statistico: in questo momento il Ticino conta un po' meno di 180.000 persone...), con l'intervento di 46 volontari e collaboratori diretti alle dipendenze di Caritas (33). "L'elencazione di tutte queste nostre azioni di soccorso in Italia", scrive Masina,"può riempirci di legittima soddisfazione, in quanto ci dà la persuasione di aver fatto tutto il nostro possibile per soccorrere tante povere vittime della guerra...Soddisfazione che deriva dalla persuasione di aver potuto esercitare della carità, non solo materiale, (...), ma anche cristiana e morale...". E in effetti l'azione di aiuto alla popolazione del nord Italia del 1945 1947 compiuta da Caritas e da alcune altre associazioni caritative è sicuramente una delle oggi meno conosciute ma più significative iniziative di vera solidarietà svolte dal Ticino. A testimonianza della gratitudine dei milanesi verso mons. Jelmini, quest'ultimo all'inizio di febbraio del 1946 viene invitato al Palazzo comunale di Milano per una pubblica manifestazione di ringraziamento. Da notare, per concludere questo capitoletto, che Caritas alla fine della guerra svolge anche un aiuto ai prigionieri tedeschi internati nel nord Italia, organizzando un efficace servizio postale per far arrivare in Germania la corrispondenza dei prigionieri e distribuendo parecchie migliaia di libri in lingua tedesca giunti in Ticino grazie all'interessamento di Caritas centrale.
Con la fine della seconda guerra mondiale e soprattutto dopo la conclusione della grande azione di soccorso nell'Italia settentrionale finisce per Caritas un periodo caratterizzato da eventi eccezionali e comincia il difficile ritorno alla normalità. Difficile per vari motivi, ma soprattutto per quello finanzia rio: senza più le risorse del Dono svizzero, Caritas può operare solo con i mezzi costituiti dalle offerte del popolo ticinese, pure provato dal conflitto e che comunque si è dimostrato generosamente solidale con le molte collette per i rifugiati e le vittime di guerra. È anche molto delicata la situazione politica: scoppio della guerra fredda sul piano internazionale, inizio dell'"intesa di sinistra" fra socialisti e liberali nel nostro cantone, con i cattolici conservatori in posizione di minoranza, grande tensione anche nella vicina Italia fra PCI e PSI da una parte e DC dall'altra (34). I campi di internamento per i rifugiati, intanto, rimangono aperti ancora alcuni mesi dopo la fine del conflitto, e per conto di Caritas è il sacerdote André Jassedé che segue le varie decine di profughi cattolici che ancora vi si trovano (35). "Il ritorno alla normalità", scrive Masina al vescovo in un rapporto del 20.3.1947, "non ha saputo risolvere, malgrado le diverse iniziative statali per azioni di soccorso, le condizioni di disagio (...). La Pubblica Assistenza Cantonale, anche nella sua nuova forma statale non sa e non può risolvere tutti questi casi, per cui la nostra Caritas si è dimostrata ancora una volta vera istituzione provvidenziale". La questione finanziaria diventa grave e condiziona un po' tutta l'attività di Caritas; il personale si riduce al direttore segreta rio Masina e a due o tre collaboratori. Fra le poche entrate fisse annuali vi è la classica colletta di Pentecoste; il 6 maggio 1947, per esempio, il vescovo Jelmini lancia un appello in cui raccomanda vivamente di aiutare la Caritas diocesana, che per l'occasione è autorizzata a mettere in vendita dei francobolli speciali con l'effige di San Nicolao della Flüe, canonizzato proprio il 15 maggio successivo. Le collette possono causare anche qualche problema fra la Caritas diocesana e quella centrale, infatti è quest'ultima che riceve le somme e in accordo con i vescovi le ridistribuisce poi agli enti diocesani; qualche volta questo modo di procedere può generare delle incomprensioni (36). Per la colletta di Pentecoste del 1948 Caritas chiede aiuto alle associazioni dell'Azione Cattolica. "Dopo aver fatto tanto per le vittime della guerra di altri paesi, è lecito ritenere e sperare che il nostro popolo abbia a compiere un gesto di carità e di solidarietà in confronto di tanti nostri vecchi, bambini, ammalati che si trovano in un bisogno reale, tante volte urgente e nascosto", dice tra l'altro una lettera del 5.5.1948, in cui si domanda ai volontari di occuparsi della vendita di un mughetto, simbolo della carità operante, di raccogliere vestiti e di organizzare tombole o recite di beneficenza. Un'altra questione delicata è quella di una riorganizzazione di Caritas, di cui si sente ormai il bisogno. Il 20 marzo 1947 Masina presenta a mons. Jelmini un progetto per un riassetto giuridico e organico dell'ente: Caritas dovrebbe venir eretta a Fondazione diocesana e dovrebbe essere amministrata da un segretariato alle dirette dipendenze del vescovo, da un consiglio Caritas e da un grande comitato cantonale, organo di collegamento con le altre istituzioni cattoliche assistenziali. Un altro progetto di riorganizzazione, ancora più dettagliato, viene elaborato nel successivo mese di settembre; queste varie proposte non vanno però in porto, e Caritas rimane un ufficio diocesano dotato di una struttura semplicissima e dipendente finanziariamente dalla Provvidenza. Da notare anche che nel dopoguerra si ricostituisce Caritas Internazionalis. Masina partecipa alla riunione internazionale di Lucerna del 10 e 11 marzo 1948, dove presso don Crivelli si stabilisce il segretariato generale. Bisogna ricordare, infine, l'esistenza di una serie di Caritas parrocchiali; l'annuario della Diocesi di Lugano del 1948 ne conta ben diciassette.
2.1. Un nuovo direttore, don Cortella, per problemi nuovi e vecchi Con una lettera vescovile letta nelle chiese il 26 dicembre 1948, dopo un dovuto e riconoscente ringraziamento a Masina, viene presentato il nuovo direttore di Caritas: don Corrado Cortella. Dai (pochi) documenti a disposizione non risulta chiaramente il perché del cambiamento di direzione (37). Forse semplicemente perché Masina, non più in verde età, è più che mai molto impegnato nell'OCST e nella politica, e d'altra parte il vescovo nominando come direttore a "tempo pieno" dell'ente diocesano un sacerdote può vedere anche un'opportunità per facilitare e approfondire il lavoro di Caritas nelle parrocchie (38). Questo giovane e dinamico sacerdote non è certo uno sconosciuto per il mondo di Caritas, pur non avendovi mai lavorato ufficialmente. Nato nel 1910, Cortella viene consacrato sacerdote nel 1937. Per qualche anno parroco a Pollegio e in seguito a Porza, viene poi chiamato dal vescovo Jelmini, nell'ottobre del 1942, a fare l'economo della Curia. In qualità di cappellano militare durante la guerra si occupa anche dell'assistenza religiosa dei profughi finiti nei campi per rifugiati dipendenti dalle autorità militari; è in questo modo che entra in contatto anche con l'attività di Caritas (39). È pure aiutante del vescovo, e come tale lo accompagna varie volte nei viaggi a Milano per controllare l'azione di aiuto in corso. Nel 1947 è nominato segretario della Conferenza episcopale svizzera, il cui decano è appunto il vescovo ticinese (questo incarico durerà ben tredici anni). Alla fine del 1948 don Cortella accetta la proposta di monsignor Jelmini e quindi inizia il suo lavoro di direttore dell'ente caritativo diocesano il primo gennaio successivo. Non si può dire che il nuovo compito parta nei migliore dei modi, sotto l'aspetto materiale: personale fisso ridottissimo (don Cortella, la signorina Banfi, una segretaria), sede modesta (dalla casa dell'Azione Cattolica in via Nassa si passa al seminterrato del palazzo vescovile; dopo qualche anno nuovo spostamento in via Stazione, presso la Casa dell'Opera Chierici poveri), finanziamento lasciato alla generosità del vescovo e delle offerte del popolo ticinese (per esempio tramite la colletta sui giornali in occasione della festa dei morti in novembre)... Eppure don Cortella inizia la sua attività con un'enorme fiducia nella Provvidenza, e pur con un lavoro umile e quasi sempre nascosto comincia a dare un'impronta veramente caratteristica alla Caritas diocesana. Sul Monitore Ecclesiastico del mese di maggio del 1950 don Cortella presenta il proprio ente, delineando una sorta di programma. Tre le ragioni di esistenza di Caritas, Centrale Ticinese di Carità: perché i poveri ci sono; per essere presenti dove nessun'altra istituzione locale o specializzata può arrivare; per essere un continuo richiamo ai cattolici al dovere della carità. Poi descrive il campo di attività, tra cui l'assistenza diretta ai bisognosi, il collegamento con le altre istituzioni cattoliche di carità, la creazione di Caritas parrocchiali, la collaborazione con le istituzioni statali, parastatali e private neutre. Vi si legge anche che è in corso di costituzione l'Associazione Ticinese di Carità, che raccoglie i benefattori e collaboratori che si impegnano a versare un contributo annuo di fr 100 (questa associazione, purtroppo, stenterà a costituirsi, e per molti anni sarà un sogno ricorrente...). Nel giugno del 1950 don Cortella entra nel comitato esecutivo della Caritas centrale di Lucerna, iniziando in questo modo anche un prezioso lavoro di contatti a livello nazionale.
Come già detto le poche entrate finanziarie fisse determinano in buona parte le possibilità dei reali interventi caritativi negli anni '50; come dice don Cortella stesso "Caritas, l'unica opera diocesana fatta solo per dare, è l'unica che non ha la minima entrata base regolare e sicura"(40). Piccolo esempio: nel 1950 il vescovo decide che l'introito dell'annuale colletta Caritas di Pentecoste debba essere destinato alla Società di Previdenza fra il clero; don Cortella deve così accontentarsi, in quell'occasione, del ricavato della vendita nelle parrocchie di apposite tavolette di cioccolata. Altre piccole forme di finanziamento di questo periodo, oltre alle varie offerte, sono la vendita di francobolli e la partecipazione alla Fiera svizzera di Lugano con relativo ricavo della vendita di piccoli oggetti. Una piccola pubblicità, oltre ad alcuni articoli che appaiono con una certa regolarità sul Giornale del Popolo, avviene grazie alla rivista Messaggero Ticinese, che ospita un regolare "Angolo della carità" del direttore di Caritas, in cui segnala piccoli bisogni concreti e chiede qualche aiuto preciso. Dal 23 luglio al 20 agosto 1951 Caritas organizza a Bedigliora una prima piccola colonia estiva gratuita per una ventina di bambini particolarmente bisognosi (41). L'esperienza, che dato il numero ridotto di partecipanti favorisce particolarmente la cura dei rapporti tra le persone, ha successo e quindi prosegue negli anni successivi, svolgendosi a Vico Morcote nel 1952, a Viglio dal 1953 al 1955 (nella grande casa dell'ingegner Virginio Triaca), quindi a Signora (si tratta in particolare di una vacanza di un mese per dodici piccole inferme), Cavergno, ancora a Bedigliora, ecc. Da notare che dal 1953 queste colonie sono aiutate finanziariamente dal Lions Club Lugano, che fornisce così una preziosa collaborazione che proseguirà nel tempo (42). L'interessante esperienza delle colonie dura una dozzina d'anni e viene sospesa quando diventa troppo difficile trovare il personale preparato necessario; da notare che tutto il personale delle colonie in questi anni ha sempre svolto il lavoro sotto forma di volontariato. Altra attività caritativa che inizia in maniera molto semplice in questi primi anni Cinquanta è una presenza al vecchio penitenziario cantonale di Lugano, ancora privo (sembra incredibile...) di vere strutture di assistenza sociale. Grazie al direttore del carcere avv. Sergio Jacomella e al cappellano padre Francesco da Melano, don Cortella e poi qualche altro amico di Caritas possono così incontrare dei detenuti e mantenere dei rapporti con alcune loro famiglie, organizzare delle feste e dei pranzi in comune a Natale (la prima volta avviene nel 1952) (43) o in altre circostanze, fare delle tombole e seguire qualche richiesta di patronato penale. Oltre a queste attività e ad alcuni progetti che non potranno essere realizzati (la creazione di una casa di rieducazione per ragazzi nell'obbligo scolastico, una casa per piccoli andicappati, ecc.) rimangono poi i molti incontri con tante persone nel bisogno materiale e morale, con chi vuole anche solo un consiglio o una parola buona, o con chi vuole uscire da una situazione di solitudine; questa umile ma importantissima assistenza è parte costitutiva fondamentale di Caritas. Anche la possibilità di coordinare veramente le varie iniziative cattoliche assistenziali è scarsa. Qualche collaborazione ha comunque luogo, sotto la spinta della necessità. Per esempio nel 1951, anno di calamità naturali, i vari enti pubblici e privati devono impegnarsi in una vasta azione di soccorso. Caritas riesce a fatica a soddisfare tutte le richieste di aiuto, e allora affida temporaneamente alla Dame della Carità di Lugano il compito di provvedere ai poveri della città (44).
Il Ticino negli anni '50 vive un momento di transizione: la tradizionale società contadina sta ormai scomparendo e si entra in una stagione di rapido sviluppo e di radicali cambiamenti economici e demografici basti pensare alla forte corrente di immigrazione di lavoratori stranieri che comincia proprio in questa epoca anche se a livello sociale vi è piuttosto una sorta di stabilità, se non proprio di immobilismo (il divario tra ricchi e poveri non accenna a diminuire, anzi, mentre si accentuano in particolare le disparità fra i distretti o le regioni) (45). In assenza di ricerche storiche particolari, per tratteggiare la situazione sociale del Ticino negli anni Cinquanta possiamo fare riferimento a una interessante breve inchiesta radiofonica svolta nel 1955 dalla nostra RSI, sul tema "Il Ticino senza maschera. Noi ticinesi stiamo poi così bene?". Il quadro che ne risulta mostra una realtà in grande evoluzione, contradditoria, con una grande differenza fra le (poche) città in espansione e le zone di valle, in rapido decadimento. Per esempio il reddito medio annuo cantonale citato per persona risulta di 1850 franchi, ma a Lugano è di 2600 franchi, in val Blenio di 1002 franchi e in val Colla è di 959 franchi (il minimo assoluto è di Sobrio, in Leventina, con 519 franchi per abitante). Risulta così una situazione di notevoli squilibri sociali regionali. Viene poi citata l'inchiesta del 1950 del Dipartimento di Igiene, da cui risulta, tra l'altro, che su 246 comuni solo 60 dispongono di un efficiente servizio di fognatura, e che in particolare moltissime sono ancora le abitazioni in cui occorrono urgenti opere di sistemazione (molte case in campagna sono sempre prive di servizi igienici e di acqua corrente, e un certo numero anche di energia elettrica...): se nel 1950 il Dipartimento stimava in 125 milioni di franchi il costo di risanamento delle abitazioni rurali, nel 1955 la cifra è ormai da triplicare (46). Nel Ticino vi è dunque una fase di arretratezza ma anche di grande cambiamento dell'economia negli anni '50; a livello nazionale intanto è iniziato il periodo della costruzione dello Stato sociale, mentre sul piano cantonale si è in ritardo ed è proprio solo sul finire del decennio che lo stato ticinese comincerà a programmare e a costruire i suoi primi servizi sociali. Pur ammettendo che la percezione dei fenomeni economici sia stata generalmente più lenta dello sviluppo dei cambiamenti stessi, non si può non percepire una sensazione di sfasamento tra il quadro appena abbozzato e la dimensione ristretta in cui opera la Caritas diocesana ticinese in questi anni. Caritas, assieme agli altri enti assistenziali, non ha mai certo preteso di risolvere il problema della povertà nel nostro cantone, ma semplicemente, con i suoi pochi mezzi, offre un piccolo ma prezioso aiuto alle persone nel bisogno che incontra ascoltandole e consigliandole, concedendo buoni per commestibili, medicinali e vestiario, sbrigando pratiche, cercando lavoro ai disoccupati, donando sussidi, ecc.; spesso don Cortella definisce il proprio ente una "centrale di pronto soccorso" (47). A posteriori possiamo però porci qualche interrogativo. Per esempio: perché, malgrado vari richiami del direttore di Caritas, non si procede a una sua riorganizzazione, a un potenziamento del personale? Il motivo principale è sicuramente quello finanziario; si ha anche l'impressione, che andrebbe verificata con un'analisi più puntuale, che il vescovo in questo periodo non abbia capito fino in fondo l'importanza di poter disporre di un ente assistenziale diocesano veramente efficiente. Caritas Ticino era nata poco prima dello sviluppo dello Stato sociale; in seguito i dirigenti del mondo cattolico cantonale probabilmente non hanno colto subito l'importanza e la novità dell'affermarsi del Welfare State anche nella nostra realtà, con tutti i cambiamenti che ne sarebbero derivati (da notare poi che questa costruzione dello Stato sociale nel dopoguerra coincide anche con una crescente scristianizzazione e laicizzazione della nostra società). Forse poi nuoce anche la "divisione del lavoro" molto spinta all'interno della diocesi luganese: don Del Pietro responsabile dell'azione sociale sindacale, don Leber responsabile dell'Azione Cattolica e del Giornale del Popolo, don Cortella responsabile dell'aspetto caritativo; la collaborazione fra questi vari settori non sembra essere stata sempre reale e operativa (48). Questi interrogativi naturalmente nulla tolgono alla profondità e alla verità dell'esperienza umana e religiosa che i collaboratori di Caritas portano avanti in questo secondo dopoguerra.
3.1. Nuovi bisogni sociali, nuove risposte Alla fine degli anni '50 e negli anni '60 lo sviluppo economico del Ticino è notevole, anche se ben sappiamo che questa entrata nella "modernità" non avviene certo senza problemi (in particolare è stato dimostrato che la crescita economica del dopoguerra ha ricevuto impulsi decisivi da domande o da finanziamenti esterni al cantone stesso, il che ha creato anche grosse implicazioni politiche). Nel campo della socialità è ormai evidente che non bastano più l'intelligenza, la generosità e la sensibilità, ma c'è ormai bisogno anche di competenza e tecniche adeguate. Questa necessità di un salto qualitativo viene percepito da Caritas, che nel 1959 assume la sua prima assistente sociale: la signorina Giovanna Tognola, diplomata alla Scuola sociale di Lucerna (49). In questo modo l'attività caritativa assume una carattere più professionale, anche perché negli anni seguenti, con un'evoluzione dettata dal bisogno, viene ampliato ulteriormente il personale, assumendo poi in particolare altre assistenti sociali, le signorine Anna Nicolini e Bruna Schenatti (il personale di Caritas sarà comunque sempre insufficiente, secondo don Cortella...). Caritas diventa dunque un vero servizio sociale polivalente, probabilmente il primo del Ticino. La sua attività si allarga (anche geograficamente: degli uffici sono poi aperti a Bellinzona e Locarno) e nel 1967, grazie all'interessamento del vescovo Jelmini, può trasferirsi nell'attuale sede in via Lucchini 12 a Lugano. Vediamo ora in breve alcuni esempi delle sue nuove azioni. (continua alla prossima voce del menu). Il boom economico comporta un forte afflusso di manodopera straniera nel nostro cantone. Un solo dato: se nell'agosto del 1955 la percentuale della manodopera straniera rispetto alla popolazione attiva cantonale è ancora "solo" del 18,86%, nell'agosto del 1963 è ormai del 45,16% (50). Fra i molti lavoratori, soprattutto italiani, che arrivano, ve n'è una piccola minoranza che dopo un po' ha problemi finanziari o di integrazione; molti di essi trovano aiuto in Caritas. Malgrado gli sforzi di quest'ultima, e anche per evitare possibili abusi, don Cortella decide, un po' a malincuore ma proprio conscio delle limitate capacità finanziarie di Caritas, di poter aiutare solo le persone che sono provviste di un regolare contratto di lavoro e di un permesso di dimora da almeno un anno (51). Don Cortella, tra l'altro, partecipa in quegli anni per incarico della Conferenza episcopale svizzera anche al lavoro della Commissione cattolica per l'emigrazione. Con la forte immigrazione di lavoratori stranieri si sviluppa poi come è noto in Svizzera un importante movimento xenofobo, contro il quale logicamente si schiera Caritas, assieme alle altre organizzazioni umanitarie (52). Un'altra questione importante è quella delle madri nubili: nel 1964 per iniziativa di Caritas si apre una Casa della madre e del bambino, in via Ciseri 9 a Lugano, con lo scopo di permettere alle giovani madri di allevare il loro bambino continuando il lavoro. Per questo scopo viene fondata un'Associazione, con un responsabile della casa e un personale specializzato. Questa interessante esperienza di accoglienza dura sei anni e finisce poi, purtroppo, quando l'immobile che ospita questa esperienza viene venduto. Negli anni Sessanta intanto, grazie ai mass media e soprattutto alla televisione, il mondo diventa un "villaggio globale" e le sciagure e le disgrazie mondiali entrano nelle nostre case. Anche la carità si fa internazionale: nel 1970 71, per esempio, Caritas Ticino aiuta la Caritas centrale di Lucerna a organizzare (53) delle collette a favore del Biafra (guerra civile), della Turchia (terremoto), della Romania (inondazioni) e del Pakistan (guerra civile). Sintomo di questo allargamento dell'azione di Caritas è la partecipazione di suoi rappresentanti a diversi altri organismi caritativi, come per esempio al Groupement romand des institutions d'assistance publique et privée e al Cartel romand d'hygiène sociale et morale (è molto importante per monsignor Cortella (54) "portar via" nuove idee, nuovi stimoli). Nel 1972, intanto, Caritas compie trent' anni di vita. Non è certo nello stile di mons. Cortella indulgere nelle commemorazioni; alla fine di quell'anno viene comunque pubblicato un piccolo opuscolo in cui si presenta il significato e l'azione di Caritas, che viene definita " espressione del servizio di carità che la nostra Chiesa vuole offrire alla società nella quale è incarnata" (55). Da notare che in questo momento il personale fisso di Caritas è composto dal direttore, da otto impiegati e da altri sei collaboratori, mentre i membri dell'Associazione ticinese di carità sono un'ottantina. L'anno seguente per iniziativa della Caritas nasce la Federazione ticinese delle opere sociali e assistenziali (FTOSA), interessante tentativo di collaborazione e coordinamento fra vari enti caritativi cantonali (a livello locale già nell'aprile del 1958 si era costituita una Federazione Opere Assistenziali Luganesi). La povertà, oramai ce ne si rende conto, non scompare con la diffusione della società consumistica. Anzi, si fa più insidiosa: chi per un motivo o per l'altro non riesce a tenere il passo con i "normali" e moderni modelli di vita di fatto rischia subito l'emarginazione. Caritas, con i suoi limitati mezzi, cerca così di far fronte ai bisogni delle (molte) persone ai margini della nostra società del benessere (56).
Il Cantone sente finalmente il bisogno di promuovere il settore sociale (57), prestando attenzione a fasce di popolazione fino a questo momento in buona parte ignorate e dunque assistite quasi solo da associazioni caritative private. Essendosi però interessato in ritardo (nell'immediato dopoguerra viene istituito praticamente solo il Servizio di Igiene Mentale, nel 1949 (58)) a questi bisogni sociali, lo Stato si trova subito di fronte a un cumulo di problemi. Nel 1959, all'interno di una ristrutturazione dipartimentale, viene creato il Dipartimento delle Opere Sociali (DOS), affidato ai socialisti, con un ruolo promozionale nel settore socio sanitario. Nel 1961 il Consiglio di Stato decreta la creazione di un Servizio Sociale Cantonale, che entra in funzione due anni dopo e a cui vengono via via affidate nuove mansioni; negli anni seguenti si sviluppano molti altri servizi dotati di assistenti sociali. Una legge sociale fondamentale, emanata nel 1963, è
quella sulla Protezione della maternità, infanzia ed adolescenza: si
tratta di una legge importante perché per la prima volta si afferma il
diritto del più debole ad essere assistito dalla collettività;
nel gruppo di lavoro per la preparazione di questa legge vi è, logicamente,
anche mons. Cortella. Intanto il nuovo DOS cerca di documentarsi sulla situazione
sociale e assistenziale del cantone, e i primi dati non sono certo molto confortanti.
In particolare molto carente appare, per esempio, la situazione risultante da
un'indagine del 1959 1960 sulle case assistenziali, gli istituti e i collegi
per fanciulli bisognosi nel Ticino: dall'analisi risulta chiaramente che lo
sforzo maggiore nella creazione di questi istituti è stato compiuto da
fondazioni a carattere religioso e da congregazioni, mentre comuni e cantoni
sono stati totalmente assenti nelle creazione di istituti per la prima infanzia
o l'adolescenza bisognosa (59). L'inchiesta, tra l'altro, recensisce ventisette
istituti assistenziali, che accolgono 1450 minorenni in una promiscuità
di disturbi sociali o debilità fisiche e psichiche che già escludono
la possibilità di una loro caratterizzazione e specializzazione. Per
quello che riguarda gli anziani l'intervento dell'Ente pubblico si concretizza
(finalmente...) con il decreto legislativo del 1963 per il sussidiamento per
la costruzione, l'ammodernamento e l'ampliamento delle Case di riposo, mentre
sei anni dopo prende l'avvio l'attività dei consorzi di aiuto domiciliare.
Abbiamo già visto che fin dal primo dopoguerra si era sentita l'esigenza di chiarire e meglio organizzare gli statuti e l'aspetto giuridico di Caritas (spesso mons. Cortella definiva giustamente Caritas "la meno burocratica delle opere di beneficenza"). Falliti nell'immediato dopoguerra alcuni tentativi di riorganizzazione interna, Caritas rimane dunque per più di vent'anni un semplice ufficio diocesano. Il 5 ottobre 1965 il vescovo Jelmini costituisce la Caritas diocesana in Fondazione ecclesiastica, quale centro di coordinamento di tutta l'attività assistenziale cattolica del Ticino (64). Nel giugno del 1968 sembra poi realizzarsi un vecchio sogno di mons. Cortella, e cioè la formazione di un'Associazione Ticinese di Carità, che possa validamente essere il punto di appoggio delle iniziative di Caritas, ma la morte del vescovo Jelmini, avvenuta il 24 di quel mese, interrompe per qualche tempo lo slancio per la costituzione di questa associazione, che di fatto prende avvio l'anno seguente in modo però meno significativo di quanto sperato (il 17 luglio 1972 l'Associazione si darà poi dei nuovi statuti). Nel maggio 1969 vi è un'importante lettera di Caritas a tutti i sacerdoti, controfirmata dal nuovo vescovo mons. Giuseppe Martinoli. In essa si domanda l'esplicita collaborazione di tutti i preti per poter fare di Caritas davvero il "punto di partenza dell'attività cattolica nel campo educativo ed assistenziale"; inoltre mons. Cortella afferma anche che l'intenzione originaria del vescovo Jelmini riguardo a Caritas si era realizzata solo "in minima parte" per i pochi mezzi a disposizione e anche perché molto lavoro era dovuto all'impegno dell'assistenza dei singoli casi (65). Il 15 ottobre 1971 mons. Martinoli con un decreto conferma la Caritas diocesana come organo di collegamento tra il vescovo e tutte le congregazioni religiose e le associazioni cattoliche aventi fini caritativi e sociali. Il 7 settembre dell'anno seguente il vescovo con un ulteriore decreto ribadisce la Fondazione ecclesiastica Caritas diocesana quale centro di coordinamento di tutta l'attività assistenziale cattolica del Ticino e l'Associazione Ticinese di Carità quale sua filiazione con personalità giuridica propria. Come si vede a partire dal 1965 per alcuni anni vi è un notevole sforzo per precisare e definire lo statuto giuridico pastorale di Caritas. A parte gli aspetti formali e a un certo punto una certa confusione fra la Fondazione ecclesiastica e l'Associazione, rimane il grosso problema di un coordinamento e di un effettivo coinvolgimento comune delle numerose iniziative cattoliche nel campo assistenziale, in un'epoca di grandi cambiamenti sociali e di sviluppo del Welfare State; i risultati non sembrano spesso essere quelli che i vari testi vescovili vorrebbero promuovere.
Risale al marzo 1969 la decisione della Conferenza episcopale svizzera di indire contemporaneamente dei sinodi diocesani, con una preparazione a livello nazionale (66). Questo Sinodo vuole essere una grande esperienza ecclesiale che coinvolge anche i laici, sullo spirito del Concilio Vaticano secondo. La preparazione è molto capillare e dopo un'inchiesta presso la popolazione vengono fissati dodici temi di discussione, i cui documenti sono poi elaborati da apposite commissioni speciali (COSPE). Monsignor Martinoli, nella sessione costitutiva del 23 settembre 1972, volendo fissare gli obiettivi, dice di volere un Sinodo che possa rispondere alle esigenze del mondo contemporaneo con uno spirito di apertura, non di rottura; di aggiornamento, non di rinnegamento; di conversione a Cristo, non allo spirito mondano. All'esperienza sinodale partecipano anche vari operatori di Caritas, che per l'occasione preparano alcune riflessioni sul proprio operato. I lavori durano circa tre anni e finiscono nel 1975. Nel documento numero 8 "I compiti sociali della Chiesa" si fanno tutta una serie di affermazioni riguardanti l'aspetto teologico, le preoccupazioni delle opere caritative cattoliche, gli operatori sociali, i vari campi di intervento dell'azione sociale della Chiesa, la Caritas centrale, ecc. È redatto anche il seguente testo sulla Caritas diocesana: "Il Sinodo della diocesi di Lugano chiede che venga istituita una commissione che esprima la responsabilità sociale della Chiesa locale, con compiti di studio, di coordinamento e di organizzazione della collaborazione tra le attività sociali e assistenziali della Chiesa locale. La realizzazione di quanto studiato e deciso o proposto da detta commissione è affidata alla Caritas diocesana, conformemente a quanto, sul piano nazionale, è stabilito per la Caritas svizzera. Poiché la Caritas diocesana possa, accanto al suo lavoro quale servizio sociale polivalente, svolgere i compiti di coordinamento e di collaborazione tra le attività sociali e assistenziali diocesane, nel rispetto della natura e dell' autonomia delle diverse istituzioni, la Caritas diocesana sia dotata delle necessarie strutture e venga aiutata dalla diocesi e da tutti ad affrontare anche gli oneri finanziari". Altri orientamenti importanti sono presenti anche nei documenti 3 e 4, in cui la "diaconia" è giustamente considerata nel contesto di una efficace pastorale d'assieme e sempre come vivace testimonianza di solidarietà verso ogni forma di povertà e di emarginazione. Si tratta globalmente di indicazioni piuttosto precise. Queste importanti direttive sinodali sono state raggiunte e hanno portato a una reale maturazione la comunità cristiana ticinese? Il bilancio è complesso e probabilmente non troppo positivo, anche perché i lavori sinodali sono avvenuti in un momento storico in cui la Chiesa ticinese e non solo quella entra in un certo tipo di crisi, come vari indicatori possono testimoniare (67).
4.1. Alla ricerca della propria identità Il Sinodo 72 ha, in ogni caso, sicuramente favorito un'utile riflessione sulla Caritas diocesana e il suo ruolo, toccando esplicitamente almeno un paio di punti sempre dolenti: la questione del suo finanziamento e la necessità di organizzare un efficiente lavoro di coordinamento e collaborazione tra tutte le attività sociali e assistenziali cattoliche cantonali. Seguendo queste indicazioni mons. Cortella decide di assumere dei nuovi collaboratori non legati nella loro attività direttamente alla casistica del servizio sociale polivalente, ma che possano contribuire a una presenza di Caritas più organica nella vita della Chiesa ticinese. Il 30 novembre 1976 il vescovo Martinoli decreta la costituzione della Commissione diocesana per le attività sociali, che si dà una serie di obiettivi ambiziosi: esaminare la situazione sociale della diocesi e possibili attività di animazione ecclesiale, sensibilizzare l'opinione pubblica e in particolare i cattolici sui problemi sociali, promuovere nuove attività, coordinare gli interventi dei vari enti caritativi cattolici, creare gruppi di studio e di lavoro, eccetera. La Commissione ha il suo organo esecutivo composto da rappresentanti di istituzioni e associazioni attive nel campo assistenziale (Caritas, OCST, enti religiosi, ecc.), inoltre la Commissione diocesana partecipa pure ad alcuni lavori governativi; per esempio Mimi Lepori, assunta in Caritas nell'autunno del 1976, nel 1978 è chiamata a far parte della Commissione consultiva per i problemi riguardanti il sussidiamento e il coordinamento delle attività sociali a favore degli anziani. Tra i lavori più interessanti svolti da Caritas su indicazione della Commissione diocesana si può ricordare un rapporto sulle Case per anziani con presenza di personale religioso nel Ticino; l'analisi, pubblicata nell'estate del 1984, mette in rilievo tutta una serie di delicati problemi esistenti in questo campo (68). Mons. Cortella intanto a più riprese cerca di costituire un "fronte interno" fra i sacerdoti per una maggiore collaborazione con le parrocchie e inizia anche una ricerca di una migliore "pubblicità" dell'operato di Caritas (69). La riflessione interna sull'identità e specificità dell'ente caritativo pure prosegue, parallelamente all'aumento del personale (13 impiegati nel 1979) e alla laicizzazione del lavoro sociale in Ticino; si sente l'esigenza di costituire un lavoro d'équipe o, meglio, comunitario. Nel 1982 Caritas ricorda il quarantesimo di fondazione con una giornata di riflessione sulla propria identità e sul proprio lavoro (70); compare in questo periodo l'importante slogan di Caritas come "Servizio sociale per una comunità che accoglie" (che sottintende già il concetto sociologico di "rete"). Negli anni Ottanta vi sono quindi una serie di importanti avvicendamenti alla testa di Caritas. Alla fine di giugno del 1980 mons. Cortella, dopo ben 31 anni, lascia la direzione dell'ente (71). Il vescovo Ernesto Togni (a sua volta successore di Martinoli nel 1977) nomina come nuovo direttore don Emilio Conrad, conosciuto per il suo impegno pastorale nelle nostre parrocchie e poi in America latina. Altri importanti cambiamenti negli anni seguenti: don Eugenio Corecco diventa vescovo nella primavera del 1986, e a don Conrad nel luglio del 1987 succede don Giuseppe Torti, sostituito poi a sua volta da Roby Noris alla fine del 1991; si ritorna, come all'inizio, a un direttore laico. All'inizio degli anni Ottanta si accentua, intanto, l'esigenza di affrontare di nuovo la questione finanziaria e quella di contribuire maggiormente a sensibilizzare l'opinione pubblica su tutta una serie di problemi sociali, facendo nel contempo conoscere meglio Caritas. In questo senso, sostituendo anche l'annuale azione di novembre sui giornali (in cui si elencavano cifre e aiuti eseguiti e si domandava un'offerta) si decide di pubblicare con una certa regolarità un Bollettino di informazione di Caritas Ticino, il cui numero zero esce nel novembre 1981. Ci si rende conto che il sostegno e l'appoggio che l'ente può contare presso i ticinesi dipende dall'immagine che il pubblico ha di Caritas e delle sue attività, e dunque la promozione dell'immagine di Caritas diventa sempre più importante. Nel 1981 il nuovo direttore don Conrad, di fronte anche alla delicata situazione finanziaria, ottiene da mons. Togni la costituzione provvisoria di un Consiglio Direttivo che potesse allargare la responsabilità della conduzione di un ente sempre più importante ma senza garanzie di entrate regolari. Nello stesso anno il servizio giuridico dell'Amministrazione cantonale delle contribuzioni per concedere l'esenzione fiscale (72) a Caritas esige la sua costituzione in Fondazione civile negando, sulla base di una sua particolare interpretazione (73) della legislatura federale, la validità giuridica in materia alla Fondazione ecclesiastica. In un documento interno dei responsabili di Caritas al
nuovo vescovo mons. Corecco, nell'estate 1986, si afferma che la ricerca di
una definizione giuridica ha accompagnato l'ente caritativo sin dall' inizio
e non è ancora conclusa. Nel 1987 si arriva finalmente a uno sbocco di
questa vicenda: il vescovo costituisce un Ufficio della Caritas diocesana (74)
e contemporaneamente il 4 dicembre di quell' anno vi è un nuovo statuto
dell'Associazione Caritas Ticino che sostituisce la Fondazione ecclesiastica.
Caritas diventa così un'Associazione civile, retta da un ristretto numero
di soci attivi, l'assemblea generale, composta dal vescovo, dai membri dell'
Ufficio diocesano di Caritas e dal vicario generale. A partire dalla metà degli anni Settanta, parallelamente alla depressione economica, entrano in crisi le varie politiche sociali, inizia un periodo di ripensamento del welfare state (75) e si diffondono le idee del "meno Stato". In Ticino il DOS, nato e sviluppatosi negli anni del boom economico, deve affrontare l'emergenza finanziaria, e così come il suo crescere è stato mancante di organicità, anche le rinunce e i tagli risultano spesso privi di uno sguardo d'insieme (76); in particolare alcune decisioni governative contribuiscono a creare grossi problemi ad alcuni istituti di congregazioni religiose (che fino agli anni Sessanta hanno portato quasi da soli i bisogni sociali del cantone...). Queste riflessioni critiche portano i responsabili di Caritas a elaborare all'inizio del 1982 il testo "Chiesa ticinese e politica sociale" , in cui si invita i politici e le autorità a concepire una politica sociale in funzione del bisogno della persona, e richiama tutti a una solidarietà più grande con chi è solo, emarginato, handicappato (77). Lo sviluppo economico del Ticino negli anni Ottanta entra poi in una nuova fase, in cui accanto a una congenita debolezza di alcuni settori appaiono potenzialità positive di altri; viene delineato un modello di "regione aperta", di "Ticino periferico ed emergente". In ogni caso dalla profonda trasformazione della società occidentale degli ultimi vent'anni e dalla crisi dello Stato sociale emergono nuove forme di povertà (che la crisi economica dell'inizio anni Novanta accentuerà nettamente). Un interessante studio sulla povertà in Ticino (78) contribuisce a fornire un quadro complessivo sulla questione: i "nuovi poveri" non sono rintracciabili solo ai margini della nostra società, bensì anche al suo interno; la "povertà relativa" è la situazione di privazione della capacità progettuale della persona. Occorre ridefinire la politica sociale, e passare da una politica assistenziale ad una politica promozionale. Importante è saper cogliere lo stimolo e la sfida che la nuova povertà pone: è necessario un ripensamento, un dibattito culturale sul modo di intervento dello Stato e delle associazioni "private", che storicamente hanno sempre avuto un ruolo determinante nell'aiuto ai poveri. Altra fondamentale novità di questi ultimi anni è la questione delle nuove migrazioni internazionali, legata al problema Nord Sud, e l'afflusso dei rifugiati in Europa. Dai quindici ai venti milioni di persone si trovano in fuga a causa di guerre civili e violazioni dei diritti dell'uomo. La Svizzera non è più un'isola e una congiuntura economica non molto favorevole e soprattutto una politica governativa improvvisata e senza una pianificazione a lungo termine contribuiscono al fenomeno dell'esplosione delle domande d'asilo nella seconda metà degli anni Ottanta, ciò che porta ad atteggiamenti di chiusura di una parte della popolazione svizzera. In questo contesto la stessa provenienza dei richiedenti l'asilo cambia grandemente: la maggioranza non viene più dagli stati dell'Europa dell'Est (almeno fino al momento dello scoppio del drammatico conflitto nell'ex Jugoslavia nel 1990 '91), ma dai paesi del Terzo Mondo. La Confederazione reagisce con l'adottare una politica di accoglienza sempre più restrittiva, con due più che discutibili revisioni della legge dell'asilo, alcuni rimpatri spettacolari, ecc. Le Chiese svizzere prendono più volte posizione con tre memorandum: Dalla parte dei profughi (1985), Per una politica d'asilo umana (1987), Dalla parte degli oppressi per un futuro comune (1991), cercando di incoraggiare la solidarietà nei confronti dei rifugiati e dei profughi. La Caritas svizzera e le Caritas regionali (nel 1976 la Caritas diocesana si incarica di tenere per il Ticino il Segretariato rifugiati in rappresentanza delle organizzazioni umanitarie affiliate all'Ufficio Centrale Svizzero per l'Aiuto ai Rifugiati) vivono dunque in questo periodo un forte impegno in termini di accoglienza sia dei profughi accolti in modo definitivo sia dei numerosi candidati d' asilo.
Proprio a partire dall'esperienza dell'accoglienza dei rifugiati vietnamiti, iniziata nel 1980 e realizzata con gruppi d'accoglienza parrocchiali, nasce un'importante indicazione metodologica che si svilupperà nel corso degli anni Ottanta: i servizi e le strutture professionali di Caritas devono avere un ruolo complementare a quello di realtà comunitarie capaci di accogliere chi è nel bisogno. Accanto alle strutture che si sviluppano in questi anni (nuovi servizi, programmi occupazionali per disoccupati,...) parallelamente cresce l'impegno di Caritas nella sensibilizzazione e animazione della comunità cristiana ticinese in generale e di tutte le forme di volontariato che possono diventare un segno di speranza e un modello per tutta la comunità. E con questo entriamo nell'attualità che, percorrendo le date più significative dello sviluppo di Caritas in questi ultimi anni, è descritta sinteticamente nell'appendice del libro. Alberto Gandolla, nato nel 1952, sposato e padre di
quattro figlie. Licenziato in storia moderna e contemporanea all'università
di Friburgo. È docente alla scuola media di Tesserete e si occupa di
storia del movimento operaio cattolico. 1. Nel gennaio 1937 si registrano ben 7598 disoccupati, che rappresentano il 13,6 % dei lavoratori; si tratta, triste primato, del record assoluto in Svizzera. Cfr. Il Lavoro, 24.4.1943. 2. Da segnalare, per esempio, che all'inizio della crisi economica il vescovo Bacciarini, in un comunicato del 9 ottobre 1931 (riportato dal Monitore Ecclesiastico 1931, pp. 193 194), ricorda ai parroci e ai fedeli l'attività delle due sezioni caritative dell'Azione Cattolica, l'Opera Providentia e il Segretariato ticinese di beneficenza. A proposito degli interventi assistenziali cattolici vedi poi il contributo di Aldo Abächerli in questa stessa pubblicazione. 3. Il 17.1.1944 vi è un decreto del Consiglio di Stato che regolamenta l'assistenza di guerra, creando un Ufficio che viene affiancato da una Commissione consultiva di cui fanno parte dei rappresentanti di una decina di enti e associazioni sindacali e caritative, tra cui la Caritas. 4. Qualche esempio riferentesi al periodo 1939 fine 1942: il pane aumenta del 57%, lo zucchero dell'80 %, la farina dell'85%, le patate del 100%, il carbone del 100%. Da notare che in questo momento ufficialmente si dichiara invece che il costo della vita è aumentato del 30 %, e si discute di aumentare i salari solo del 15 %! Cfr. Il Lavoro, 15.11.1942. 5. Sulla nascita di un vero movimento femminile cristiano sociale negli anni Trenta e Quaranta vedi per es. di A. Gandolla l'articolo "Donne e madri tra casa e lavoro. Momenti di storia del movimento femminile cristiano sociale ticinese" in Argomenti N. 9 settembre 1993, pp. 28 34. 6. La difesa della famiglia è un vero leit motiv dei cristiano sociali, sia a livello cantonale che a livello nazionale. La rivendicazione degli assegni familiari, all'inizio contestata dai sindacati di tendenza socialista, è portata avanti dai sindacati cristiano sociali fin dal 1937. Da ricordare, alla fine del 1941, un' iniziativa costituzionale a favore della famiglia, promossa a livello nazionale dal Partito conservatore democratico e dalla Federazione Svizzera Cristiano Sociale; cfr. Il Lavoro, 6.12.1941 e i numerosissimi interventi di don Del Pietro sulla questione durante la guerra. 7. Le agitazioni in corso sono lo sciopero alle Officine del Gottardo di Bodio, quello degli scalpellini di Locarno Tenero e di Mendrisio e quello delle camiciaie di Arzo. Cfr. per es. Il Lavoro, 6.6.1941. 8. I cristiano sociali sono, fra l'altro, tra i più convinti sostenitori della nuova legge sulla pubblica assistenza del 17.7.1944. Vedi per es. l'intervento di Francesco Masina in Gran Consiglio, riportato da Il Lavoro, 29.7.1944. 9. Il Lavoro, 1.4.1944. 10. R. ASTORRI, La conferenza episcopale svizzera, Friburgo 1988, pp. 243 244. Lo stesso autore indica che la diocesi che ogni volta raccoglie meno soldi è quella ticinese, con una media annua di circa 1200 1300 franchi negli anni '20 e '30. 11. Queste sono, per esempio, le precise motivazioni indicate da una interessante lettera di Francesco Masina a don Alfredo Leber, datata 5 novembre 1941, che si trova nell'Archivio Vescovile di Lugano. Da notare che non esiste un vero archivio della Caritas; molti documenti sono fortunatamente conservati presso l'Archivio della Curia, in una serie di cartelle con generica dicitura "Caritas". 12. Monitore Ecclesiastico 1941, pp. 190 191. Voglio qui ricordare che l'amico Luca Janett mi ha aiutato in maniera importante in questa parte sugli inizi di Caritas; in pratica è stato il prezioso co autore di questo primo capitoletto. 13. Di Francesco Masina (1886 1966), presidente dell'OCST dal 1933 alla sua morte, granconsigliere (1935 1955) e consigliere nazionale (1951 1959) vi è una breve biografia in AAVV, Uomini Nostri, Locarno 1989, pp. 96 97. 14. Sui giornali ticinesi cominciano ad apparire delle presentazioni dell' attività svolta da Charitas (interessante, per es., l'articolo a tale proposito sul Corriere del Ticino del 14.7.194 2). Sul Giornale del Popolo con una certa regolarità all'interno della pagina riguardante l'Azione Cattolica vi sono delle concrete segnalazioni a favore di Charitas. 15. Giornale del Popolo, 9.11.1942. 17. L'apice della politica di chiusura viene raggiunto nell'estate del 1942, quando il consigliere federale Von Steiger, il 30 agosto, dichiara ufficialmente che "la barca è piena". Cfr. per es. A. GANDOLLA, La Svizzera e la neutralità, inserto speciale dell'Eco di Locarno del 4.4 1991. 18. Per una descrizione di questo particolare momento storico vedi per es. G. BUSTELLI, P. CHIARA, C. MUSSO, E. SIGNORI, Un confine per la libertà: la resistenza antifascista e la solidarietà dei ticinesi, Varese, 1985 e anche R. BROGGINI, Terra d'asilo. I rifugiati italiani in Svizzera 1943 1945, Bologna, 1993. 19. Sul notevole impegno caritativo di mons. Jelmini in questo periodo di guerra vedi per es. I. MARCIONETTI, Angelo Jelmini Vescovo, Locarno 1986, pp. 59 66. 20. Alla fine di ottobre si sviluppa per es. una dura polemica fra Libera Stampa e il Giornale del Popolo; infatti quest'ultimo accusa il consigliere di stato socialista Canevascini di aver fatto visite "inopportune" e "scriteriate" in Valdossola. 21. Giornale del Popolo, 24.10.1944. A dimostrazione del delicato momento politico spirituale, una piccola parte di questa somma viene usata per l'aiuto morale e spirituale con la diffusione di 5000 opuscoli "La Chiesa cattolica e gli estremismi totalitari" e di molti altri libretti di preghiera e di formazione cristiana; cfr. la lettera del 3.4.1945 indirizzata al nunzio apostolico mons. F. Bernardini, esistente all'Archivio vescovile, cartelle Caritas. 22. In questo senso testimoniano alcune lettere presenti nell'Archivio della Curia, fra le quali una di don Giuseppe Crivelli, direttore della Caritas Centrale di Lucerna. 23. R. ASTORRI, op. cit., p. 260. I vescovi, tra le varie misure, autorizzano la Caritas centrale a prendere contatto con i vescovi americani per poter ottenere un aiuto finanziario, a condizione che le attività concordate non risultino "unilaterali". 24. Presso l'Archivio vescovile si trovano fortunatamente molti documenti, non classificati, riguardanti questo periodo di aiuti di Caritas alle popolazioni del nord Italia, tra cui il documento citato del 17.11.1944. Tutti i documenti citati in seguito nel testo, salvo esplicito riferimento, sono depositati nell' Archivio vescovile. 25. Ecco in breve il contenuto dell'appello: la Svizzera è stata risparmiata dalla guerra, e quindi la nostra popolazione deve assolvere il grave debito di riconoscenza verso la Divina Provvidenza prodigandosi a soccorrere le popolazioni bisognose oltre frontiera. Se anche da noi i bisogni sono tanti, le miserie morali e materiali dei fratelli cattolici italiani sono così terribili da esigere la solidarietà dei cattolici ticinesi. L'appello è riportato su numerosi organi di stampa. 26. Interessante, per esempio, un'intervista di Piero Guizzetti a Masina, apparsa sull'Eco di Bergamo del 18.12.1946, sul tema carità giustizia. Vi si legge che il motto di Masina è "Prima la giustizia e poi la carità" e ancora che "Guai se il capitale si ritira di fronte alla giustizia per mascherarsi dietro la carità (...) con ogni forza lavorare per una sempre più alta e perfetta giustizia sociale (...) oltre quel limite c'è la carità". 27. Per esempio R. Olgiati, segretario del Dono svizzero, il 13 aprile fa presente a Masina di aver letto con sorpresa nell'appello del 1. marzo che i soccorsi di Caritas si indirizzeranno solo ai cattolici italiani. Pronta la risposta di Masina, del giorno dopo, in cui garantisce gli aiuti di Caritas a tutti i bisognosi, senza distinzione di razza, religione o tendenza politica. 28. La documentazione rimasta è un po' confusa e contraddittoria in proposito; secondo La pagina della carità nel Ticino, un bollettino della Caritas centrale di Lucerna senza data ma probabilmente della primavera del 1946, già ai primi di maggio del 1945 una delegazione composta dal vescovo Jelmini, da Masina e da Janner si sarebbe recata a portare dei primi soccorsi a Milano, Genova e Torino. 29. A Genova nel mese di giugno Caritas assicura per circa un mese più di 8.000 minestre al giorno da distribuire ai poveri sinistrati; altri aiuti il mese successivo sono portati a Torino, in collaborazione con il cardinale Fossati. 30. Fra le varie associazioni umanitarie vi è
una gara vera e propria. "Io desidero dunque, consigliarle di iniziare
subito la distribuzione del latte, a Milano, di modo che i socialisti non arrivino
prima di noi con il loro latte" scrive per esempio il direttore di Caritas
centrale a Masina l'11.5.1945. 32. La chiusura avviene con una piccola coda polemica, infatti i responsabili di Caritas si accorgono che il Dono svizzero continua a sovvenzionare le attività di Soccorso operaio a Milano. Perché questa disparità di trattamento? Cfr. la lettera di Masina alla direzione del Dono svizzero del 3.8.1946, Archivio vescovile, cartelle Caritas, e anche l'articolo di S. Jacomella sul Giornale del Popolo del 9. 8. 1947. 33. Il 20.9.1947 diciannove persone che hanno lavorato nelle città italiane come volontarie di Caritas scrivono al vescovo Jelmini, dicendosi pronte a costituirsi in un "Corpo delle volontarie della carità". 34. In Italia il 18 aprile 1948 vi è un'importantissima votazione politica. Un gruppo di ticinesi, per contrastare la propaganda comunista negli istituti di beneficenza di Como, decide di distribuire delle derrate alimentari ai poveri della città. Masina prende a cuore la vicenda e cerca la collaborazione di don Crivelli di Caritas centrale, per accelerare l'arrivo degli aiuti prima della votazione. Vedi in proposito le lettere del 14 e 17 aprile 1948, presso l'Archivio vescovile, cartelle Caritas. 35. Il sacerdote in questione in un suo rapporto del 1. luglio 1946 dipinge la situazione degli 87 cattolici internati nelle varie homes in modo piuttosto fosco: "Mentre le opere di soccorso ebraiche e protestanti mandano dei rappresentanti a visitare i campi e a distribuire abbondanti soccorsi in natura e denaro, i cattolici non ricevono nulla e non vedono nessuno...". 36. Nel settembre 1948 vi è una colletta nazionale speciale per l'aiuto ai rifugiati cattolici in Svizzera, svolta dalla Caritas centrale. La Curia luganese domanda di poter tenere tutto il ricavato, proprio per continuare l'opera di aiuto ai rifugiati in Ticino; la risposta di Lucerna, l'1.12.1948, è molto dura. 37. "Lo sviluppo preso dalla Centrale di Carità Caritas in sei anni di vita, il moltiplicarsi dei bisogni e delle iniziative, il desiderio di assicurare sempre più saldamente l'avvenire di questa istituzione che ha dimostrato di saper fare tanto bene e che è chiamata a farne ancora di più, il lavoro che aumenta di giorno in giorno, mi hanno portato alla decisione di consacrare alla Centrale Ticinese di Carità un Sacerdote come Direttore", si può leggere nella citata lettera vescovile. 38. Da notare che il vescovo e don Cortella avrebbero voluto tenere Masina come prezioso collaboratore, ma quest'ultimo proprio per non condizionare in nessun senso il nuovo direttore, con molta delicatezza si ritira del tutto dall'ente. 39. È certamente un peccato dal punto di vista storico che mons. Cortella non abbia mai voluto affidare il ricordo delle sue interessanti esperienze di questo periodo (e degli altri successivi) ad altro che a ricordi orali ... 40. Così si esprime don Cortella, tra l'altro, in una lettera al vescovo datata 4.1.1953. Il documento si trova (come gli altri citati, salvo altra indicazione) nell'Archivio vescovile, cartelle Caritas. 41. La colonia è pensata per quei bambini e bambine le cui particolari condizioni personali o familiari non permettono di partecipare alle altre più grandi colonie, quelle dei sindacati per esempio. 42. Molti noti professionisti luganesi danno così a partire da questo periodo un tangibile, prezioso e gratuito aiuto a Caritas. 43. In questa circostanza durante la Santa Messa don Cortella pronuncia un discorso in cui tra l'altro dice "Non vi rimprove riamo di aver peccato perché siamo peccatori anche noi; vogliamo soltanto aiutarvi con tutte le nostre forze: si deve sempre aiutare a sciogliere e non stringere i nodi delle tragedie perché la pena non significhi il principio di una nuova caduta, ma serva a preparare la grande festa della libertà". Citato in S. JACOMELLA, Carceri carcerieri carcerati, Locarno 1992, p. 216. 44. AAVV, Centenario delle Volontarie vincenziane Lugano 1889 1989, Lugano 1989, p. 27. 45. R. BIANCHI, Il Ticino politico contemporaneo, Locarno 1989, p. 427. Vedi anche F. KNESCHAUREK, Stato e sviluppo dell'economia ticinese: analisi e prospettive, Bellinzona 1964. 46. L'interessante inchiesta radiofonica del 1955 comprende delle brevi interviste a Legobbe e a Ronchetti, ispettori dei comuni, al prof. Saglini, a persone della Val Colla e della Val Muggio, a don Cortella ("Per negare la realtà di povertà bisogna essere ciechi o non aver cuore ..."), all'avv. Bianchetti dell'Ufficio cantonale di pubblica assistenza, sorto nel 1945, all' ing. Regazzoni, a Elmo Patocchi e al segretario di concetto del Dipartimento di Igiene Sig. Panzera. La bobina dell'intervista si trova presso la documentazione della RSI a Lugano Besso. 47. Per esempio su un bollettino senza data ma probabilmente del 1955 è scritto che Caritas " è nata e vive per essere la centrale di pronto soccorso nei casi urgenti, per completare, quando occorra, l'aiuto dato dalle pubbliche provvidenze e dalle altre opere benefiche, per soccorrere quando nessun altro lo può fare". 48. Masina, oltre che direttore della Caritas, era un importante dirigente sindacale e politico, e in particolare assicurava il legame tra caritativa e azione sociale sindacale, legame che in seguito sembra in buona parte interrompersi; don Cortella, ovviamente, privilegia l'aspetto caritativo religioso. 49. Già da alcuni anni qualche assistente sociale aveva collaborato con Caritas, per esempio le signorine Luchessa e Motta, ma non erano state assunte in modo regolare e fisso. 50. Cfr. F. KNESCHAUREK, op. cit., p. 21 dell'apparato statistico. 51. I primi contatti tra la Caritas e i vari consolati esteri per cercare una soluzione a questo delicato problema sono presi già nel gennaio 1959. 52. La presenza di una forte immigrazione è uno dei più grossi problemi sociali della Svizzera del nostro secolo. Cfr., per es., S. e G. ARLETTAZ, L' immigration en Suisse depuis 1848, une mémoire en costruction, in Rivista Storica Svizzera, vol. 41, 1991, no. 3, pp. 287 297. 53. Con la Caritas centrale la Caritas diocesana ha rapporti di corresponsabilità, di sussidiarietà e di coordinamento di certe attività; normalmente l'aiuto all'estero è demandato alla Caritas nazionale. 54. La generosità e l'impegno di don Cortella (che dal 1945 tiene tra l'altro una domenicale conversazione religiosa, che durerà ben quarant'anni) gli valgono intanto una serie di riconoscimenti: nel 1959 viene nominato Arciprete della Cattedrale di Lugano e nel 1961 con la prelatura diventa Monsignore. In seguito porterà il suo contributo in diverse commissioni civili ed ecclesiastiche; l'elenco completo delle sue cariche sarebbe troppo lungo. 55. La citazione si trova a p. 17; questa pubblicazione, di una sessantina di pagine, è preziosa per capire il "taglio" caratte ristico che mons. Cortella dà a Caritas. Oltre a delle riflessioni spirituali sulla povertà, l'opuscolo presenta alcune iniziati ve dell'ente, un intervento delle tre assistenti sociali sul loro lavoro e infine riporta alcuni documenti ufficiali che reggono l'attività di Caritas. 56. Vedi per es. l'interessante intervista di Luciana Caglio a mons. Cortella pubblicata sull'Azione del 7.2.1974. Tra l'altro il direttore di Caritas afferma "... alla base di tutto c'è il compito di aiutare l'uomo a ritrovarsi in una società che lo disprezza, che lo valuta per quel che rende (...) A fare il povero non è tanto il bisogno quanto la paura." 57. Cfr. il lavoro di diploma di D. GORINI, E. MAGISTRA, Polivalenza e/o specializzazione: i servizi sociali in Ticino, lavoro presentato all'Ecole de service social et d'animation di Losanna nel 1990, che offre una breve ma interessante panoramica sullo sviluppo dei servizi sociali cantonali. Che io sappia non esiste ancora un'analisi storica specifica sull'evoluzione dei servizi sociali del nostro cantone. 58. Il SIM era un luogo di consultazione e di informazione per i dimessi dell'ONC, gli etilisti, i tossicomani e altre persone che necessitavano di un intervento ambulatoriale. 59. L'interessante e per molti versi sconfortante indagine del DOS in questione contiene anche una serie di osservazioni critiche sugli istituti e alcune prime considerazioni sulla problematica, ed è datata dicembre 1960; una copia di questa indagine si trova nell'Archivio vescovile, cartelle Caritas. 60. Anche con conferenze pubbliche: vedi per es. quella tenuta alla sede del Lyceum di Lugano il 29 marzo 1974 (cfr. Giornale del Popolo del 30.3.1974 e Corriere del Ticino de1 1.4.1974) 61. Lettera al direttore del Messaggero Ticinese, datata 13.3.197 0; lo scritto viene poi ripreso sulla rivista stessa. Mons. Cortella riprende e approfondisce la tematica anche nel già citato opuscolo di Caritas del 1972 in occasione dei trent'anni dell'ente; tra l'altro afferma che l'intervento caritativo della Chiesa è un dovere e un diritto. 62. Fra gli organizzatori di questo corso si può citare Mauro De Grazia, per qualche tempo valido collaboratore di Caritas; suo, per esempio, un interessante Repertorio degli enti a carattere sociale ed assistenziale effettuato nell'inverno 1972 73, in collaborazione anche con il DOS. 63. In una lettera del 10.3.1975 mons. Cortella comunica al vescovo una serie di osservazioni su questa questione e dopo aver ricordato un certo isolamento di Caritas nella realtà diocesana si domanda come bisogna lavorare di fronte alle molte istituzioni sociali e in particolare all'attività sempre maggiore del DOS. 64. L'atto vescovile afferma che lo scopo dell'istituzione è " l'assistenza materiale e morale dei bisognosi nel Canton Ticino, in ogni forma richiesta dalle necessità ed in collaborazione con gli enti assistenziali pubblici e privati, e particolarmente con gli enti cattolici". 65. Cortella scrive anche che nei confronti dello Stato non vi è nessuna diffidenza, ma che si impone un'organizzazione dell'attività caritativa cattolica che faciliti il dialogo con lo Stato proprio per meglio tutelare la fisionomia morale delle opere cattoliche; scrive poi anche che le critiche rivolte a molte istituzioni cattoliche di carenza di organizzazione e di metodo non sono sempre senza fondamento. 66. Per una breve sintesi sull'inizio del Sinodo 72 vedi per es. l'articolo di mons. Giuseppe Bonanomi sul Giornale del Popolo del 28/29.3.1992. 67. Interessanti, per esempio, le conclusioni di uno studio sociologico di quegli anni :"È in atto un processo di crisi delle tradizioni che inizia dalle città, dai giovani, dai lavoratori, e che coinvolge nella condanna delle istituzioni anche la chiesa. Si ha l'impressione che i ticinesi abbiano presente un modello di chiesa i cui lineamenti sono venuti determinando all'interno di un contesto socioeconomico di tipo ormai superato... Coinvolta in un processo di mutamento di cui non riesce a tenere il passo, la pratica da un lato largamente sopravvive come momento di un sistema di vita destinato a essere superato, dall'altro cerca faticosamente un nuovo volto come espressione di una recuperata attualità dei valori cristiani vissuti fino in fondo." In G. MANGIAROTTI, L. RIBOLZI, G. ROSSI, Partecipazione religiosa e immagine della Chiesa in Ticino, Lugano, 1974, p.145. 68. Il rapporto recensisce 162 suore che lavorano in 28 istituti, su un totale di una cinquantina in tutto il cantone. Ecco i problemi emersi: la grande solitudine dei degenti e delle suore, l'alta età media delle suore, la necessità di un aggiornamento del personale, di una maggiore integrazione nella realtà locale e di un volontariato adulto, il bisogno di sviluppare il tema dell'accompagnamento ai sofferenti e ai morenti, di una pastorale della terza età, ... 69. "Ho forse lasciato che Caritas rimanesse troppo isolata nella vita della nostra Chiesa: ma ho sempre esitato a reclamizzare Caritas. Oggi ... Caritas ha bisogno di inserirsi più vivacemente nella vita della nostra Chiesa". Così scrive mons. Cortella ai sacerdoti ticinesi il 30.11.1976. 70. Cfr. il Bollettino di informazione Caritas Ticino, ottobre novembre 1982, che contiene un'interessante sintesi dei lavori. 71. Sul Giornale del Popolo del 18.6.1980 vi è una lunga e interessante intervista a Cortella, che illustra a ruota libera la sua più che trentennale esperienza in Caritas. 72. Si tratta in particolare di riuscire a ottenere l'esenzione fiscale per le donazioni e i lasciti e di ottenere sussidi concessi a Enti privati. 73. Da notare che i responsabili di Caritas contestano vivacemente questa interpretazione della legislatura federale. 74. Il decreto vescovile è del 23.11.1987, e l'Ufficio è composto da don Giuseppe Torti, Roby Noris, Mimi Bonetti Lepori, don Pietro Borelli, e Myriam Crivelli. 75. Sulla questione vi è ormai un'infinita letteratura; mi limito a ricordare G. ROSSI, P. DONATI (a cura di), Welfare State, problemi e alternative, Milano 1984. 76. Vedi per esempio l'interessante analisi in proposito, a firma M(imi) L(epori), apparsa sul Bollettino d'informazione Caritas Ticino, gennaio 1982. 77. La presa di posizione, riportata sul Bollettino di informazione Caritas Ticino, marzo 1982, contiene riflessioni molto interessanti, ed è approvato dal Consiglio Pastorale ticinese. 78. AAVV, La povertà in Ticino, Bellinzona, 1986, a cura del DOS. Lo studio calcola in circa il 15% dei contribuenti (cioè quasi 40.000 individui) il numero delle persone che vive al di sotto della soglia della povertà. DIOCESI DI LUGANO E CARITÀ: Parte seconda
Parte seconda: SGUARDO AL FUTURO
A. Atti del convegno del 50esimo di Caritas Ticino tenuto a Lugano il 21 novembre 1992
ATTI DEL CONVEGNO
100 anni di dottrina sociale della Chiesa A. Atti del convegno di Caritas Ticino DIOCESI DI LUGANO E CARITÀ: SGUARDO AL FUTURO
Partecipanti: Mons. Juraj Petrovic Caritas Rijeka (Croazia),
J. Luc Trouillard DIOCESI DI LUGANO E CARITÀ: SGUARDO AL FUTURO Mons. Eugenio Corecco L'assillo di guardare al futuro, "alla ricerca di strade nuove per esprimere la carità", potrebbe nascere da un nostro dubbio interiore. La carità è ancora atta a garantire la presenza della Chiesa nella società tenendo conto del contributo che essa deve dare alla soluzione dei problemi sociali del mondo contemporaneo? Una risposta semplicistica e perciò palesemente inadeguata, potrebbe essere quella di ricordare che la Chiesa, in realtà, dà il suo contributo alla soluzione dei problemi sociali non solo attraverso la Caritas, ma anche e soprattutto attraverso i sindacati cristiani, i quali, da sempre, lottano per la realizzazione della giustizia sociale. Questa risposta potrebbe ingenerare l'equivoco di credere che il sindacato cristiano sia preposto alla realizzazione della giustizia, mentre la carità e la Caritas abbiano, come compito, solo quello di garantire il superfluo. Di qui il dubbio sottile, eventualmente contenuto nella formulazione del tema di questo Convegno. In una società che pretende (almeno nei paesi ricchi come il nostro) di realizzare in modo sempre più globale il Walfare State (malgrado le ricorrenti crisi congiunturali), in uno Stato cioè sempre più sociale, la Caritas ha ancora una prospettiva di avvenire? Per definizione, infatti, il superfluo potrebbe anche non esistere, mentre sempre essenziale e imprescindibile è la giustizia. Ma noi sappiamo che per il cristiano la virtù della carità non appartiene al novero delle cose superflue. Il pilastro fondamentale della vita del cristiano non sono le quattro virtù cardinali della prudenza, giustizia, fortezza e temperanza (formulate dalla filosofia stoica, da Seneca in particolare) e recepite anche dal pensiero cristiano. Il pilastro fondamentale della vita del cristiano sono le tre virtù teologali della fede, della speranza e della carità. La carità appartiene perciò all'essenza stessa dell'esperienza cristiana. Non è possibile, di conseguenza, per il cristiano, regredire semplicemente al livello della pratica delle virtù cardinali (cui appartiene anche la giustizia) e muoversi perciò solo sul terreno della razionalità umana e del diritto naturale, prescindendo dalla pratica della carità, che appartiene all'ambito della esperienza soprannaturale, cioè della redenzione e della grazia. La carità non coincide con il superfluo, è l'essenza stessa della vita del cristiano. Costituisce perciò l'elemento essenziale della presenza del cristiano e della Chiesa nel mondo e del suo contributo alla realizzazione del bene comune. Non esiste dubbio sul futuro della carità e perciò, in modo derivato, della Caritas, in quanto forma istituzionalizzata per attivare questa virtù teologale. La Caritas è un albero che non può essere tagliato; anzi, deve crescere e dare frutti sempre più abbondanti, così come ci insegna la parabola del Vangelo. Siamo tuttavia tutti consapevoli che, in una cultura positivista come quella in cui viviamo, un argomento "a priori" non ha più la forza convincente di un tempo. Dobbiamo di conseguenza reperire la risposta alla nostra domanda, percorrendo altri itinerari di ricerca. La dottrina sociale della Chiesa che, paradossalmente, sembrereb be essere stata elaborata per porre le fondamenta di una concezione cristiana non della carità, ma della giustizia, ha subito, proprio su questa tematica, una profonda evoluzione. La svolta nevralgica è avvenuta nel 1963 quando Papa Giovanni XXIII, nella Pacem in Terris, per fondare la dignità della persona umana non ha più utilizzato solo gli argomenti classici della filosofia, ma ha fatto ricorso anche alla Rivelazione. Il fondamento ultimo della dignità della persona umana, salvata dal sangue di Cristo versato sulla croce, sta nella sua filiazione divina. Questa argomentazione di Giovanni XXIII ha introdotto nella dottrina sociale un nuovo criterio epistemologico. Da quello puramente filosofico razionale (sia pure illuminato dalla fede), il Magistero pontificio è passato alla adozione di una conoscenza direttamente derivata dalla Rivelazione, perciò dalla fede. Dalla filosofia è avvenuta una evoluzione verso la teologia. Il risultato è sorprendente. Se la prima pagina della dottrina sociale della Chiesa, quella scritta da Leone XIII con la "Rerum Novarum" parla della giustizia, l'ultima pagina della stessa, se si prescinde dalla "Centesimus annus", quella scritta da Papa Giovanni Paolo II, cinque anni or sono, con la "Sollicitudo Rei Socialis", propone il discorso della carità. Per liberare il proletariato dalla schiavitù in cui, nel secolo scorso (secolo del progresso), era stato assoggettato dal mondo padronale, Leone XIII ha invocato il criterio della giustizia e, su questa linea, si sono mossi anche i Papi successivi. Pio XI, commemorando la "Rerum Novarum", quarant'anni dopo (1931), con la "Quadragesimus Annus", affermava ancora, e giustamente, che non si può nascondere l'ingiustizia con la carità e che alla carità non spetta l'obbligo di coprire con un velo la violazione della giustizia. Tutto ciò è profondamente vero, ma è evidente che in quel contesto il discorso sulla giustizia e sulla carità erano ancora condotti su due piani diversi, senza convergere verso una sintesi. Ciò dipende dal fatto che l'analisi della situazione di ingiustizia sociale, in cui versava la società, era fatta con criteri di natura prevalentemente economica e politica, mentre nella "Sollicitudo Rei Socialis", Papa Giovanni Paolo II ha introdotto un altro criterio di analisi. Nel solco di Papa Giovanni XXIII, che, come abbiamo visto, aveva dichiarato la Redenzione di Cristo quale fondamento ultimo della dignità della persona umana, Giovanni Paolo II, nei numeri 35 40 della "Sollicitudo Rei Socialis", invece di una lettura economica, ha dato una lettura teologica delle cause della ingiustizia sociale esistente nel mondo. Papa Giovanni Paolo II sostiene che la radice più profonda dei disordini sociali non è di natura economica o politica, ma di natura morale e teologica. Alla radice sta il peccato personale degli uomini; stanno le "strutture di peccato" che via via si sono consolidate nella società, ma alla cui origine emerge sempre il peccato personale dell'uomo. La nozione di peccato non è filosofica, ma teologica, poiché il peccato non ha come referente valori impersonali, come potrebbe essere per es. quello della giustizia, ma sempre il Dio personale; anzi, il Dio trinitario, dal cui seno si è rivelato il Figlio, nella incarnazione, per portare all'uomo la Grazia della redenzione. Con la "Sollicitudo Rei Socialis" la dottrina sociale della Chiesa è stata così collocata all'interno del binomio con il quale da sempre è stata fatta la lettura cristiana della storia: il binomio del peccato e della Grazia. La Grazia, intesa come perdono e aiuto dell'uomo, per la conversione del suo cuore. La storia dell'umanità, in effetti, è la storia del coinvolgimento di tutti gli uomini nelle conseguenze, sia del peccato che della Grazia. Il coinvolgimento nel peccato si realizza, socialmente e politicamente, nelle "strutture di peccato" che creano condizionamenti e ostacoli per la realizzazione del bene comune e dello sviluppo dei popoli. Il coinvolgimento della Grazia avviene, socialmente e
politicamente, nella solidarietà tra gli uomini. Quello della solidarietà
è l'unico criterio possibile per superare la brama del profitto e la
sete del potere, in quanto aspetti negativi più caratteristici della
vita sociale contemporanea. Si tratta, infatti, di una solidarietà che
deve realizzarsi non solo tra le singole persone, ma anche tra i gruppi intermedi
e tra le nazioni, tra Nord e Sud; di una solidarietà intesa come opzione
preferenziale per i poveri, nel senso non solo materiale ma anche spirituale
della parola. Ma di quale solidarietà intende parlare la "Sollicitudo Rei Socialis?" La solidarietà è senza dubbio una virtù umana, che potrebbe essere anche annoverata accanto alle quattro virtù cardinali già menzionate, attorno alle quali Seneca ha tentato la sintesi di tutta la sua filosofia morale. Tuttavia, la solidarietà, afferma Giovanni Paolo II, tende a superare se stessa per rivestire la dimensione specificamente cristiana della gratuità totale, e perciò della carità, che è il segno distintivo dei discepoli di Cristo (Gv 13, 35). Il re ferente di questa solidarietà cristiana non è più perciò soltanto l'individuo umano, con i suoi diritti e la sua fondamentale uguaglianza rispetto a tutti, ma l'uomo, in quanto viva immagine di Dio Padre; in quanto persona riscattata dal sangue di Cristo e posta sotto l'azione permanente dello Spirito Santo. Questo uomo, non più definito filosoficamente, ma teologicamente, deve essere amato, anche se nemico, con lo stesso amore con cui lo ama il Signore. Per lui bisogna essere disposti anche al sacrificio supremo: "dare la vita per i propri fratelli" (1 Gv 3, 13). Non è un caso che la "Sollicitudo Rei Socialis", a sostegno di questi concetti, introduce l'esempio di Massimiliano Kolbe, che ha dato la vita per un uomo a lui estraneo, in nome di Cristo, considerandolo come fratello. Su questa base teologica si prospetta l'emergere di un nuovo modello di solidarietà e di unità del genere umano, al quale deve ispirarsi l'azione sociale del cristiano. Un modello che va al di là dei vincoli umani naturali, poiché ha come fondamento la carità. Per la prima volta nella dottrina sociale della Chiesa, la "Sollicitudo Rei Socialis" propone al mondo, come modello di riferimento, la forma della socialità tipica dell'esperienza cristiana; propone la comunione come modello per realizzare il bene comune di tutta l'umanità. Se la Chiesa osa segnalare il proprio modello di comunione come esempio valido universalmente per realizzare la giustizia sociale, lo fa perché possiede la coscienza di essere chiamata dal Signore ad essere, come dice la Lumen Gentium, segno e sacramento di salvezza per il mondo intero. "I meccanismi perversi" della società e le "strutture di peccato" potranno essere vinte, afferma la "Sollicitudo Rei Socialis", solo mediante l'esercizio della solidarietà umana che, per il cristiano, può logicamente configurarsi solo come comunione e perciò solo come frutto della carità. A questo punto non possiamo non sottrarci, ancora una volta, ad una domanda precisa: ma cos'è la carità? Come per la solidarietà, anche in merito alla carità le possibilità di equivoco sono grandi. La carità non consiste solo nel fare qualche cosa per gli altri. È più di questo. Non può essere confusa con altruismo. Il fare, l'agire, l'intervenire, il dare, sono solo i modi in cui si realizza la carità, non sono la sua origine. Non rileggeremo mai con sufficiente attenzione il celebre testo del cap. 13 della prima lettera ai Corinzi: "Anche se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli... anche se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza... anche se trasportassi le montagne con la fede, ma non avessi la carità, non sarei niente. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo alle fiamme per gli altri, ma non avessi la carità, non mi gioverebbe a nulla". È un testo che non lascia scampo. Il cristiano in quanto cristiano, non è nulla anche se facesse le cose più grandi di questo mondo, anche se distribuisse tutti i suoi beni in elemosina, o realizzasse la perfetta giustizia sociale. Non saremmo nulla, poiché per vocazione non siamo stati chiamati a dare o a realizzare la giustizia in quanto tale o a praticare l'elemosina, bensì a condividere con gli altri la nostra persona, in nome di Cristo. La virtù teologale della carità esige dal cristiano di riconoscere l'altro come parte di se stesso; parte della propria persona e della propria umanità. Il cristiano deve lasciarsi determinare dal fatto che Cristo, sulla croce, ha stabilito un'unità oggettiva tra lui e gli altri. Il punto genetico della carità sta nel riconoscere l'unità stabilita tra gli uomini da Gesù Cristo. Il cristiano è chiamato ad amare l'uomo ed a fare unità con lui e, così, a realizzare anche la giustizia sociale, non grazie alla propria generosità, ma in nome di Gesù Cristo. La carità consiste nell'aprirsi all'altro, non in nome dei propri sentimenti naturali, ma in nome di Gesù Cristo. Per questo il cristiano è chiamato addirittura ad amare anche il suo nemico. La carità è, di conseguenza, un gesto che nasce da una concezione diversa di noi stessi. Il punto che siamo perciò chiamati a convertire è prima di tutto la concezione che abbiamo di noi stessi. Una concezione capace di generare in noi una coscienza nuova circa la nostra persona, diversa da quella presente nel mondo. La carità, così intesa, è la conseguenza della nostra adesione, nella fede, alla persona di Gesù Cristo, e della nostra speranza circa il fatto che, come afferma S. Paolo, "le tribolazioni del tempo presente sono senza paragone rispetto alla gloria che ci attende nella vita futura" (Rm 8, 18). Solo in forza delle virtù teologali della fede, della speranza e della carità è possibile per il cristiano valutare in modo adeguato il destino globale dell'uomo. Sono i criteri che ci permettono di realizzare questo destino, dando una risposta adeguata anche alla "questione sociale". La nozione di solidarietà, proposta dalla "Sollicitudo Rei Socialis", sfocia nella nozione di comunione e di carità cristiana, superando tutti gli schemi dottrinali precedenti. Rimane evidentemente vero che non è possibile praticare la carità se non si realizza la giustizia, ma l'enciclica "Sollicitudo Rei socialis" afferma chiaramente anche che, per il cristiano, la giustizia deve essere vissuta e realizzata come, e in forza della carità. È l'insegnamento inequivocabile di S. Paolo: "Anche se dessi tutti i miei beni agli altri, ma non avessi la carità, non sarei nulla". Perché nulla? Perché senza la carità non mi porrei come segno di Cristo di fronte alle esigenze di giustizia sociale presenti nel mondo. In quanto cristiani siamo, infatti, chiamati a rendere presente Cristo nel mondo. Attraverso ogni intervento sociale siamo chiamati a porre nel mondo un segno rivelatore della salvezza. Il vero problema perciò non è quello di sapere se continuerà ad esistere, anche in avvenire, uno spazio di intervento sociale per la Caritas, ma piuttosto di riuscire a precisare sempre meglio la sua modalità di intervento nel mondo. La Caritas, in effetti, ha come missione di essere lo strumento istituzionale attraverso il quale la Chiesa interviene nel mondo, ponendosi esplicitamente come attuazione concreta delle virtù teologali e, in particolare, della carità. I settori e i criteri d'intervento della Caritas, in seno alla società, possono cambiare, come, del resto, sono costantemente cambiati, anche nel corso di questo primo mezzo secolo di esistenza della nostra Caritas diocesana. L'esperienza non lascia nessun dubbio sul fatto che in via primaria, oppure anche solo in via di supplenza rispetto alla società civile e allo Stato, esisterà sempre uno spazio di intervento specifico della Caritas. Ciò è vero anche nell'ipotesi che avvenisse una totale realizzazione del Welfare State. La ragione sta sia nel fatto che l'uomo è irriducibile ad un progetto culturale, sociale e politico di ogni tipo, sia nel fatto che l'amore per il prossimo è costitutivo dell'esperienza cristiana. La Caritas ha perciò un ruolo insopprimibile, indipendentemente dal fatto che si esprima secondo forme istituzionalizzate oppure solo individuali. Il problema dell'avvenire non è quello della sopravvivenza della Caritas in quanto istituzione. Sarà sempre possibile individuare nuovi bisogni dell'uomo e della società e nuovi spazi d'intervento. Il vero problema è quello di riuscire a fare della Caritas un'espressione sempre più eloquente della missione pastorale della Chiesa. Anche se la Caritas copre un settore particolare, non può mai limitarsi a fare gesti solo particolari. Ogni gesto deve, nella misura del possibile, contenere ed esprimere il tutto. La transizione, nella dottrina sociale della Chiesa, da una visione d'intervento fondata sul diritto naturale e perciò sulla virtù della giustizia, ad una visione fondata sulla solidarietà cristiana e perciò sulla comunione e la carità, rende il ruolo della Caritas insostituibile, perché è chiamata a realizzare non solo la giustizia umana, ma la solidarietà cristiana, che nella sua espressione più precisa assume la caratteristica della comunione e della carità. Qualunque dovesse essere la natura e il settore dei suoi interventi in campo sociale, la Caritas è chiamata, con urgenza sempre più grande, ad esprimere nella società due valori specifici del cristianesimo, la cui rilevanza sociale non è misurabile infatti con criteri puramente razionali. Il primo è la gratuità verso l'uomo in difficoltà, poiché è stata gratuita anche la redenzione offertaci da Cristo. Il secondo è quello dell'eccedenza, poiché eccedente è l'amore di Cristo verso di noi. La carità non ha come misura il bisogno dell'altro, ma la ricchezza e l'amore di Dio. È, infatti, limitante guardare all'uomo e valutarlo a partire dal suo bisogno, poiché l'uomo è di più del suo bisogno e l'amore di Cristo è più grande del nostro bisogno. Sarà sempre possibile dare nei confronti dell'uomo e dei suoi bisogni, spirituali e materiali, una testimonianza di gratuità e di eccedenza. Anzi, è un dovere al quale siamo chiamati in forza della nostra vocazione cristiana. Ne consegue, più che mai, che la carità, anche nella forma istituzionale assunta nella Caritas, non può essere eliminata dall'esperienza di una Chiesa particolare e non può perciò essere eliminata dalla nostra Diocesi. Eugenio Corecco, vescovo della diocesi di Lugano dal
1986, dr. jur. can. già professore all'Università di Friborgo
e all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, presidente della
Consociatio internationalis Studio Juris Canonici Promovendo, fondatore nel
1992 e Gran Cancelliere dell'Istituto Accademico di Teologia di Lugano. CARITÀ E SOLIDARIETÀ NELLA SOCIETÀ
POST MODERNA: di Pierpaolo Donati 1. Premessa La dottrina sociale della Chiesa è l'annuncio di una visione «dell'uomo nella società» che può essere descritto con tre parole: civiltà dell'amore (1). È il progetto di una cultura e di una relativa organizzazione sociale che si misurino sul metro dell'amore dell'uomo per l'uomo. Ma la charitas può essere tradotta in una intera «civiltà»? Questo è l'interrogativo, anzi la sfida che tutti noi dobbiamo affrontare quando cerchiamo di capire se e come la dottrina sociale della Chiesa possa effettivamente essere tradotta in pratica sociale e in una concreta per quanto plurale forma di società. Molte culture e molte religioni parlano dell'amore. Ma nessun'altra, come quella cristiana, eleva la charitas a fondamento di un'intera «civiltà possibile». Il compito che oggi ci è affidato è quello di capire il senso delle differenze con altre dottrine, e poi se e come la dottrina sociale cristiana possa essere vissuta e resa effettiva nella storia, e nella storia di oggi. S'intende, almeno in quanto sta in noi, dato che il cristiano non può dubitare che Dio sia fedele alle Sue promesse. Il compito è reso particolarmente arduo e improbabile dal fatto che la società odierna sembra andare, almeno in apparenza, sempre più contro la carità e la solidarietà come basi del vivere sociale. Nuovi egoismi appaiono all'orizzonte. Nuove chiusure emergono ovunque. E non solo nelle aree più depresse del mondo, ma anche nel seno stesso delle società più modernizzate. Anzi, proprio in queste ultime noi vediamo uomini che erigono nuove e potenti barriere a difesa dei propri interessi, delle proprie fortune e dei propri privilegi contro altri uomini. Chi è sano teme di essere chiamato a dare qualche aiuto a chi è malato, chi ha un lavoro teme di doverlo dividere con chi non ce l'ha. Così pure chi è solo (l'anziano, il bambino) o debole (come i portatori di handicap), o è incorso in una situazione difficile o tragica (il disadattamento, la tossicodipendenza, ecc.), si vede sempre più escluso da una società pensata e organizzata per i «forti», cioè chi sta bene, è autonomo, ha potere contrattuale e di scambio. Ci si scandalizza spesso delle società antiche divise fra liberi e schiavi. E non si vede che la società contemporanea avanzata è divisa in una maniera di fatto non molto dissimile fra gli «inclusi»e gli «esclusi», i privilegiati e l'underclass (la «sotto classe», costituita da disoccupati ed emarginati), i nativi e gli immigrati. Mondi spesso non comunicanti, tra i quali crescono le difficoltà di mutua comprensione e solidarietà. Dobbiamo allora chiederci: davvero la società post moderna può fare a meno, oggi e nel prossimo futuro, di carità e solidarietà? Nessuno, in realtà, può ragionevolmente pensarlo. Neppure i cosiddetti «non credenti». Il problema, perciò, diventa quello di capire in che senso la società post moderna abbia bisogno di carità e solidarietà, quali possano essere le valenze culturali e le funzioni sociali di carità e solidarietà, e come esse possano venire adeguata mente espresse e messe in pratica nelle nuove condizioni di complessità della vita sociale che esce dalla modernità. Alla fine di questo percorso (non «prima»!), quindi senza presupporre alcun dogmatismo, si vedrà che il messaggio cristiano è ancora, anzi diventa sempre più, l'unica base credibile e realistica per un progetto di società post moderna che, a partire dall'Europa, è oggi spinta per necessità a riorganizzarsi su fondamenta completamente diverse da quelle della modernità (ovviamente, pur senza abbandonare le migliori acquisizioni della modernità). 2. Carità e solidarietà: due termini distinti ma relazionati. 2.1. Distinguere per relazionare Il senso che noi cerchiamo di osservare e rappresentare per i concetti di carità e solidarietà deve rispettare la loro natura propria, senza confondere i due termini fra di loro o con altri concetti (2). Dobbiamo distinguerli, ma non per separarli, bensì per relazionarli, giacché solo la loro relazione li rende comprensibili e traducibili sul piano pratico, e quindi efficaci. La solidarietà è l'aspetto sociale della virtù della carità intesa come amore soprannaturale alla persona. Entrambe radicano in Cristo. La carità si innesta alla prospettiva soprannaturale in modo immediato, mentre la solidarietà ne è una manifestazione più esterna, e dunque ha un riferimento più indiretto, tale da consentire molte e differenti mediazioni umane. Il radicamento in Cristo distingue carità e solidarietà dalla «filantropia» e dalla «benevolenza» umana, che non vanno certamente disprezzati, ma sono un'altra cosa. La parola filantropia è stata impiegata dai Padri della Chiesa (segnatamente Ireneo di Lione) che si richiamava a San Paolo nell'evocare la filantropia di Cristo (lettera a Tito, 3, 5), ma nel linguaggio attuale questo termine è segnato dall'età dei Lumi, così come la parola «benevolenza» (Bernardino di S. Pietro). Il socialista Saint Simon, all'inizio del XIX secolo, faceva appello ai filantropi per finanziare il suo progetto di Nuovo Cristianesimo (1825). Ma si trattava, precisamente, di un cristianesimo senza Cristo. C'è, in questo pensatore come in molti altri dell'Ottocento, la volontà di ripensare l'amore del prossimo e la solidarietà umana senza riferimento spirituale e ancor meno a Cristo. Lo stesso Augusto Comte, il teorico del positivismo moderno, esaltava la filantropia nel suo vasto progetto di organizzazione culturale del mondo, copiato in un certo modo sull'organizzazione cattolica, ma senza Cristo. Ancor oggi molti esaltano la filantropia richiamandosi a varie ideologie liberali, marxiste o neo marxiste. Ma queste concezioni che pure parlano di solidarietà umana non ricevono la loro linfa vitale dalla charitas e rischiano continuamente di cadere nella sterilità. «La Chiesa non annuncia un messaggio filantropico, la sua Buona Novella è di un altro ordine. Si potrebbe perfino immaginare che, in un domani, la proposta di una civiltà dell'amore entri in opposizione non già con un'impresa violenta di disumanizzazione che contraddice in maniera evidente la legge naturale, come i totalitarismi del XX secolo, ma con un progetto filantropico che si richiami ai diritti dell'uomo. Il conflitto potrebbe insorgere dalla contestazione di una filantropia, cioè a dire da un amore del prossimo, che fosse proposto senza riferimento a Cristo» (P. de Laubier, 1990, pp. 65 e ss.). Se si guarda al legame fra solidarietà e carità, se, in altre parole, l'una è letta alla luce dell'altra, allora si vede come, per comprendere la loro relazione, si richieda un'antropologia. Quella cristiana è certamente tale da mostrare l'insondabile ricchezza di entrambe, e di ciò a cui entrambe alludono, precisamente con il relazionarle ad una visione dell'uomo che consente di non slegare, ma di connettere fra loro, carità e solidarietà. Una certa solidarietà può esistere anche nel mondo animale. Perché la solidarietà umana è differente? Perché e solo perché essa radica nella carità, e la carità è solo umana in quanto l'umano è relazione a Dio (la dignità dell'uomo non è in se stesso, ma nella relazione di filiazione a Dio). Occorre ricordare la Scrittura: «Noi sappiamo che amiamo il nostro prossimo dice S. Giovanni (Gv. I, 5,2 ) quando amiamo Dio». È su questa base che S. Tommaso definisce la carità come amore di Dio e amore dei fratelli a causa di Dio o in Dio. La sfida teologica che questo punto solleva meriterebbe uno svolgimento adeguato, che tuttavia non rientra nel mio compito di sociologo. Resta il fatto che non può esservi una visione sociologica «veritativa» che non abbia un presupposto generale di ordine metafisico, e nella fattispecie questo presupposto consiste nel fatto che l'agire caritativo non ha senso proprio e pieno se non è azione che muove da Dio e si riferisce a Dio: Dio ne è il motore e il fine. Le forme della solidarietà che essa esprime debbono riflettere questa avventura, insieme umana e divina, che ci colloca nella città terrestre, sospesa fra la città celeste e quella degli inferi (come distingue S. Tommaso, correggendo il dualismo di S. Agostino che vedeva solo le due città, celeste e diabolica). Attraverso la filantropia, beninteso, passano gesti di solidarietà umana concreta che non debbono per nulla essere svalutati o sottovalutati. La Chiesa vive nei cuori che cercano sinceramente la verità, in certi casi anche indipendentemente dalle istituzioni che rappresentano e mediano la «via normale» (come diceva il Card. Journet). Ma non possiamo sostituire la carità con la filantropia. Chi facesse questo, come ha fatto l'Illuminismo nell'epoca moderna, va incontro alle più grosse delusioni. È quanto di fatto è avvenuto nella storia degli ultimi decenni. Oggi, il risorgere degli egoismi di cui ho detto rende nuovamente evidente ed attuale il fallimento della concezione e dell'esperienza illuministica della carità e della solidarietà. Quella concezione è ormai al tramonto, dal momento che ha trasformato la «fraternità», quella posta nella triade della Rivoluzione francese, in un'arida giustizia fiscale o nel gesto individuale e privatistico di dare il superfluo come beneficenza. La verità è che, se la libertà e l'eguaglianza debbono essere armonizzate con la solidarietà (fraternità), e tradursi in una «civiltà dell'amore» anziché in una società competitiva dove l'uomo è lupo per l'altro uomo, allora debbono radicare in Cristo, debbono avere radici in forma di croce.
Ma l'approccio positivistico, secolarizzando il legame fra la carità e la solidarietà, ne ha rotto il senso interno. Di fatto, la società moderna ha cercato di realizzare due operazioni: da un lato, ha affermato una concezione della carità come fatto individuale e privato; e dall'altro ha pensato di istituzionalizzare la solidarietà nel welfare state. Entrambe queste operazioni hanno distorto il senso della carità e della solidarietà, e talora hanno anche condotto a esiti perversi. Non si può certo rifiutare la carità come atto filantropico privato, né si può certo respingere lo Stato sociale, che è e deve restare una basilare istituzione della nostra società. Ma la filantropia e il welfare state (lo Stato sociale) non sono né equivalenti né sostituti funzionali della carità e della solidarietà, come la dottrina sociale della Chiesa intende questi termini. Non bisogna metterli in antitesi. Sono semplicemente un'altra faccenda. I moderni diritti sociali di cittadinanza, ispirandosi ai quali sono stati eretti i nostri sistemi di sicurezza sociale, i servizi sanitari e sociali, i sistemi fiscali per la redistribuzione e la giustizia fiscale, sono stati indubbiamente conquiste importanti e non possono certo essere messi in causa. Ma essi, come oggi molti arrivano a riconoscere, non possono sostituire né la carità né la solidarietà. Non lo possono per almeno due buoni ordini di motivi: • primo, perché le istituzioni di solidarietà proprie dei welfare states non eliminano, talora anzi acuiscono, il bisogno di esperienze, vissuti e pratiche di solidarietà a livello interpersonale e di relazioni primarie fra la gente, nei mondi della vita quotidiana (3); • secondo, perché i sistemi di welfare hanno bisogno di motivazioni profonde o «ultime» che sostengano il consenso (economico, sociale e politico) fra i cittadini per mantenere e sviluppare la solidarietà che si concretizza nella redistribuzione delle risorse operata dallo Stato (anche attraverso il mercato, s'intende un mercato «regolato»). Proprio la crisi di questi presupposti mette oggi in dubbio il welfare state (4). Appare allora evidente che occorre rifondare le basi etiche dello Stato sociale. Ma questo obiettivo non può più essere perseguito sui binari della modernità, e della sua cittadinanza statalistica. E allora viene in primo piano una nuova società civile e la necessità di ridefinire la cittadinanza «da statuale a societaria» (P. Donati, 1993), dando cioè impulso ad un sistema di diritti di convivenza che siano espressione della società, della sua soggettività, anziché di una sovraimposta soggettività dello Stato (5). Lo slogan «dalla carità allo Stato sociale», che sintetizza in poche parole la storia di due secoli di lotte sociali in Europa, contiene certamente molte e basilari conquiste sociali. Ma non può essere assolutizzato. Se inteso come necessità che lo Stato sostituisca la carità e le forme solidaristiche di società civile può addirittura risultare fuorviante e oltremodo dannoso. Le istituzioni del welfare state possono reggere solo se hanno il sostegno di una cultura solidaristica. E la cultura solidaristica ha bisogno di un'anima. Senza un'anima, viene meno la linfa vitale di tutto ciò che rappresenta il vanto delle grandi conquiste sociali dell'epoca moderna. Ecco perché la carità non può cessare di essere la linfa vitale della solidarietà, se questa deve a sua volta sostenere l'ethos del welfare state e l'operare dei suoi apparati, pubblici, privati e misti. Senza un'ispirazione che affondi in una visione spirituale dell'uomo e della sua dignità in quanto figlio di Dio, tutte le istituzioni di solidarietà sociale si rivelano rimedi passeggeri, espressioni di lotte fra interessi, o meccanismi dettati da impulsi contingenti che possono essere anche distrutti facilmente e rapidamente. Non bastano i buoni sentimenti, e neppure le lotte sociali, se ciò che sostiene le istituzioni sono solo rapporti di forza. I frutti della pura negoziazione degli interessi sono sempre precari. In breve. La società post moderna deve oggi prendere atto che certe scelte compiute dalla modernità sono state dettate da motivazioni parziali e riduttive. I problemi sociali che rimandano ad esigenze di solidarietà umana non possono essere risolti trasferendo le responsabilità su anonime «società di assicurazioni», in primis lo Stato come massimo garante dei sistemi assicurativi. Sotto questo aspetto sono stati fatti non pochi errori, che peraltro, oggi, i governi non hanno difficoltà a riconoscere. Oggi c'è bisogno di ritrovare un'anima per la solidarietà. Bisogna per questo orientarsi ad una nuova e profonda «conversione», che è insieme spirituale, culturale, sociale, politica, economica. Di qui l'attualità, sempre antica e sempre nuova, del messaggio cristiano. La carità è spirito. La solidarietà è categoria morale, e di conseguenza, anche sociale, economica e politica. La dottrina sociale, a questo proposito, è molto chiara. Essa si presenta compiutamente come visione soprannaturale che ispira una cultura umana. Il suo ragionamento è semplice. Gli uomini hanno la stessa dignità, ma l'eguaglianza della dignità non significa uniformità: le differenze sono in noi, tra noi, con noi, e non periscono, anzi si rigenerano continuamente. Quando di nuovo vengono in primo piano, e ci si trova di fronte a potenti squilibri (fra ricchi e poveri, sani e malati, deboli e forti) che cosa si deve fare ? Il pensiero sociale della Chiesa è quanto mai illuminante. Esso ci propone non delle ricette, ma un cammino, la cui direzione direttrice è segnata dal rispetto amoroso delle differenze finalizzato al massimo di reciprocità (= solidarietà) nelle reciproche relazioni. Il primo principio è certamente quello del rispetto delle differenze, attraverso un pieno riconoscimento che significhi possibilità di ciascuno di svilupparsi seguendo le proprie peculiari inclinazioni, nel rispetto degli altri e del bene comune della società e della comunità mondiale, senza che alcun gruppo umano possa attribuirsi una natura superiore o superiori diritti, né tanto meno operare alcun tipo di discriminazione che possa ledere i diritti fondamentali della persona umana. Ma il rispetto reciproco non basta. Occorre instaurare rapporti di fratellanza. Il dinamismo della fratellanza è, appunto, quello della carità: «ogni uomo è mio fratello» è qualcosa che, storicamente, solo il cristianesimo ha affermato con una pienezza di contenuti che non ha riscontro in nessun'altra religione o cultura. La carità non è un semplice sentimento di benevolenza o di pietà, essa ha come scopo di permettere ad ogni individuo di vivere davvero in condizioni dignitose che gli spettano di diritto e dalle quali dipendono la sua sopravvivenza, la sua libertà e il suo sviluppo in genere. La carità fa vedere in ogni uomo e in ogni donna un altro se stesso, in Cristo, secondo l'insegnamento divino: «amerai il prossimo tuo come te stesso» (Commissione Pontificia «Iustitia et Pax», 1988, pr. 23). Ma riconoscere la propria fratellanza non basta ancora, se tale riconoscimento non diventa comportamento pratico. Ed è questo il piano della solidarietà, fra tutti gli uomini, ricchi e poveri, sani e malati, più dotati e meno dotati, fortunati e sfortunati. L'enciclica di Giovanni Paolo II Sollicitudo rei socialis (1987) ha precisamente insistito sul fatto che la solidarietà nasce dal senso della interdipendenza «sentita come sistema determinante di relazioni nel mondo contemporaneo e...assunta come categoria morale. Quando l'interdipendenza viene così riconosciuta, la correlativa risposta, come atteggiamento morale e sociale, come "virtù", è la solidarietà» (pr. 38). Ne va della pace tra gli uomini, e tra le nazioni: «Opus solidaritatis pax, la pace come frutto della solidarietà» (pr. 39).
Non si può ben intendere la solidarietà se non la si riferisce al bene comune. Ora, il problema del bene comune dal punto di vista sociologico è oggi diventato un puzzle. Dobbiamo specificare il significato dei concetti di solidarietà e di bene comune, dato che questi concetti sono divenuti troppo ampi e complessi per poter essere utili nella discussione e nella risoluzione pratica dei problemi. Per dirla in breve, finora sono stati teorizzati e praticati quattro significati di solidarietà. 1) Un primo significato è stato quello di organicità. Il referente storico più famoso è l'apologo di Menenio Agrippa. Nella visione antica, la solidarietà è concepita come quella di un corpo costituito da membra che stanno solidalmente cioè funzionalmente in rapporto organico reciproco. Questa concezione non può più essere praticata in modo ingenuo e immediato, perché la società non è più concepibile né governabile come un «corpo». Se si vuole mantenere un mercato aperto (e i relativi mass media) non si può mantenere con ciò stesso una strutturazione «corporativa» della società. E per questo non possiamo più rappresentarci la società come un corpo soggetto e neanche possiamo pensarla come "fatta" di soggetti. I soggetti, infatti, la trascendono. La società è oggi concepibile solo come relazione, cioè come una rete tra soggetti che sono «ambiente» (in senso sistemico) di un tessuto di relazioni. Bisogna capire perché le cose stanno così, e trarre tutte le conseguenze dal fatto che, oggi, la società non può più essere rappresentata in una forma 'organica’. Dire che un certo numero N soggetti sono in rapporto organico funzionale come nell'apologo di Menenio Agrippa (nel quale c'erano i contadini e gli artigiani e ciascuno era funzionale perché l'artigiano dava i suoi prodotti al contadino che a sua volta lo ripagava con i suoi prodotti agricoli ecc.) non ha più un significato credibile, perché il concetto di organicità è un'analogia che ormai si è persa nel tempo e che non ha più possibilità di essere perfino pensata nel senso antico. Ma questo significato non è mono: I'immagine organica conserva un valore simbolico veritativo in quanto ci richiama ad una comune «famiglia umana». Se vuole mantenere una validità, deve essere portata ad un nuovo livello di generalizzazione; cioè, deve essere tradotta in una appropriata rappresentazione simbolica di una comune appartenenza alla umanità. In tal caso, diventa il richiamo ad una fondamentale interdipendenza fra gli uomini che è umana, in quanto distinta dalle interdipendenze sociali (fra ruoli), economiche (interessi materiali), politiche (di organizzazioni partitiche). 2) Una seconda concezione di solidarietà è quella che, tradizionalmente, ne fa un sinonimo di beneficenza. Andare verso gli altri per aiutarli, per dare loro una mano con spirito altruistico. È la norma sociale del dono o norma dell'altruismo (B. Cattarinussi, 1991) come dovere sociale, che si riferisce alla persona e vale soprattutto nelle relazioni interpersonali. Non può essere utilizzato a livello societario, perché manca di una definizione del bene comune. A livello dell'intera società, ossia per ogni e qualunque suo ambito, non si può sostenere che una persona è solidaristica (ovvero si regola in base al bene comune) quando e perché dona qualche cosa. Se un'azienda dovesse regolarsi in termini di solidarietà in questo senso, ossia solo con motivazioni di beneficenza, non resisterebbe due giorni sul mercato. Quindi questo significato è parziale. Per quanto esso conservi validità in un suo ambito di relazioni intersoggettive, se viene utilizzato in modo generalizzato appare del tutto insufficiente, specie allorché si richiedono forme più complesse e organizzate di solidarietà, che vanno oltre la sfera privata e riguardano l'agire delle istituzioni. 3) La terza concezione è quella della solidarietà nel senso di mettersi assieme per condividere degli ideali o degli interessi (che possono essere universalistici o particolari), e per renderne più efficace la promozione. Solidarietà nel senso generico di socius. Indubbiamente questo concetto ha qualche cosa di vicino ad un significato relazionale di bene comune, ma certamente non ne coglie tutto il dinamismo interno: è un pensare a individui isolati che si riuniscono per mettere in comune qualcosa. Ma si può trattare anche di qualcosa di egoistico. Questa, dunque, è un'immagine insufficiente per definire la categoria del bene comune inteso come solidarietà, perché riflette un individualismo metodologico che è notoriamente incapace di dar conto delle relazioni come tali, anche se il concetto di "condivisione" ha una sua validità e può ben essere usato da un certo punto di vista. 4) Un quarto significato di solidarietà è quello che ne fa un sinonimo di giustizia o di equità nella distribuzione dei beni. Lo Stato, per esempio, è solidaristico se, in questo senso, si preoccupa della giustizia nella distribuzione dei beni verso i poveri, gli indigenti, chi è svantaggiato, ecc., in breve se non è sordo davanti ai bisogni di chi ha di meno, di chi non ha il necessario. Anche questo concetto è parziale, in quanto si riferisce alla dimensione redistributiva delle risorse. Di fatto, rischia spesso di essere confuso con una sorta di «beneficenza a livello sistemico», ossia organizzata e regolata da parte dello Stato. La concezione dello Stato socialdemocratico e dello Stato delle assicurazioni sono state appunto queste: una soluzione per poter compensare situazioni di carenza o di svantaggio mettendone la responsabilità sulla collettività anonimamente intesa. È il ben noto principio di compensazione e inclusione dei moderni welfare states. Tutte queste concezioni di solidarietà sono importanti nel loro ambito, ma diventano concezioni specifiche, con senso limitato. Il concetto di organicità richiama il valore simbolico universalistico della «famiglia umana». Il concetto di beneficenza richiama la norma dell'altruismo come regola e dovere sociale. Il concetto di condivisione di ideali o interessi mette l'accento sul fatto associativo. Il concetto di giustizia o equità significa l'esigenza di una redistribuzione dei mezzi o risorse materiali che servono per vivere. Sul piano concreto delle politiche sociali, queste concezioni valgono in casi e ambiti di applicazione che sono ristretti. Se si vuole parlare della solidarietà come base di un bene comune dell'intera società, dell'intera comunità politica, occorre che, al di là di tali concezioni, la solidarietà diventi un valore e un mezzo simbolico generalizzato che deve servire per lo scambio fra tutti i sottosistemi della società, dentro e fuori delle politiche pubbliche in senso stretto. Al pari del denaro, del diritto, del potere, dell'influenza e di altri mezzi simbolici generalizzati di interscambio, la solidarietà deve diventare un valore che circola in tutta la società ed è riconosciuto da tutti, anche se prende forme diverse nei diversi ambiti di vita, di lavoro e di relazione sociale. 2.4. Per ragioni di chiarezza sarà dunque opportuno sintetizzare e schematizzare il discorso sulla solidarietà. La solidarietà si differenzia in varie forme: • quelle del mercato (per esempio delle corporations, dei contratti di solidarietà, ecc.), • quelle dello Stato (per esempio fiscale), • quelle delle associazioni (soprattutto come appartenenza, come membership) e • quelle di «mondo vitale» (intersoggettiva, più occasionale o più stabile come nelle comunità primarie di vita quotidiana, per esempio tra famiglie). Non c'è più "una" forma della solidarietà sociale. Ciascuna di queste forme ha il suo proprio codice simbolico e normativo, le sue pratiche, le sue regole. Bisogna quindi saper distinguere la solidarietà economica, quella politica, quella associativa e quella intersoggettiva delle comunità primarie. Sintetizzo tutto ciò nella fig. 1 (6). È importante osservare che la solidarietà si differenzia anche all'interno delle quattro grandi sfere di relazioni individuate (fig. 1). In particolare, per quanto riguarda il tema che qui si dibatte, esiste una differenziazione dei codici semantici della associazione (per esempio un gruppo di Caritas) come relazione di reciproca affermazione positiva fra chi aiuta e chi è aiutato. Questi codici si pluralizzano secondo le linee distintive della solidarietà relazionata alla libertà (7). Ed è per questo che possono nascere associazioni finalizzate alla semplice animazione, oppure ad una più profonda testimonianza evangelica, oppure ancora associazioni che intervengono su single issues, a favore di disoccupati, bambini maltrattati, anziani soli, e così via. Ma questa differenziazione pone grossi problemi, perché le solidarietà specifiche (differenziate) possono diventare deboli, o anche degenerare, se non vi è un senso del bene comune che le identifichi relazionalmente. Non a caso, oggi, le pratiche di solidarietà si frammentano e risultano per questo difficili da perseguire nell'interfaccia fra mondi vitali e apparati dei servizi pubblici formali. Le solidarietà associative di membership, ad esempio, possono fare problema se diventano modalità di gestire «mondi chiusi» dal punto di vista culturale, come capita nei fenomeni migratori quando un gruppo etnico si chiude nella sua sub cultura praticata in un quartiere di città o in una piccola comunità rurale. Ma proprio questo è il punto: le esigenze di un'auto organizzazione che rispecchiano particolari interessi e bisogni di auto identificazione socio culturale non possono andare contro la solidarietà universalistica. Se si tratta di autentica solidarietà, occorre che esista un punto di vista più generale che salvaguardi le solidarietà più ristrette (appartenenze) dentro una solidarietà più vasta. Ed è qui che il punto di vista cristiano mostra una apertura e una solidità senza paragoni, quando esso propone di vedere non tante razze in conflitto fra loro, ma «una sola razza, quella dei figli di Dio» (un'espressione cara a mons. Josémaria Escrivà). In termini sociologici, mentre la solidarietà si differenzia in tante forme, si rende necessario il fatto che la solidarietà sia resa circolante e integrata fra i vari sotto sistemi (o forme della differenziazione). Tale integrazione si realizza, o deve realizzarsi, mediante l'istituzionalizzazione della solidarietà sociale come mezzo simbolico generalizzato di interscambio fra i vari sotto sistemi. Come si può realizzare tutto questo? Appunto, pensando e praticando la solidarietà
come un valore che è insieme universale (vale per tutta la società)
e specifico (dei suoi vari ambiti), cioè riconosciuto da tutti (e da
tutti i sotto sistemi della società), mentre si concretizza in modi diversi
per riferimento ai diversi ambiti applicativi nei quali il concetto di bene
comune viene attualizzato. Ecco, dunque, in che senso il bene comune diventa
complesso e articolato, differenziato e integrato, in un modo meno generico
di un tempo (fig. 2). La solidarietà è, in un senso, un valore universale, ma, come mezzo simbolico specifico, essa è fondamentale proprio per produrre quest'ultimo tipo di beni, che possono essere distinti in: a) beni comuni relazioni di tipo primario (come la famiglia e i piccoli gruppi amicali e di vicinato), b) beni comuni relaziona li di tipo secondario o collettivo (forme di mutualità, volontariato, cooperazione di solidarietà sociale). Nella società post moderna la solidarietà diventa qualcosa che serve per produrre quelli che possiamo chiamare i «beni comuni relazionali». Per fare degli esempi. Sappiamo quanto sia importante la famiglia come luogo della solidarietà fra i sessi e fra le generazioni. È nella famiglia che vengono compensate disuguaglianze, differenze e svantaggi che non possono essere eliminati o compensati altrove, secondo il principio «da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni». Ebbene, una famiglia non la si compera col denaro, non la si può neanche imporre con il diritto, non la si può ottenere con l'influenza o con il potere. La si può solo ottenere attraverso relazioni di solidarietà (quelle familiari). La famiglia si produce attraverso la famiglia. Questo principio vale per tutti i gruppi primari. Di più: vale anche per tutti i gruppi o associazioni collettive più ampie che si configurano come sfere di autonomia sociale nella società distinte da attori di mercato (come aziende o banche) e da attori dello Stato (istituzioni della pubblica amministrazione o che agiscono per conto di essa). Si tratta di tutte quelle iniziative che hanno a che fare con le attività di care, nel vastissimo campo dei servizi sociali, sanitari, educativi, culturali, del benessere sociale.
3.1. Nell'arco di un secolo, dalla Rerum Novarum (1891) alla Centesimus Annus (1991), il Magistero sociale della Chiesa si è rivelato profetico. Affrontando la famosa «questione sociale», Leone XIII diede indicazioni che, a buon diritto, Giovanni Paolo II ha interpretato come profetiche. Non solo la visione antropologica cristiana si è rivelata ben più lungimirante di quella marxista, ma anche di quella liberale. Nei termini del problema che qui ci interessa, la dottrina sociale della Chiesa è stata veramente profetica non solo sul piano soprannaturale, ma anche, se è consentito dirlo, sul piano umano, sociale, storico, culturale, economico e politico. A distanza di un secolo, la lettura cristiana della società si è rivelata più aderente alla realtà di quanto non abbiano potuto farlo le ideologie sia marxiste sia liberali. Il Magistero sociale della Chiesa non crede certo da oggi nel fatto che l'uomo è un essere solidale per natura e che questa affermazione, in quanto traduce un dato della legge naturale, deve avere manifestazioni storiche concrete nel farsi della società, attraverso la generazione di forme sociali in cui tale realtà si traduce al di là di ogni dottrina socio politica contingente. È il tema delle nuove forme di solidarietà.
In effetti, l'odierna società complessa si caratterizza
sempre più per l'emergenza di fenomeni associativi esterni sia alla sfera
del mercato sia a quella politica. Si tratta di sfere di relazioni sociali che
non seguono né la logica della utilità e del profitto, né
quella del comando su risorse. In altre parole, non sono né private né
pubbliche nel senso che questi termini hanno per la modernità. Si devono
coniare nuovi termini e si parla allora di "privato sociale", "terza
dimensione", "terzo settore". La definizione del privato sociale o terzo settore non è possibile se non entro una teoria della differenziazione sociale, ossia di una teoria che consente di individuare le forme e i processi delle associazioni intese come fenomeno propriamente sociale. In questa visione delle cose, si può sostenere che le iniziative cosiddette di terzo settore si caratterizzano per avere una loro propria distinzione direttrice, cioè una direzione guida che consente ad un attore sociale di auto organizzarsi senza perdere di vista la propria finalità interna, sapendo dialogare con tutti gli elementi dell'ambiente, relazionandosi ad essi in un sistema di cooperazione (accoppiamento strutturale e anche culturale) più adeguato alle sfide che si incontrano. Si tratta di capire quale questa distinzione direttrice sia. A mio avviso, tale distinzione direttrice non è né quella profit/non profit, né quella privato/pubblico, o altre simili. Queste distinzioni tradizionali oggi cadono. I confini si confondono e si annullano, anche perché l'oggetto di cui stiamo discutendo è proprio il 'luogo' dove la società va al di là di se stessa. È qui, in primis, che la società amplifica la sua propria complessità (9). Non si deve per questo pensare che la sfera delle associazioni sia separata dalle altre sfere (o sub sistemi). In particolare vanno evidenziate le interazioni che esistono fra società civile e cittadinanza: il terzo settore non è meno il prodotto della prima che della seconda. Invero, il terzo settore richiede come presupposto la cittadinanza, e contribuisce ad ampliare la medesima. Come tipo di relazione sociale, il terzo settore diventa esso il referente per un nuovo complesso di diritti di cittadinanza. La società attuale fa esplodere la relazionalità. Il terzo settore di cui si parla non può essere distinto altro che per la qualità delle relazioni che stabilisce al proprio interno e nei rapporti con gli altri 'settori' o 'sistemi' (sempre analiticamente intesi). In questo senso, le iniziative di terzo settore sono selezioni diverse da quelle operate dagli altri settori, rappresentano combinazioni proprie, che hanno vantaggi propri, e naturalmente costi propri. Queste iniziative richiedono, in breve, un codice simbolico proprio, e propri mezzi generalizzati di interscambio e di comunicazione.
La tesi che vorrei avanzare in questa sede è che il settore delle associazioni si viene a distinguere per il fatto di rispondere a esigenze e di produrre beni specifici, non producibili da altri tipi di sistemi relazionali. Il ruolo delle iniziative cosiddette di terzo settore è quello di interpretare un'esigenza societaria di grande portata e del tutto nuova sul piano storico: la produzione di beni relazionali. Né il mercato né lo Stato producono questo tipo di beni. La comunità primaria, invece, li produce, ma si tratta di beni che restano per così dire interni ad un orizzonte di relazioni che non acquistano la rilevanza e lo status di una azione sociale collettiva che possa essere detta di tipo 'politico' dal punto di vista del sistema societario. I «beni relazionali» non sono né 'privati' (nel senso moderno del concetto di privacy), né 'pubblici' (sempre nel senso moderno del concetto di public). La sociologia relazionale sottolinea come questi beni non coincidano con i beni pubblici o collettivi di cui parlano le teorie normative, funzionaliste, strutturaliste, di rational o public choice oggi correnti (10). Queste ultime arrivano a sottolineare che ci sono ragioni valide per andare «al di là del proprio interesse» anche solo in termini di una concezione dell'altruismo come utilità definita in termini sociali più ampi (J.J. Mansbridge ed., 1990), o perché si riconosce che l'«empatia» con gli altri è uno strumento di incontro e risoluzione dei problemi, anche internazionali (R.O. Keohane, 1990), indispensabile. Ma questo non basta. Proprio le realizzazioni che oggi possiamo esaminare sul piano pratico (le forme solidaristiche di privato sociale, come quelle della Caritas) richiedono una nuova teoria della solidarietà sociale. Le iniziative dell'associazionismo di terzo settore nascono da esigenze nuove e irriducibili. Esse rispondono ad alcuni temi essenziali riguardo a come osservare e valutare i bisogni sociali e le risposte ad essi in una società complessa di welfare avanzato. Il senso del loro "eccedere" la società data può essere analizzato sotto tre aspetti. Il primo è quello della ridefinizione del "bene comune": come può essere inteso all'interno delle politiche sociali. Il secondo è quello delle azioni collettive che possono essere intraprese per promuovere una prospettiva solidaristica laddove Stato e Mercato risultano insufficienti o non adeguati. Il terzo è quello della organizzazione societaria che consegue a tutto questo. A mio avviso, nessuno degli slogan oggi in voga (welfare state vs. mercato, "meno Stato, più società", ecc.) coglie la novità dei cambiamenti in atto. In questo senso si deve sollecitare una riflessione decisamente più approfondita. L'idea guida deve riferirsi al fatto che non già le contrapposizioni, o i rapporti di correlazione inversa, ma la differenziazione nella complessità societaria costituisce la novità. Ciò implica soprattutto una nuova elaborazione delle teorie sulla solidarietà nella società.
Le teorie odierne dei "beni collettivi", in generale a sfondo utilitarista, mancano oggi di una visione chiara di ciò che si sta producendo a riguardo del concetto e della pratica di bene comune. Precisamente, il più delle volte queste teorie ricorrono ad una concezione dei «beni» che non tiene conto della differenziazione societaria che si genera in una società altamente complessa fra tipi diversi di interessi (in senso lato), come gli interessi privati, quelli collettivi, quelli diffusi, quelli comunitari e gli interessi pubblici. L'emergenza di questa differenziazione degli interessi, se da un lato comporta una notevole complessificazione dei tipi di diritti da tutelare, dall'altro comporta anche l'abbandono del concetto di 'bene comune’. Non potendo ricondurre tutti questi interessi ad un unico «bene», il concetto di «bene comune» viene abbandonato. Ma questo abbandono denuncia solo un ritardo nella consapevolezza di come il bene comune debba, e di fatto venga ad articolarsi in forme diverse da un tempo. Bisogna capire che cosa significhi che il bene comune deve oggi essere inteso in modo meno onnicomprensivo di un tempo e insieme più sofisticato, cioè come bene relazionale. Le teorie tradizionali del bene comune (sia quella cattolica sia quelle di matrice utilitarista o marxista) hanno espresso concezioni importanti, ma esse devono essere radicalmente riviste nelle loro basi sociologiche, aggiornate e sviluppate in un quadro più generale, quello della complessità post moderna. L'osservazione, su questo punto, è che le definizioni tradizionali mancano di relazionalità. Pur essendo definizioni che colgono aspetti importanti ed essenziali, sia dal punto di vista culturale che economico o politico, non spiegano la solidarietà come fatto propriamente sociale. Esse hanno in genere una concezione riduttiva del bene comune in quanto relazione che gli uomini hanno tra di loro nei mondi della vita quotidiana. Nella visione cattolica tradizionale (tomista), il bene
comune è identificato in un ordine naturale a cui tutti i singoli soggetti
(individui uomo) si riferiscono. Ma cosa intercorre fra loro ? La societas in
questo senso, non è ancora concepita e praticata secondo il suo farsi
storico. La teoria, al riguardo, non è sviluppata perché solo
la società moderna si incarica di sviluppare una società in questo
senso, cioè come relazionalità, in altri termini come sviluppo
di relazioni tra gli uomini in precedenza "sconosciute", che erano
come compresse e comunque non esistevano di fatto. È la società
moderna che sviluppa il cosiddetto "spazio del sociale" tra il pubblico
e il privato. Questo scenario è stato spiegato circa dieci anni fa, allorché è stata formulata la teoria del privato sociale (Donati, 1978). Allora, seguendo l'osservazione che fino all'epoca moderna il mondo sociale può essere descritto come polarità tra il pubblico (la lexis e la praxis, cioè il discorso e l'azione nella sfera pubblica) e l'oikòs (il privato, la casa, la famiglia come momento privato), si evidenziava come il bene comune non fosse più concepibile né come "comunità", né come Stato (o bene pubblico). Per la ridefinizione del bene comune si doveva fare riferimento a quella sfera sociale, né pubblica, né privata, né comunitaria in senso tradizionale (ad esempio secondo le categorie di Tönnies), che all'inizio della storia quasi non esiste, e si sviluppa solo con l'epoca moderna. È in questa sfera, differenziata funzionalmente, culturalmente e strutturalmente, che si viene chiarendo il senso e l'operatività propria di una solidarietà sociale diversa da quello dello Stato e del mercato. La società post moderna si identifica con lo sviluppo di quella dimensione "sociale" che si espande come spazio delle relazioni costruite, scelte, che stanno tra il momento pubblico e quello strettamente privato. Si tratta di quelle relazioni in cui la società, come associazione, si fa fenomeno emergente. Bisogna vedere se la si possa rappresentare come "sfera intermedia" (fra pubblico e privato) (H. Arendt), come "settore" (entro una teoria economica dei settori) (W.W. Powell), oppure come "sotto sistema" (entro la teoria sistemica) (N. Luhmann), come "comunità di discorso" (J. Habermas), oppure ancora come "area della ridondanza sociale" in cui si rigenera una intera società civile, anche post moderna (V. Belohradsky). Le filosofie, le visioni del mondo, ma anche le culture, le scienze e le teorie che non fanno i conti con lo sviluppo di questa sfera, che non è né pubblica né privata nel senso moderno (liberale o marxista) dei termini, risultano insufficienti in quanto la società contemporanea si definisce, ed è, lo sviluppo di questa sfera di rapporti insieme personali, collettivi e strutturali. Anche in campo cattolico la riflessione e il magistero hanno di recente posto nuova attenzione alla categoria della relazionalità (11). Inizia qui il distacco dalle teorie moderne del bene comune inteso come qualcosa che viene costruito e fruito solamente o principalmente per utilità e contratto da singoli individui (come il gas della città, la luce delle strade, i trasporti, la rete di informazione, ecc.). Si sviluppa a questo proposito una nuova riflessione sul bene comune inteso non soltanto e non tanto come quel qualcosa che interessa (almeno in linea di principio) tutti e che nessuno potrebbe costruire da sé solo (chi potrebbe costruire da solo o in piccolo gruppo il sistema telefonico?), ma come impresa congiunta di soggetti aventi determinate relazioni di solidarietà sociale fra loro. Il bene comune, in questo modo, non coincide più neppure con il public interest, inteso secondo la terminologia anglosassone, ma diventa un modo nuovo di "fare società". Su questo punto bisogna cercare nuove distinzioni. Quando si parla di public interest si intende un bene collettivo che non può essere né prodotto, né fruito individualmente; esso deriva dal fatto che un insieme di individui riconosce esserci qualcosa che interessa tutti. Ciascuno paga qualcosa (sotto forma di tasse, tariffe o simili) per avere qualcosa (un bene o un servizio). Si parla a questo proposito di un bene pubblico (come costruire una strada, creare un parco pubblico, organizzare una rete di informazioni o di trasporti). Ma quest'ultimo è diverso dal bene comune cui si deve oggi fare ricorso per attivare le motivazioni solidaristiche negli ambiti di vita e di lavoro in cui sono in gioco i servizi umani alle persone. Finora questa area di beni è stata offuscata da una società e da uno Stato il cui asse portante è stato basato sul trade off fra Stato e mercato. L'interesse pubblico è qualcosa che è soggetto a categorie di utilità, mentre per una teoria e una pratica di politica sociale sufficientemente differenziata per venire incontro ai problemi propriamente sociali (legati alla mancanza di risorse necessarie per vivere, sia materiali sia soprattutto relazionali) occorre un altro codice simbolico normativo, di tipo socio politico. Quando si deve discutere se il gas, la luce, i trasporti, le fognature, siano o meno un bene pubblico che deve essere gestito dallo Stato oppure da altri soggetti, si fa un'analisi economica che ha poco o nulla a che vedere con il tema della solidarietà nelle politiche sociali concepite come funzione riflessiva dell'intera società su se stessa. L'interesse pubblico è qualcosa che deve essere riferito a categorie di utilità, di efficienza, di efficacia e di equità, che hanno a che fare con il codice simbolico dell'economia e delle sue relazioni con la politica. Non si solleva, con questo, in modo primario, un problema di solidarietà. L'aspetto associativo è derivato e strumentale. Questa concezione è stata a lungo applicata anche al sociale, ai rapporti quotidiani di mondo vitale. Si è applicata la categoria di interesse collettivo o interesse diffuso a quei gruppi o categorie sociali che hanno un'identità di interessi. Per esempio: le famiglie con un handicappato, le famiglie con un anziano non autosufficiente, un determinato collettivo di individui che hanno bisogno di un certo prodotto o servizio, in generale una categoria sociale che condivide un certo interesse il quale, per somma, diventa collettivo. Si tratta certamente di una categoria sociologica importante ed essenziale ai fini della costruzione di un sistema di sicurezza sociale. Esso sottolinea il fatto che nella società vi sono interessi diffusi non definibili a priori, perché ciascuno, da un giorno all'altro può ritrovarsi invalido, o avere altri problemi e rientrare in una categoria particolare di consumatori socialmente deboli che hanno bisogno di un certo bene. Ma con ciò si sottolinea solo il fatto che le categorie dell'interesse pubblico, interesse collettivo e interesse diffuso, cadono sotto il diritto dei produttori e dei consumatori. È un diritto che ha a che fare con una sfera relazionale molto precisa, che è ancora quella definita dalla dottrina economica a partire dal '700 e poi estesa nell'utilitarismo collettivo del welfare state keynesiano beveridgiano.
Ad un certo livello della differenziazione sociale, il bene comune diventa un bene specifico che io chiamo "relazionale", cioè un bene che può essere prodotto soltanto assieme, non è escludibile per nessuno che ne faccia parte, non è frazionabile e neppure è concepibile come somma di beni individuali. In questa prospettiva non è più un bene collettivo nel senso strettamente 'moderno' del termine. Il gas, la luce, ecc., sono prodotti "insieme" in quanto non sono frazionabili e neppure escludibili, però sono una somma di beni individuali. Se si fa un servizio pubblico di quel tipo, si possono sommare le utilità degli individui che ne usufruiscono o che lo producono. Il "bene relazionale" è invece qualcosa di molto differente da tutto questo. Nel caso ci si trovi di fronte a persone senza lavoro, ad anziani soli, a bambini che crescono in un ambiente povero dal punto vista materiale o educativo, nel caso di coppie in crisi, di persone in difficoltà, di individui disadattati o inclini alla devianza, di rifugiati, e così via, il common good che deve essere generato è qualcosa di diverso dal public interest o dal collective interest o categorie analoghe che hanno una matrice nell'utilitarismo del '700. Non si tratta però di credere che i beni relazionali abbiano a che fare solo con problemi di emarginazione sociale. Al contrario. Quello è forse l'aspetto più evidente, ma esso rivela qualche cosa che sta nei processi più «normali» della nostra società, se si considera il fatto che la società post moderna è una società a rischi sempre più elevati e generalizzati in ogni campo dell'agire umano e sociale. Perciò si può dire che, in questa nuova riflessione, ciò che è in gioco è precisamente la vita umana in quanto umana, cioè la vita umana come bene relazionale (P. Donati, 1989). Per comprendere questo si deve reinterpretare la vita umana in base alla categoria della persona come "individuo in relazione", cioè a dire prendendo atto che la relazione è la strutturazione della persona. Si vede allora che la vita umana e la sua qualità non è più un diritto del singolo in quanto singolo, e neppure un bene pubblico o collettivo nel senso moderno, ma propriamente un bene comune di tipo relazionale. Perché posso dire che la vita umana del bambino che deve nascere è un bene comune per l'Alter (generalizzato e non generalizzato) e non solo un diritto di quel particolare bambino? Perché posso dire che è un bene comune della madre, e del padre e di quelli che gli stanno intorno? La risposta è: perché tutte queste persone hanno qualcosa in comune che è appunto la relazione che le lega, e questa relazione ha i suoi diritti che non possono essere manipolati, colonizzati o calpestati in qualunque modo, perché se si calpestano questi diritti, quelli delle relazioni sociali, viene distorto completamente il senso dell'individuo come persona umana e quindi, necessariamente, si va contro la vita umana e tutto ciò che è bene comune nella società. La famiglia è un bene comune relazionale perché nessuno dei membri può dire: fatela voi, io non c'entro. Nessuno dei membri della famiglia è escludibile da ciò che è e fa famiglia. Il benessere, il clima di vita, non è frazionabile, e non è il risultato del benessere individuale di ciascuno, ma anche quello dei modi di relazionamento reciproco fra tutti i membri. Benché in altro modo, lo stesso si può dire di una cooperativa sociale, di una azione di volontariato o di un gruppo di self help o di mutuo aiuto. Creare un gruppo di lavoro per disoccupati, riunire famiglie che hanno un alcolista o un portatore di handicap affinché si aiutino a vicenda, creare una cooperativa che consenta ad un gruppo di handicappati, giovani o adulti, di esprimere la propria dignità, libertà e sviluppo umano, significa essere orientati alla produzione di un bene relazionale. In tutti questi casi, dire che un bene è bene comune, significa dire che è un bene relazionale in quanto dipende dalle relazioni messe in atto dai soggetti l'uno verso l'altro e può essere fruito solo se essi si orientano di conseguenza. L'azione collettiva che riscontriamo in questo caso non è quella di una somma di individui, ma è il fenomeno emergente dalle loro interazioni. In questo senso, la vita umana è oggetto di godimento e quindi di diritti non in quanto bene privato, individuale nel senso di individualistico, né pubblico nel senso tecnico moderno di bene attinente la sfera dello Stato, ma propriamente come bene comune dei soggetti che stanno in relazione. Questo bene deve essere definito non come funzione delle esperienze individuali prese singolarmente, cioè privatamente, o anche collettivamente, ma come funzione delle loro relazioni intersoggettive. In un certo modo la novità della nozione odierna del bene comune sta nel fatto che deve oggi rinunciare ad essere qualcosa di onnicomprensivo. Che debba essere così lo comprendiamo quando la trasponiamo sul piano politico, in particolare della politica sociale. Certo, sul piano politico, sappiamo che esistono diversità di punti di vista, di opinioni, di interessi, che rendono conflittuale e incerta la nozione. Le diverse culture e ideologie (cattolica, comunista, socialista, radicale, liberale, e così via), hanno certamente una concezione diversa del bene comune. Ma il punto di vista sociologico che intendo esprimere implica che ci si collochi in un sistema di osservazione e di discorso che è, per così dire, un minimo comun denominatore sul quale sta il numeratore delle diversità (per esempio ideologiche). È su tale piano che si può sostenere che la concezione relazionale del bene comune è oltremodo nuova e all'altezza dei tempi. Essa ha un carattere emergente, ha riscontro nella società. La società odierna infatti esprime l'esigenza di nuovi beni comuni in un senso fenomenologico molto preciso: beni comuni nel senso che solo comunità di persone, solo gruppi primari e gruppi associativi possono esprimerli e tutelarli. Questa esigenza si manifesta attraverso una nuova generazione di diritti: la generazione dei diritti umani al di là dei diritti civili, politici ed economico sociali di welfare. Quando oggi, per esempio, ci si appella al diritto che ogni bambino ha di avere una famiglia, a quale categoria di diritti ci si richiama ? Certamente non a un diritto civile o politico o economico sociale. La risposta non può che essere: un diritto umano che è intrinsecamente relazionale in quanto ha come oggetto la tutela e la promozione di una relazione sociale. Il diritto positivo è molto indietro rispetto all'esigenza di rendere esplicito e praticabile (oggetto di tutela e promozione) quel tipo di diritti che possiamo denominare 'relazionali'. Qualcosa si è andato affermando nella più recente legislazione, ma non c'è ancora una riflessione specifica sui diritti relativi ai beni comuni in quanto beni relazionali. Neanche la teoria economica ha una teoria dei beni comuni come beni relazionali. Tanto meno la sociologia.
Entriamo così nel terzo tema, quello delle novità che il terzo settore comporta per la riorganizzazione dell'intero sistema societario. Osservare che il fenomeno associativo acquista rilevanza e realtà di genere proprio non può non implicare l'affermazione di un diverso punto di vista sulla intera società. Si tratta di un campo nuovo di riflessione e di pratiche sociali che si affaccia in modo maturo solo oggi. La tesi che si può avanzare è che la solidarietà sociale è la distinzione direttrice specifica (anche se non certo esclusiva !) delle relazioni di terzo settore, e come tale diventa un mezzo di comunicazione, un mezzo simbolico generalizzato e quindi un diritto, diffuso e specifico, che è sociale e quindi generalizzabile in quanto è umano. Esso vale per ambiti specifici (di terzo settore appunto), ma è comunicabile e circolabile al di là di essi. Si tratta di un medium e di un diritto che non è comprensibile nel quadro della concezione che dei diritti umani hanno sia il codice simbolico economico sia quello politico, e tantomeno quindi le loro traduzioni legislative. Esso non riguarda soltanto determinati "beni circoscrivibili" (come la famiglia per il bambino), ma più in generale attiene alle dimensioni solidaristiche di ogni bene collettivo nei suoi aspetti non materiali: per esempio la pace, il senso del lavoro, i rapporti con l'ambiente naturale, le pari opportunità fra uomo e donna, in quanto mettono in gioco le relazioni fra soggetti umani. L'eccezione oggi più in voga di questo tipo di diritti è quella che possiamo denominare dei "diritti ecologici", come pretesa a fruire di un ambiente non nocivo per la vita fisica. Qui i beni sono intesi come oggetto di godimento di un collettivo di individui che rivendica il diritto ad un ambiente non inquinato, e in generale non dannoso per la salute psicofisica. Si parla, allora, dell'aria, delle strade e dei fiumi "puliti" come di "beni comuni", così come per l'eliminazione della violenza e della criminalità. Ma questa interpretazione ha un evidente limite utilitaristico: si tratta infatti di un bene pubblico e non di un vero e proprio bene comune, almeno nella misura in cui non implica in modo immediato soggetti umani e le loro relazioni. Non a caso, all'interno dei codici simbolici odierni, si pensa che questi diritti possano essere assicurati tramite delle macchine amministrative, dei sistemi economici e tecnologici in grado di rendere più vantaggioso il pulito rispetto allo sporco. È la nota visione tecnocratica del problema, secondo la quale i diritti ad un ambiente o ecosistema pulito sarebbero "diritti spuri", non veri diritti (in quanto raramente sanzionabili), che dovrebbero essere garantiti seppure in forma limitata da un sistema di incentivi che ricompensino l'operare in modo pulito. Anche chi muove critiche alla visione tecnocratica pensa che i beni in questione siano e rimangano pubblici o collettivi nel senso anzidetto . Che cosa si può rispondere ? Certo, è oggettivamente vero che il progresso tecnologico sotto questi aspetti dimostra che, se si tratta di risolvere un problema di inquinamento di un'area urbana, molto può essere fatto sul piano dell'organizzazione sistemica, di tipo meramente tecnico e funzionale. Le soluzioni "sistemiche" presuppongono e rimandano ad un interesse collettivo o ad un bene pubblico che ritiene di poter prescindere da una concezione del bene comune facente leva sul soggetto umano e sulla persona umana singola e come tale. Naturalmente, si può benissimo mettere in piedi una macchina politico amministrativa per il bene collettivo. Ci si vede, si dice cosa si deve fare, ci si tassa, si mette in piedi una organizzazione per ottenere quel bene pubblico che è richiesto (per esempio un depuratore o un parco giochi). Ma questo non mette in gioco il bene comune relazionale. A quel punto, creato quel bene pubblico, ciascuno si chiude in casa propria. La società, anziché rappresentarsi e affrontare problemi comuni, si privatizza ancora di più. Non a caso, infatti, si può constatare che i movimenti ecologici, dopo aver sollevato per qualche tempo una mobilitazione collettiva in vista di accrescere il senso della comunità, del vivere collettivo, delle responsabilità reciproche, finiscono poi per privatizzare sempre di più gli stili di vita, cosicché i problemi ritornano sotto altra forma.
In sostanza, ciò che voglio osservare è che l'etica pubblica odierna di impianto utilitarista non implica un bene comune in senso stretto. I problemi della pace, dello sviluppo, dell'ambiente o delle nuove povertà non sono fatti dipendere dalle concrete relazioni umane messe in atto dai soggetti compresenti. La loro soluzione è cercata piuttosto nella direzione di eliminare i violenti, di compensare per altra via chi fallisce sul mercato, di punire chi inquina, di togliere di mezzo i poveri, gli stranieri, gli emarginati. È evidente a tutti che queste non sono soluzioni ispirate al bene comune. Ma perché ? La risposta si può cercare in tante ragioni: nella mancanza di solidarietà del sistema, nel mancato funzionamento di certi apparati, nel fatto che il mercato è troppo vincolato, che la politica è clientelare, e così via. Ma tutte queste spiegazioni lasciano completamente da parte il problema di chiamare in causa il bene comune, il che richiederebbe di coinvolgere i poveri, gli emarginati, i devianti, i violenti nella soluzione dei loro problemi come problemi comuni, mediante pratiche sinergiche di solidarietà fra chi aiuta e chi è aiutato. Nel campo delle politiche sociali è oggi ormai ben chiaro che le concezioni utilitaristiche e contrattualistiche dell'interesse pubblico o collettivo sono insufficienti, quando non inadeguate, a risolvere i grandi problemi sociali. Si deve invece prendere atto che la pace, lo sviluppo, l'ambiente, il servizio alle persone, specie a quelle in difficoltà, sono beni che corrispondono ad un intimo carattere relazionale: possono essere prodotti solo assieme, non possono e non debbono escludere nessuno, possono essere fruiti solo assieme. Non sono una somma, bensì una funzione sinergica dei soggetti e delle loro relazioni complessi ve, interne ed esterne, nel raccordo fra mondi di vita quotidiana e istituzioni sociali. Per questo non possono essere prodotti in maniera impersonale, o attraverso 'meccanismi'. Questo significa, ad esempio, che una "ecologia del pulito", intesa come insieme di interventi per togliere lo sporco, ha poco senso relazionale, è povera di bene comune se è perseguita attraverso strumenti che prescindono dalle relazioni sociali dei soggetti interessati. Tale è anche la concezione e la pratica dei diritti individuali soggettivi della vita quotidiana. La cosiddetta "cultura laica della cittadinanza e dei servizi sociali", che preme oggi per il riconoscimento di una serie crescente di diritti di cittadinanza, intendendo quest'ultima come riconoscimento politico di semplici bisogni di vita quotidiana, non esprime una concezione della solidarietà come bene comune se e nella misura in cui manca di relazionalità sociale. Lo Stato, si dice, dovrebbe recepire i nuovi bisogni sociali trasformandoli in pretese legittime ed esigibili dalla collettività. È chiaro che, anche a questo riguardo, si tratta non di bene comune, ma di beni individuali, vuoi di privati vuoi di aggregati di individui, che vengono riferiti all'individuo come tale: non c'è, implicata e necessaria, alcuna relazione che leghi questi individui in termini di responsabilità, di solidarietà, di rendicontabilità reciproca. Si può, per fare un esempio, citare il caso della proposta in merito al cosiddetto "reddito di cittadinanza" dato all'individuo come individuo. Nella sua forma, tale proposta rappresenta, appunto, la traduzione sul piano delle politiche sociali di una concezione dei diritti di vita quotidiana nel senso che ho detto prima, come priva di un concetto di bene comune. La solidarietà cui si fa appello è meramente economica e politica. Non implica relazioni fra gli individui. Diverse sono le proposte che tengono conto degli aspetti solidaristici: esse propongono bensì il minimo vitale, ma insistono sul fatto che tale diritto, per avere efficacia e praticabilità (anche economica e politica), nonché senso umano e sociale, deve essere computato sulla struttura familiare, e deve tener conto del contesto in cui gli individui vivono, in termini di responsabilità reciproca fra membri socialmente forti e membri socialmente deboli.
4.1. Nell'attuale costruzione dell'Europa, molte sono le culture e le forze in campo. Con il declino demografico e le correlate crescenti immigrazioni da paesi extra comunitari, aumenta e aumenterà sempre di più la pluralità (non è detto il pluralismo, come legittimazione, rispetto e pieno riconoscimento reciproco) degli interessi e delle identità. Diventa urgente rifondare il progetto solidaristico della/nella/per la società, avendo ben in mente che la solidarietà deve essere differenziata e generalizzata nelle sue varie forme (fig. 3): economiche, politiche, sociali e culturali (o «ultime»), ossia di mondo vitale, che hanno la loro radice nel senso religioso della vita e dunque, ultimativa mente, nella carità. Occorre, per questo, che la solidarietà diventi una chiave di lettura fondamentale sia degli interessi che delle identità. E qui il ruolo della dottrina sociale della Chiesa è veramente centrale e cruciale. Sinora l'Europa si è concentrata sull'area degli interessi, legata al mercato del lavoro, alle professioni, ai redditi e ai consumi, e al loro governo politico. Da oggi in poi occorrerà invece dare maggiore importanza all'area delle identità, che fa riferimento al senso esistenziale delle persone, al loro mondo interiore, cioè ai problemi legati alle relazioni di vita quotidiana, alle appartenenze culturali, quindi anche etniche. E, a questo proposito, non bastano più le forme moderne della cittadinanza (civile, politica e sociale), perché è in gioco una quarta dimensione: la cittadinanza culturale, il cui fondamento è etico, e religioso.
Oggi, il grande problema nella organizzazione delle risposte ai bisogni sociali è legato al fatto che, nella cornice dello Stato sociale, il valore e mezzo simbolico della solidarietà non è riconosciuto e non può essere riconosciuto perché l'economia riconosce solo il denaro, la politica solo il potere, i mass me dia solo l'influenza. Ogni sottosistema riconosce solo la sua sfera di influenza, solo i suoi mezzi di scambio. Le connessioni divengono molto complicate. Il problema è proprio questo: di portare la riflessione sul bene comune come bene relazionale. Nel complesso dinamismo della ricerca di solidarietà, un ruolo speciale acquista oggi la costruzione di un senso nuovo di bene comune come bene relazionale. È il bene in quanto è generato e fruito da coloro che lo compartecipano come «associati» (direi anzi, in quanto «associati per amore»). Il mancato riconoscimento istituzionale (da parte del sistema societario) della solidarietà che chiamo "associativa" con esplicito riferimento alla funzione che ha di produrre beni relazionali (che sono veri e propri goods, azioni concrete, prestazioni, fatti vitali, non cose astratte), provoca una 'crisi' anche nelle altre forme della solidarietà, sia quella politica sia quella di mercato sia quella del mondo di vita quotidiana. Solo la solidarietà associativa garantisce la continuità e il senso umano di quelle conquiste che l'universalismo formale (legale) della cittadinanza civile e politica in senso moderno hanno rivendicato, ma non hanno saputo poi sviluppare in modo tale da evitare l'inaridimento della società civile. Si deve quindi aver ben chiaro che la solidarietà associativa non ha niente a che fare con i particolarismi e/o i clientelismi. Essa anzi richiede il massimo della partecipazione democratica interna. Nello stesso tempo, risulta più chiaro perché, nella prospettiva relazionale, a differenza di quanto pensano altri (12), la solidarietà associativa non possa essere assorbita dalla cittadinanza statuale o 'politica’. La solidarietà associativa è certo un diritto di cittadinanza, e acquisisce un posto particolare nel nuovo "complesso della cittadinanza post industriale". Ma quest'ultima non è da intendersi in senso statalistico, secondo il principio per cui tutto deve stare dentro lo Stato e niente fuori di esso. Nelle politiche sociali si deve certo garantire l'universalismo. Quest'ultimo non può essere messo in causa, pena enormi regressioni. Però un conto è l'universalismo, un conto è lo statalismo. Che quest'ultimo debba essere superato non è 'vero' per una presa di posizione che possa essere considerata 'ideologica’. Si tratta invece di una verità sociologica, in quanto di fatto lo Stato non può più essere concepito come il centro e il vertice delle società complesse. L'esperienza delle famiglie che esprimono la loro carità e solidarietà attraverso l'affidamento di bambini abbandonati, o senza una famiglia valida, anche a livello internazionale, può fornirci un esempio e aiutarci a capire il senso di quanto intendo dire. In questo campo si è affermato un nuovo e giusto diritto, quello che ogni bambino ha ad avere una famiglia capace di dargli un ambiente umano valido (e non viceversa, come nella vecchia adozione). Tuttavia il diritto non può funzionare se non facendo appello alla solidarietà personale di coppie che siano mosse dalla carità. È un esempio di incontro fra volontà caritativa interpersonale e regole solidaristiche di una intera comunità politica, di intersecazione fra pubblico e privato, con la costruzione di nuove reti solidaristiche nelle quali va crescendo anche una nuova cultura della solidarietà fra le generazioni. Questa esperienza dimostra che la presa in carico del bambino non è più qualcosa di puramente assistenziale almeno se realizzata bene , ma serve ad aiutare, oltre al bambino, anche e soprattutto la famiglia naturale, che potrà così riprendersi il bambino non appena superate le proprie difficoltà. Così la carità si trasforma in solidarietà, e la solidarietà dà vita ad una nuova cultura che va oltre le regioni, le nazioni, le classi sociali, e si trasforma in una vera civiltà dell'amore. Nell'esperienza degli affidamenti familiari c'è dunque una linea strategica: la famiglia affidataria non solo si deve fare carico del bambino per dargli un ambiente familiare che lo maturi, ma deve operare anche per aiutare i genitori naturali in difficoltà o inadeguati, con l'intermediazione del servizio sociale, pubblico o privato. Non è che una delle tante esperienze di forme nuove di solidarietà, che supera le vecchie forme della carità pubblica (come era la istituzionalizzazione del bambino) oppure la rottura dei legami familiari (con l'adozione). La strategia, a mio avviso, può essere generalizzata. Certo non in tutti i campi di intervento questo è il modello. Lo può essere comunque per molte forme di aiuto a bambini e giovani in difficoltà, per maladattamento, droga, difficoltà di inserimento sociale o derivanti da un ambiente invivibile, o ancora nel caso delle immigrazioni. In altri campi si tratta di trovare soluzioni che riflettano lo stesso spirito, anche se non la medesima forma nell'esercizio della carità.
In ogni caso, solidarietà non è più sinonimo di beneficenza, né si identifica con i concetti tradizionali sopra ricordati (organicità, condivisione di ideali o interessi, semplice giustizia o equità). Solidarietà significa invece produrre un bene comune tra soggetti posti in relazioni strutturali e interpersonali che richiedono lo sviluppo di orientamenti di familiarità e fratellanza fra le persone. Nel caso dell'affidamento dei bambini, tra i genitori naturali e quelli affidatari. È un bene comune tra coloro che sono interessati a produrre un bene umano. È una sinergia, un arricchimento reciproco, che può derivare solo dallo stare in relazione e dal portare avanti le relazioni in un certo modo. Nessuno può produrre un bene, in questo caso, se non sta dentro queste relazioni e non matura i relativi rapporti. Credo che debba essere interpretata in questo spirito la recente iniziativa del vescovo di Torino quando ha vietato la questua degli immigrati e dei poveri davanti alle chiese: il motivo era ed è quello di fare in modo che le persone in difficoltà non si fermino lì, sul sagrato delle chiese o sul ciglio di una strada, ma si facciano avanti in un contesto di comunità dove trovare altre persone, famiglie, pronte all'incontro e alla condivisione, attraverso forme più adeguate, cioè organizzate, di solidarietà. Se queste pratiche potranno diffondersi ne nascerà un nuovo costume, e un nuovo senso del diritto. Giacché è chiaro che il senso della solidarietà come lo abbiamo ridefinito mette in primo piano, al di là dei diritti inalienabili delle persone come individui, i diritti delle relazioni sociali in cui e attraverso cui tali diritti possono essere intesi e resi efficaci. O per meglio dire: si aprirà la stagione della solidarietà intesa come realizzazione dei diritti delle persone in relazione fra loro, ossia in quanto il loro bene sta nell'essere relazionati agli altri in modo umano. Potrà così emergere un nuovo diritto sociale, al di là dai diritti tipici di welfare e dei diritti intesi nella forma social democratica, i quali hanno bensì avuto la caratteristica di sostenere i deboli, ma sollevando i soggetti della comunità dalle loro responsabilità di vita quotidiana e di reciprocità con gli altri, almeno sotto certi aspetti rilevanti. Non è più il diritto sociale come beneficenza pubblica o come assicurazione pubblica (in fondo, contro gli indesiderati). È il diritto sociale inteso come tutela e promozione di beni relazionali che lo Stato è chiamato a riconoscere al pari dei diritti individua li. Per esso non abbiamo ancora le istituzioni, la prassi e neanche la cultura adeguate e sufficienti. Qui giace il vero dramma, la «tragedia delle cose comuni» (commons) (13): lo Stato moderno di welfare doveva produrre solidarietà, ma non ha saputo nelle sue istituzioni basilari che ancora persistono riconoscere il valore delle relazioni sociali. Questo è il paradosso, la difficoltà del bene comune oggi e insieme il paradosso su cui lo Stato sociale può perire o essere rigenerato. È certamente importante dare un assegno sociale o un servizio, ma quando si è fatto questo si deve poi troppo spesso riconoscere che si è fatta una azione assistenziale e talora anche una cosa ingiusta. In ogni caso non si è prodotto un bene comune, si è solo tutelato un interesse collettivo diffuso. La prospettiva istituzionale e operativa che consegue al riconoscimento del modo in cui oggi si pone il problema del bene comune porta a rivalutare il "privato sociale" come quella realtà e strategia di azione sociale che non si rivolge in termini di beneficenza ai soggetti deboli, alle categorie particolari, ai poveri, handicappati e così via, nel senso di "dar loro qualcosa", ma li coinvolge in un progetto di bene comune. Le società altamente differenziate si trovano nella necessità di fare delle politiche "con" i soggetti del bene comune inteso come bene relazionale, e non "su" di essi. Ciò implica la creazione di un diritto nuovo, un diritto delle associazioni, del volontariato, della cooperazione, un diritto che ancora non si sa produrre perché la nostra organizzazione sociale, contrappone ancora fra di loro lo Stato (il 'pubblico') e gli individui (i 'privati'), e conferisce alle formazioni sociali intermedie una posizione residuale. Lo Stato si rivolge a cittadini atomizzati o categorizzati, perché così vuole il compromesso tra Stato e mercato.
Il problema della società ad elevata modernizzazione è quello di costruire quelle formazioni sociali (le possiamo chiamare intermedie, per capirci) che potrebbero conferire allo Stato la connotazione di "Stato delle autonomie sociali", intese non solo come autonomie locali (come enti territoriali), ma più in generale come autonomie mobili e flessibili che basano la loro realtà sul fatto che producono beni relazionali, i quali possono o no essere legati al territorio, anche se di solito lo sono. Si tratta, naturalmente, di individuare le condizioni sotto le quali questa strategia diventa adatta per coniugare i valori di solidarietà umana universale con gli interessi specifici di chi fa parte di questi gruppi sociali (associazioni, volontariato, cooperazione). Ma è chiaro che un tale cambiamento non può essere operato dallo Stato, né tantomeno dal mercato, perché questi attori "non lo possono capire", neppure sono in grado di osservarlo. Cognitivamente, per loro, il privato sociale è una zona buia, opaca, che non possono riconoscere. Possono utilizzarlo, se ne vedono i vantaggi per loro. Possono fare delle convenzioni con i soggetti del privato sociale, sperando che poi emergano certi effetti. Ma non lo possono comprendere. Le società complesse sono tali, fra le altre cose, anche perché spetta al mondo delle autonomie sociali essere capace di produrre i nuovi beni comuni come beni relazionali. Attraverso questo riconoscimento nasce una cultura che non è più quella utilitaristica o contrattualistica dell'interesse pubblico o collettivo del '700, ma è un «discorso» di affermazione della persona umana, nei termini solidaristici di cui ho detto. La sola soluzione possibile se lo Stato sociale vuole progredire e non regredire. Però è qualcosa che sta "oltre", che viene "dopo la virtù" perché presuppone un orientamento alla virtù. Ci aspetta al di là di dinamiche sociali che devono essere attivate sempre di nuovo e non è qualcosa di già dato o di già scritto. Deve essere prodotto e costruito assieme, innanzitutto culturalmente, con una cultura adeguata alla nuova complessità relazionale in quanto è ispirata a quella virtù somma che è la charitas. Non c'è autentica solidarietà senza carità, e la carità, se è autentica, non può essere offerta e praticata senza coinvolgimento. La società non ha mai abbastanza amore. Eppure l'amore non è in linea di principio una risorsa scarsa. A una sola condizione: che l'uomo sia fedele alla propria vocazione divina.
1. L'espressione, com'è noto, è di Paolo Vl (1975) e su di essa si può centrare l'intero messaggio sociale cristiano: cfr. P. de Laubier, 1990. 2. È utile ricordare che, quando cerchiamo il senso di un concetto (come carità o solidarietà), siamo con ciò alla ricerca della indicazione di una intenzionalità, di un significato e di una selezione (scelta) che lo distinguono da altri concetti, in particolare dal loro opposto. 3. Detti «mondi vitali» (Lebenswelt, life worlds) in quanto produttivi di senso soggettivo, a partire da Husserl, e poi riformulati come relazioni di vita quotidiana capaci di sostenere una intersoggettività significante secondo varie teorie, tra cui quelle di A. Schutz, J. Habermas e A. Ardigò (1980) 4. Come é stato messo in luce da una abbondante letteratura. In particolare, sul rapporto tra crisi delle solidarietà primarie e crisi dei sistema di welfare, si vedano:M. Ignatieff, 1988; P.de Laubier et al. eds.,1991 5. Per dirla con Giovanni Paolo II (1991), «è nel molteplice intersecarsi dei rapporti che vive la persona e cresce la "soggettività della società"» (pr. 49); «un'autentica democrazia è possibile solo in uno stato di diritto e sulla base di una retta concezione della persona umana. Essa esige che si verifichino le condizioni necessarie per la promozione sia delle singole persone mediante l'educazione e la formazione ai veri ideali, sia della "soggettività" della società mediante la creazione di strutture di partecipazione e di corresponsabilità» (pr. 46). In breve, per Giovanni Paolo II soggettività sociale è «un libero processo di auto organizzazione della società con la messa a punto di strumenti efficaci di solidarietà» (pr. 15). 6. La logica della fig. 1 segue quella di uno schema noto in sociologia come schema AGIL (P. Donati, 1991, cap. 4). 7. Ciò è stato chiarito da M. Walzer (1987). Se si adotta la prospettiva di questo autore si può dar conto della pluralizzazione del terzo settore, e di come il relativo carattere "plurale" venga conservato e accresciuto nel quadro di una democrazia per la quale valgono appieno i principi di libertà ed eguaglianza. Il problema che Walzer lascia insoluto è quello dell'integrazione (cooperazione, collaborazione, interscambio) fra le sfere "pluralizzate". Ed è proprio a questo livello che interviene il punto di vista del pensiero sociale cristiano. 8. Per una trattazione più analitica di questa tipologia dei beni e dei loro significati cfr.P. Donati, 1993, cap. 2. 9. Quando parlo di società, non intendo in nessun modo evocare un'entità collettiva «mitica" o «mistica», dotata di chissà quale «spirito», come faceva Durkheim quando parlava di «coscienza collettiva». Parlare di società vuol dire parlare di moltitudini di persone umane, e della loro soggettività e intersoggettività, entro un contesto di relazioni sociali determinate che ha una storia. 10. La consapevolezza di questa tendenza è ancora lontana, nonostante molti rilevino i nuovi misti e interpenetrazioni fra pubblico e privato, specialmente nell'area del volontariato e delle organizzazioni non di profitto: cfr. S.A. Ostrander, S. Langton (eds.), 1987. 11. Il riferimento va per esempio alla recente enciclica sociale, la Sollicitudo Rei Socialis di Giovanni Paolo II, dove la categoria della interdipendenza è assunta come categoria morale, anzi come categoria etico politica. 12. In particolare di chi ragiona ancora con un'ottica concettuale marxista, come C. Saraceno (1987) e S. Rodotà (1985). 13. Mi riferisco qui a quel problema che nella letteratura sociologica internazionale è noto come la tragedy of commons.
• ARDIGÒ A., Crisi di governabilità e mondi vitali, Cappelli, Bologna, 1980. • CATTARINUSSI B., Altruismo e società. Aspetti e problemi del comportamento prosociale, Angeli, Milano, 1991. • DONATI P., Pubblico e privato: fine di una alternativa ?, Cappelli, Bologna, 1978. • DONATI P., Nuove istanze sociali e dignità umana, in P. Donati (a cura di), La cultura della vita. Dalla società tradizionale a quella post moderna, Angeli, Milano, 1989, pp. 161 182. • DONATI P., Teoria relazionale della società, Angeli, Milano, 1991. • DONATI P., La cittadinanza societaria, Bologna, 1993 (in stampa). • GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo Rei Socialis, Lettera enciclica nel ventesimo anniversario della Populorum Progressio, Roma, 30 dicembre 1987. • GIOVANNI PAOLO II, Centesimus Annus, Lettera enciclica nel centenario della Rerum Novarum, Roma, 1 maggio 1991. • IGNATIEFF M., I bisogni degli altri, tr. it. il Mulino, Bologna, 1988. • KEOHANE R.O., Empathy and International Regimes, in J.J. MANSBRIDGE (ed.), Beyond Self Interest, The University of Chicago Press, Chicago and London, 1990, pp. '27 36. • LAUBIER P. (de), Pour une civilisation de l'amour. Le message social chrétien, Fayard, Paris, 1990. • LAUBIER P. (de) et al. (eds.), Pratiques des solidarités, Réalités Sociales, Lausanne, 1991. • MANSBRIDGE Jane J. (ed.), Beyond Self Interest, The University of Chicago Press, Chigago and London, 1990. • OSTRANDER S.A., LANGTON S. (eds.), Shifting the Debate: Public/Private Sector Relations in the Modern Welfare State, "Journal of Voluntary Action Research", special issue, vol. 16, n. 1 2, 1987. • PONTIFICIA COMMISSIONE «IUSTITIA ET PAX», La Chiesa di fronte al razzismo. Per una società più fraterna, Roma, 3 novembre 1988. • WALZER M., Sfere di giustizia, tr. it. Feltrinelli,
Milano, 1987. Saluto del Consigliere di Stato, onorevole Renzo Respini Da 50 anni Caritas Ticino è presente nella nostra società, da 50 anni è vicina alla sofferenza; a quella che ci sembra più grande e insopportabile, poiché ci tocca da vicino, a quella della gente dei paesi lontani, che fa rimpicciolire la nostra sofferenza. Contraddistingue Caritas Ticino un legame particolare: quello con la Diocesi di Lugano. La contraddistingue pure un'azione di aiuto che non é solo materiale, ma che assume la sua vera dimensione e tutto il suo valore con il progetto che nasce in chi viene aiutato non per sopravvivere, ma per diventare protagonista. A nome del Consiglio di Stato ringrazio Caritas Ticino per la sua presenza nella nostra società, ringrazio i suoi operatori, i suoi sostenitori e i suoi direttori che si sono succeduti in questo mezzo secolo di proficua attività e che voglio citare per nome poiché sono tutti presenti nella nostra memoria e in noi: Masina, Monsignor Cortella, Don Conrad, Monsignor Torti e l'attuale direttore Roby Noris al quale vanno gli auguri perché Caritas continui ad essere capace di guardare al futuro. DOTTRINA SOCIALE: UNA RISPOSTA POLITICA? di Renzo Respini Con persone competenti mi avete invitato a questa tavola rotonda per dire se la dottrina sociale della Chiesa può riuscire ad essere una risposta politica. Io vi ringrazio e cercherò di fornirvi alcuni elementi di riflessione.
"La Chiesa non ha modelli da proporre" (CA 43). La dottrina sociale é quindi un orientamento ideale, prezioso e importante suscettibile di far nascere nel quadro delle diverse situazioni storiche modelli reali e soluzioni precise suscettibili di affrontare i problemi concreti in tutti i loro aspetti sociali, economici, politici e culturali. La Chiesa non propone un modello, ma offre la propria dottrina sociale quale "indispensabile orientamento ideale". Non è un'offerta qualsiasi. La Chiesa è consapevole che "insegnare e diffondere la dottrina sociale appartiene alla sua missione evangelizzatrice e fa parte essenziale del messaggio cristiano, poiché tale dottrina ne propone le dirette conseguenze nella vita della società ed inquadra il lavoro quotidiano e le lotte per la giustizia (CA 5)".
2.1 L'ente pubblico (Cantone, Comuni, Confederazione ) vive oggi un periodo particolare contraddistinto da un lato dall'esistenza di problemi sempre più complessi in una società sempre più differenziata e dall'altro dalle difficoltà gravi e profonde in cui versa la nostra economia. Le difficoltà dell'economia si ripercuotono sui bilanci degli enti pubblici e fanno sorgere istanze di privatizzazione orientate da preoccupazioni finanziarie e finalizzate a una diminuzione dei ruoli dello Stato. In un momento come questo in cui anche le contingenze inducono ad una riflessione sui ruoli, gli scopi e le funzioni dello Stato, mi pare opportuno inserire anche questa riflessione sulla giornata odierna.
Nella Rerum Novarum il ruolo dello Stato è definito in modo estremamente chiaro: poiché responsabile della realizzazione del bene comune, lo Stato non può essere né assente né invasore. Lo Stato non può essere assente dalla mischia sociale che ogni giorno investe la maggioranza dei cittadini, deve preoccuparsi del bene comune e deve anche fare un'opzione preferenziale per i bisognosi e per i lavoratori. Quel documento traccia con forza le linee di riferimento dell'azione statale che non deve solo correggere le distorsioni dell'economia e dell'iniziativa privata, non deve solo vigilare, non deve solo proteggere i deboli, ma il suo intervento deve anche essere finalizzato a rafforzare la condizione sociale, quella economica, deve svolgere un ruolo di prevenzione. Deve insomma il ruolo dello Stato essere costruttivo e preventivo. Ma lo Stato non deve neppure invadere la società soppiantando le regole delle iniziative economiche, di quelle sociali e di quelle individuali. La regola é quella della sussidiarietà esplicitata nell'enciclica Quadragesimo anno di PIO XI. Lo Stato ha il compito di intervenire per perfezionare e completare l'azione dei singoli e non per soppiantarla. Deve fare in modo che ognuno (dal singolo, alla famiglia, ai gruppi intermedi) faccia il suo e ne abbia le competenze. Lo Stato deve però continuare a svolgere, accanto all' iniziativa privata dei singoli, un'attività che lui solo è in grado di svolgere: l'attività pubblica grazie alla quale devono essere integrate e rafforzate le iniziative e le attività dei singoli e delle forze presenti nella società.
3.1 Vi é molta attualità in questi concetti. Assistendo oggi ai desideri di riforma dello Stato del benessere, giudicato troppo interventista e troppo assistenzialista, mentre i neoliberisti molto attribuiscono alla capacità del mercato di risolvere i problemi e mentre si realizza che l'intervento statale si é attuato senza preoccuparsi sufficientemente del controllo, dei criteri, dei costi e degli effetti sperati, non può sfuggire la lucida analisi contenuta nella "CA no. 48: "si è assistito negli ultimi anni ad un vasto ampliamento dell'attività dello Stato, che ha portato a costituire uno Stato di tipo nuovo: lo Stato del benessere" per rispondere in modo più adeguato a molte necessità e a molti bisogni. "Non sono però mancati eccessi e abusi che hanno provocato, specialmente negli anni più recenti, dure critiche allo Stato del benessere, qualificato come Stato assistenziale. Disfunzione e difetti nello Stato assistenziale derivano da un'inadeguata comprensione dei compiti propri dello Stato. Anche in questo ambito deve essere rispettato il principio di sussidiarietà: una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore privandola delle sue competenze ma deve piuttosto sostenerla, aiutarla. Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l'aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese."
Appaiono così nelle grandi linee le caratteristiche dell'azione dello Stato che deve ricomporre il tessuto sociale, costituire una rete di servizi a favore di tutte le componenti dell'articolata società cominciando proprio dal servizio alla persona di ciascun cittadino. È quindi quello che emerge dai documenti della dottrina sociale una figura di Stato tessitore di relazioni e di rapporti. Uno Stato che deve essere democratico e che deve basarsi sul diritto, poiché un'autentica democrazia è possibile solo se esiste il diritto e se esiste una retta concezione della persona umana. Una democrazia che si basi su "valori". " Bisogna osservare che , se non esiste nessuna verità ultima, la quale guida e orienta l'azione politica, allora le idee e le convinzioni possono essere facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia" (CA 46).
Quali indicazioni trarre da questi orientamenti ideali per una risposta precisa ai problemi concreti dei nostri giorni in tutti i loro aspetti politici, sociali ed economici?
Viviamo in una società aperta; appare sempre più evidente che i problemi economici, sociali, ambientali hanno origini, dimensioni ed effetti che superano il quadro giuridico istituzionale di singole regioni o di singoli paesi. In questo senso diventa sempre più difficile pensare di poter perseguire il bene comune senza coniugarlo con il concetto di "integrazione" che è innanzitutto disponibilità mentale, poi coinvolgimento, coordinamento ed infine azione comune. Penso in questo momento particolarmente all'apertura di mentalità, di cultura e di politica che deve condurre il nostro Cantone e il nostro Paese ad aprirsi verso le regioni e i Paesi che ci circondano, verso l'Europa. Una politica interregionale transfrontaliera l'abbiamo iniziata; viviamo in questi tempi a livello politico il tema europeo e lo viviamo interrogandoci sulle sfide e sulle opportunità che accompagnano un'integrazione parziale economica all'Europa nell'ambito dello Spazio economico europeo. Partecipare allo Spazio economico è prima di tutto questo, è un processo e una disponibilità mentale a "pensare europeo" e cioè capire noi cristiani per primi che il nostro paese non è avulso dalla geografia, dalla storia e dalla cultura, della matrice cristiana di questo continente. "Si sono infittiti i rapporti tra i cittadini, le famiglie, i corpi intermedi appartenenti a diverse comunità politiche; come pure tra i poteri pubblici delle medesime .... Nessuna comunità politica è oggi in grado di perseguire i suoi interessi e di svilupparsi chiudendosi in se stessa; giacché il grado della sua prosperità e del suo sviluppo sono pure il riflesso ed una componente del grado di prosperità e dello sviluppo di tutte le altre comunità politiche" (PIT no. 68). Partecipare allo Spazio economico è l'occasione per riforme sociali. Riforme che diversamente sarebbero difficilmente attuabili nel nostro paese. Ne sa qualcosa Caritas con il suo impegno in favore di una regolamentazione del piccolo credito. Questo impegno finora non è riuscito a livello federale ad ottenere i risultati sperati; invece nell'ambito dell'accordo globale di EUROLEX è prevista una regolamentazione che, anche se non può essere considerata del tutto soddisfacente, è pur sempre importante. Voglio qui brevemente accennare ai notevoli progressi nel campo della protezione dei consumatori e nel campo delle politiche sociali e del diritto del lavoro che l'accettazione dell'accordo sullo Spazio economico comporterebbero. L'accordo, che vede non soltanto norme che garantiscono il diritto dei lavoratori all'informazione e alla consultazione sui problemi relativi alla salute e alla sicurezza del lavoro, ma anche alla parità di trattamento tra i due sessi nel sistema di sicurezza sociale. Partecipare all'ASSE è soprattutto il doveroso riconoscimento della classe politica nel senso più ampio (coinvolgente tutti i cittadini e le cittadine di questo paese) alle forze dell'economia che si basano sulle loro capacità, sul loro coraggio sull'iniziativa dell'imprenditore e che chiedono con forza i maggiori spazi di questo mercato e i maggiori stimoli della più grande concorrenza. "Lo Stato ha il dovere di assecondare l'attività delle imprese, creando occasioni che assicurano occasioni di lavoro..."(CA 48).
Lo Stato ha anche la funzione di una migliore ripartizione
della ricchezza. Lo Stato ha una indiscutibile funzione redistributiva: tra
individui, tra regioni, tra Paesi e continenti. Certo l'obiettivo delle finanze sane e del sostanziale pareggio tra le entrate e le uscite è importante; finanze che permettono allo Stato di svolgere i suoi compiti, finanze malate lo impediscono e comportano la destinazione di una parte delle disponibilità al pagamento di interessi passivi. L'equilibrio finanziario è quindi un obiettivo importante che si impone a medio e lungo termine. Non va però dimenticato il fatto che lo Stato anche nel breve e nel medio termine deve essere presente e svolgere la sua azione redistributrice. Va quindi prestata la massima attenzione per evitare di sovrapporre obiettivi di natura finanziaria a quelli che hanno attinenza con le funzioni fondamentali dello Stato, cercando piuttosto spazi di manovra basati su criteri politici e non solo tecnico finanziari.
Per quanto concerne i ruoli e i compiti dello Stato vi sono sicuramente ampi settori nei quali lo Stato è stato invasore. Anche noi, dobbiamo riconoscerlo, siamo stati istanti nel chiedere risposte da parte dell'ente pubblico alle variegate forme di bisogno sociale. Perché lo abbiamo fatto? Abbiamo forse avuto timore nella capacità delle forze presenti nella società? Abbiamo forse anche noi dimenticato il principio della sussidiarietà? Non abbiamo saputo leggere in esperienze come quella di Caritas un messaggio che andasse oltre l'attività stessa di questo istituto? Oppure non abbiamo prestato sufficiente attenzione a creare le premesse affinché queste iniziative e risposte a specifici bisogni della società sorgessero dalla stessa società? Nell'inevitabile verifica dell'azione dell'ente pubblico in campo sociale, ma anche in altri settori (penso alla scuola) per verificare l'efficacia delle politiche e soprattutto il ruolo dell'ente pubblico, non si potrà evitare di riconsiderare compiti e responsabilità in funzione del principio di sussidiarietà che solo permette di tener presente l'interesse superiore (bene comune) e di valorizzare in quest'ottica la solidarietà, il volontariato e l'iniziativa individuale.
Il discorso dei compiti dello Stato non può però essere unilaterale; se é vero che, probabilmente, lo Stato si è spinto troppo in là con alcuni interventi, non si può dimenticare che esistono ancora spazi che meritano di essere riconfermati come di specifica spettanza dell'ente pubblico e altri in cui la sua azione si rende necessaria, penso alla questione ambientale. Ci sono esigenze umane che sfuggono alla logica del mercato. "Come ai tempi del vecchio capitalismo lo Stato aveva il dovere di difendere i diritti fondamentali del lavoro, così ora con il nuovo capitalismo esso e l'intera società hanno il dovere di difendere i beni collettivi che, tra l'altro, costituiscono la cornice al cui interno soltanto è possibile per ciascuno conseguire legittimamente i suoi fini individuali" (CA 40). Una lucida analisi che fa apparire come la difesa dei beni ambientali rientra in uno dei compiti principali dello Stato. • "l'uomo preso dal desiderio di avere e di godere, più che di essere e di crescere, consuma in maniera eccessiva e disordinata le risorse della terra e la sua stessa vita" (CA 37). • "mentre ci si preoccupa giustamente, anche se molto meno del necessario, di preservare gli habitat naturali delle diverse specie, ci si impegna troppo poco per salvaguardare le condizioni morali di un'autentica ecologia umana" (CA 38). • "è compito dello Stato provvedere alla difesa e alla tutela di quei beni collettivi, come l'ambiente naturale e l'ambiente umano, la cui salvaguardia non può essere assicurata nei semplici meccanismi di mercato". (CA 40).
Favorire l'imprenditore, soprattutto il piccolo e il medio imprenditore, confrontato oggi con tutte le conseguenze dei mercati aperti e che si traducono in maggior competizione, in maggior concorrenza e con il confronto con i grandi gruppi economici, per permettergli l'accesso alle tecnologie e all'innovazione al fine di rendere la sua opera competitiva e di renderlo capace di affrontare le sfide e le insidie dei mercati di oggi. In questo senso, per riprendere le parole della Mater et Magistra che invita a "stimolare l'iniziativa imprenditoriale" crediamo di trarre le conseguenze da una indicazione contenuta nella CA 32: "la moderna economia di imprese comporta aspetti positivi la cui radice è la libertà delle persone, che si esprime in campo economico come in molti altri campi. Se un tempo il fattore decisivo della produzione era la terra e più tardi il capitale, inteso come massa di macchinari e di beni strumentali, oggi il fattore decisivo è sempre più l'uomo stesso e cioè la sua capacità di conoscenza che viene in luce mediante il sapere scientifico, la sua capacità di organizzazione solidale, la sua capacità di intuire e soddisfare il bisogno dell'altro". L'uomo, la sua iniziativa, quindi e le sue capacità di capire e di scoprire: "proprietà della conoscenza della tecnica e del sapere su questa ricchezza si fonda la ricchezza delle nazioni industrializzate, molto di più che su quella delle risorse naturali" (CA 32). E termino proprio con l'uomo, con l'uomo imprenditore che riconquista il posto che solo le illusioni del marxismo e dopo che le forme del capitalismo hanno tentato di farlo scomparire. L'uomo di sempre oggi ci appare come il protagonista unico vero del nostro momento storico e del nostro futuro. Renzo Respini, avvocato, già sostituto procuratore
pubblico del Sopraceneri, dal 1983 è in Consiglio di Stato, dove ha diretto
i Dipartimenti di giustizia, economia pubblica, militare e ambiente. Attualmente
dirige il Dipartimento del territorio. di Christian Marazzi Ho scelto di discutere del rapporto tra dottrina sociale e economia di mercato quale occasione per mettere in evidenza due questioni in particolare, e cioè i limiti odierni del laicismo e il problema, che riguarda credenti e non credenti, del come fare dell'agire etico il momento costitutivo della pratica economica. La realtà messa esplicitamente in questione, quella realtà da cui occorre liberarsi, è la reificazione del mondo, l'assolutizzazione della produzione, la producibilità come criterio ultimo di giudizio. Con le parole del compianto economista Claudio Napoleoni, chiediamoci: "perché concentrare l'attenzione su ciò che i lavoratori possono avere oppure possono fare, e non anche, e magari principalmente, su ciò che essi possono essere?" È una domanda, forse l'"ultima domanda", che un economista si pone al culmine dello sviluppo della società capitalistica, o della società tecnocratica, in cui sembrano imperare le cose sugli uomini, in cui l'alienazione in quanto dominio del prodotto riassorbe in sé, e quindi annulla, tutti i soggetti. È una domanda che si propone di interrogare la laicità della politica di liberazione, la laicità come forma propria del pensiero moderno, un pensiero disincantato, materialista, illuminista, immanentista, che non trascende, neppure nella forma del progetto, i confini della coscienza. La storia, oltre che i contenuti, della dottrina sociale della Chiesa è la storia di un continuo confronto con la modernità su tre livelli distinti: quello delle dottrine e delle teorie economiche, quello dell'economia come rappresentazione dominante del mondo, e infine, quello cruciale, il livello delle pratiche economiche. La dottrina sociale della Chiesa pone domande etiche su questi tre livelli che conviene passare in rassegna. Per quanto riguarda le dottrine e le teorie economiche, in particolare l'economia politica liberale fondata da Adamo Smith, il confronto tra dottrina sociale e dottrina economica dovrebbe essere una critica alla pretesa di scientificità delle costruzioni teoriche degli economisti, una critica alla loro neutralità morale nel nome della scientificità. Ogni dottrina economica è implicitamente normativa, si rende cioè complice di certi poteri, giustifica certe forme di dominio, copre certe ingiustizie. Proprio per questo la dottrina sociale non può fare a meno di interrogarsi sui fondamenti epistemologici delle teorie economi che dominanti. Deve quindi intervenire anche a questo livello. Emile Poulat scriveva recentemente: "Da Leone XIII in poi, la Chiesa si è instancabilmente dotata di un pensiero sociale.. Per contro, non si era mai veramente preoccupata d'avere un pensiero economico" ("Pensée chrétienne et vie économique", Foi et développement, ottobre 1987). Come dire: è sufficiente attenersi solo ad una riflessione etica sull'economia, oppure occorre sviluppare una pratica e un pensiero cristiano dell'economia? È, insomma, possibile, oltre che auspicabile, una "dottrina economica" della Chiesa? La domanda non trova per ora ancora risposte soddisfacenti nell'ambito della dottrina sociale ma, anche, in altri ambiti del pensiero tardo moderno, a maggior ragione dopo il trionfo, benché assai precario, del capitalismo sul socialismo reale. E credo che le ragioni siano da ricercare proprio nella separazione tra etica ed economia di cui la dottrina sociale, se non riconosce il valore della creazione economica, (v. Ratzinger, 1986) rischia di rendersi complice. La posta etica dell'economia si situa principalmente nella creazione dei valori economici, ciò che presuppone l'attenzione alle scelte, alle decisioni e ai processi intimamente legati a questa dinamica. L'etica appartiene alla sfera della produzione, prima ancora che a quella della circolazione/distribuzione della ricchezza. Che la Chiesa si sia rifiutata di impegnarsi in modo definitivo nella raccomandazione di "un" sistema economico, sia esso socialista o capitalista democratico (e questo vale anche per la Centesimus annus, come vedremo in seguito) mi sembra testimoniare positivamente di una visione non ideologica dell'economia che non fa che confermare l'evoluzione storica attuale, in cui non sembrano esserci alternative ai capitalismi esistenti. Ciò non toglie (anzi) che la questione etica debba essere posta al centro delle dinamiche economiche, e non ad esse giustapposte. Perché proprio qui si tocca il limite principale del laicismo economico, proprio in questa schizofrenia l'etica si rivela il più delle volte impotente a fronte dei processi di produzione della ricchezza sociale. E dire che l'opera del Padre dell'economia liberale, l'opera di Adam Smith, ruota tutta attorno a questo nocciolo fondamentale. La teoria della divisione del lavoro di Adam Smith, ben diversamente dalle interpretazioni successive, non ha nulla a che fare con il comportamento egoistico quale spiegazione della divisione stessa del lavoro. È esattamente il contrario: per poter solo pensare alla divisione del lavoro, per poter immaginare la specializzazione delle attività umane, Adam Smith ha sempre presupposto il legame sociale quale legame fondante. Con lo sviluppo della divisione del lavoro infatti l'individuo non può più fare a meno materialmente dei suoi simili. Il suo rapporto con la società, con gli altri individui, diviene necessitato dall'impossibilità di garantirsi un'autosufficienza materiale. L'egoismo, piuttosto che essere la causa dei rapporti sociali, ne è l'inevitabile conseguenza. Ma se in Smith etica ed economia si sovrappongono (e non dimentichiamo che Smith fu professore di Scienza morale, prima di tutto), se nell'opera del Padre della economia politica non c'è dualismo tra etica ed economia, sarà il pensiero politico successivo a preoccuparsi, e con quale foga, di separare quanto Smith aveva unito. La moderna teoria dello Stato sfrutterà l'ottimismo antropologico di Adam Smith separando non solo l'etica dall'economia, ma anche la politica dall'etica. E lo farà per giustificare la rappresentazione della società come strumento dei fini privati degli individui, la società come luogo della massimizzazione privata della ricchezza. In questo senso, il laicismo che rivendica la scientificità della dottrina economica liberale si rivela curiosamente bigotto perché ripone la fede in un Dio mercato che, di fatto, non esiste nella sua qualità di sistema capace di auto regolazione, di sistema intrinsecamente razionale. Certo, la "mano invisibile" tanto evocata permette di espellere l'etica dagli affari reali degli uomini. Ma questa caricatura di un Dio economico che equilibra silenziosamente le azioni della pluralità degli individui appartiene più a Mandeville che a Smith, appartiene più a colui che, per laicizzare l'economico, ha posto l'equazione: vizi privati = benefici pubblici. I ricchi, dice invece Smith, a dispetto del loro egoismo, dividono il prodotto del povero, e così, senza volerlo e senza saperlo, promuovono gli interessi della società, e forniscono i mezzi per la moltiplicazione della specie.. Anche il ricco soggiace ad una misura, una regola, una medietà desumibile dall'esperienza sociale; per quanto ricco egli è parte di un "sistema". La dottrina sociale della Chiesa, in particolare la Centesimus annus, è in questo senso preciso un'occasione importante per svelare il bigottismo di cui è impregnato il pensiero economico laico tardo moderno. Non dimentichiamo che dietro il mondo "materialista", laico e disincantato in cui viviamo, lavora sempre lo gnosticismo: la fede gnostica è una divinizzazione dell'uomo che non riconosce alcun limite. Paradossalmente, è l'assoluta trascendenza del Dio gnostico quel Dio nascosto nell'uomo, che dall'uomo attende d'essere liberato da questo mondo malvagio creato da un dio minore è questa trascendenza che prepara il trionfo del nichilismo della scienza e della tecnica. Questo stesso gnosticismo, questa religione che permette oggi di porre la fede nel mercato e solo in esso, ma che ha ormai rinunciato a ogni domanda di salvezza, questo credo economico andrebbe forse criticato proprio dal punto di vista teologico. Si tratta, di nuovo, di svelare le origini di una fede per vedere in che modo la dimensione del possibile, la "quarta dimensione", la dimensione di un oltre, sia oggi a portata di mano. Le nuove tecnologie che hanno rotto con i paradigmi scientifici del materialismo newtoniano e galileiano, già si muovono nella direzione del possibile, dell'oltre, del virtuale, ponendo problemi etici irrisolvibili se non si pongono in questione i fondamenti del pensiero economico e politico ereditati dall'epoca moderna materialista. Chiediamoci ora se la dottrina sociale della Chiesa sia
riuscita, in questo confronto con la modernità, a sciogliere i nodi di
cui abbiamo parlato. La mia impressione è che la Centesimus annus ci
sia riuscita solo in parte, e questo proprio a causa del suo parziale confronto
con la pratica economica, una pratica che costringe davvero ad interrogarsi
sull'economia come produzione di valore. Proponendosi come rappresentante del mondo del lavoro, la Chiesa non nega comunque la proprietà privata. Anche questo costituisce assieme una continuità e una rottura, dato che è la prima volta che la proprietà privata viene esplicitamente riconosciuta dalla dottrina sociale della Chiesa. E qui, proprio nel luogo che maggiormente ha fatto scandalo o ha rassicurato certuni, bisogna vederci chiaro. La proprietà non è un diritto assoluto: essa è sottomessa al principio della destinazione universale dei beni della terra che la limita, anche quando essi sono l'oggetto di una appropriazione privata. Bisogna aggiungere che oggi l'appropriazione privata o, meglio, il principio che la legittima, sta perdendo di importanza di fronte alla crescita del lavoro sociale e del sapere tecnico scientifico che sempre più diventa il principio della sua legittimazione. Oggi, la proprietà privata si dà nella forma del comando sul sapere sociale, sulla quantità di conoscenza accumulata negli esseri umani, quel sapere astratto di una classe sociale che Alvin Toffler ha chiamato il "cognitariato". La cooperazione del lavoro sociale, l'essere umano stesso, assai più della natura e del capitale, sono oggi le basi di una nuova proprietà. La proprietà e il mercato sono in tal modo sottomessi ad un duplice limite: quello che è stabilito dal "principio di solidarietà" e, in secondo luogo, quello che è legato al "principio di sussidiarietà", ossia l'affermazione di un libero processo di auto organizzazione sociale, che lo Stato deve riconoscere e sostenere. Il movimento associativo dei lavoratori e dei cittadini, che incarna l'unità dei due differenti principi, deve in tal modo rappresentare la leva essenziale della trasformazione della società, che la porterà oltre il capitalismo. Si arriva così, ed era inevitabile, alla questione fondamentale posta dalla Centesimus annus, quella del superamento dello Stato sociale o, meglio, del rovesciamento del principio di sussidiarietà. È qui che il problema del passaggio dalla dottrina sociale alla dottrina economica della Chiesa di cui parlavamo all'inizio si pone con più urgenza. In tutto il Novecento socialità e statualità sono stati praticati come sinonimi nello scambio tra autonomia del sociale e sicurezza. Vi è stato, in questo lungo periodo, una sorta di statalizzazione della lotta distributiva, un progressivo trasferimento allo Stato di attribuzioni sempre più ampio nella gestione di settori sempre più estesi della vita associata fino a consegnare allo Stato il monopolio della socialità. La crisi attuale riapre, per molti versi, quello scontro che il Novecento aveva dato per concluso, ossia lo scontro tra un processo di socializzazione proveniente dal basso e un processo di stabilizzazione della società proveniente dall'alto. La crisi finanziaria dello Stato, dichiarando per certi versi un "si salvi chi può" all'insegna della "deregulation", pone in modo urgente la necessità di una risposta nuova. È possibile inventare una risposta non statuale ai problemi della "società civile"? È possibile contrapporre alla deregulation individualistica una nuova socialità solidaristica fondata sull'autoregolazione mutualistica, sul principio collettivo dell'auto amministrazione solidale? Non si tratta di aderire alla deriva dominante che predica "meno Stato, più mercato". Si tratta piuttosto di contrapporre all'"asocialità" del mercato e alla "socialità astratta" (e declinante) dello Stato una più autentica socialità del sociale. Si tratta, insomma, di porre la questione di un'etica economica a partire dalle pratiche di vita e di lavoro, un'etica che rifiuta la fatalità, che esige giustizia, che persegue la superiorità dell'essere sull'avere, che ricerca il bene della collettività, che nei meandri delle situazioni economiche sceglie la difesa dei poveri e degli sfruttati. Tutto il dibattito sul terzo settore, sul privato sociale, è di fatto un dibattito che pone al centro dell'attività socio economica la questione dell'etica. Questo è il tema centrale posto dalla dottrina sociale, questo è il luogo di un confronto che, superando le barriere tra laicismo e religiosità, costringe ad un dibattito politico sul superamento dello Stato sociale in quanto superamento del Novecento, in quanto superamento della valutazione economica dell'Uomo. Christian Marazzi, economista presso il Dipartimento
opere sociali, prof. di ricerca sociale all'Università di Losanna, autore
dello studio sulla povertà in Ticino Domanda Avrei il piacere di chiedere all'ultimo conferenziere se nella enciclica del Papa, la Centesimus Annus, non ci sia una indicazione precisa per il superamento di questa economia di mercato che tanta sperequazione ha causato e continua a causare, ovvero se non ci sia una indicazione per una nuova svolta che potremmo definire come economia di comunione. Vorrei sapere se è un concetto che già sta girando nell'ambiente specializzato.
Trovo che ci siano dei dislivelli dentro la Centesimus Annus e penso che questo sia dovuto proprio al periodo nel quale è stata scritta e cioè fra la caduta del muro di Berlino e la guerra del Golfo; periodo certamente complesso per chi doveva scrivere una cosa di tale importanza. Ho constatato, leggendo questa enciclica, dei dislivelli proprio attorno a questa questione. Per esempio, quando penso ad alcuni passaggi, ad alcune affermazioni della Centesimus Annus sul rapporto Nord Sud, affiora ancora tutto sommato una visione dei poveri del Terzo Mondo i quali devono darsi da fare per pensare ad orientarsi nello sviluppo economico mondiale, ecco, lì vedo un' incertezza. È chiaro che i rapporti Nord Sud hanno a che fare con un funzionamento economico che produce delle distorsioni di cui l'economia di mercato è la più palese, la più evidente. Quello che invece va appunto detto chiaramente è che per evitare queste distorsioni non basta un' azione redistributiva, ma bisogna piuttosto andare al cuore dei meccanismi che producono questi squilibri. Constato delle incertezze in questo tentativo di situare la questione etica al centro del sistema economico, e ciò è spiegabile proprio dal periodo storico durante il quale è stata elaborata l'enciclica; questione etica che è un problema che si pone sia al pensiero religioso e sia al pensiero laico, non religioso. In questo caso non è affatto evidente l'individuazione nel settore terziario, nel privato sociale e così via, di un luogo, come dicevo, di sperimentazione di questi nuovi orizzonti; una comunità del non solo dare ma anche del produrre dei valori.
Vorrei chiedere al professor Donati se ci ripete il suo concetto di bene relazionale. Molti dei presenti sono impegnati nel settore sociale; sono infatti presenti volontari, persone che si occupano di scuola, di scuola privata, di accoglienza. All'Onorevole Respini vorrei chiedere come lo Stato, il quale oggi non sembra molto pronto ad accogliere queste iniziative private, potrebbe aiutare di più queste iniziative quali appunto le scuole private, il volontariato. Faccio questa domanda perché mi occupo per conto della Caritas di animazione del volontariato, raccogliendo le reazioni dei volontari. Mi sembra di capire che lo Stato in certi settori è stato, come lei ha detto, invasivo.
Cercherò di dare semplicemente l'idea di questo concetto di bene relazionale, perché ovviamente la teoria ed anche la pratica non può essere espressa in pochissimi minuti. Io distinguo quattro tipi di beni: i beni privati, i beni pubblici, i beni relazionali collettivi ed i beni relazionali primari di comunità. È importante capire che i beni si differenziano in tanti tipi, per cui, ad esempio, anche l'economia di comunità o i beni comunitari non sono che uno dei tipi di beni, in questo caso relazionali. Quindi, un bene privato o bene di consumo, ovvero ciò che uno compra e utilizza per la propria necessità, non ha, per così dire, bisogno di passare attraverso gli altri. Se io ho bisogno del pane per fare la colazione vado e compro il pane; questo è un bene privato, non ho bisogno di produrre il pane con altri, di fruirlo con altri. Ho fatto l'esempio invece di beni pubblici, come le strade, come le reti di trasporti, come l'ecologia. L'ecologia, per esempio, è in gran parte un bene pubblico, perché esce dalla scala della relazione interumana. È un problema che solo lo Stato in qualche modo può affrontare, anche se singoli aspetti possono e debbono forse essere gestiti dalle comunità intermedie. Ci sono aspetti ecologici, come il bene di un bosco, un bene appartenente a particolari enti ecologici, che debbono passare attraverso delle collettività specifiche. In generale, il bene pubblico è un bene che attiene alla collettività nel suo complesso, come comunità politica, dunque, come Stato. Ci sono però nel mezzo dei beni che non possono essere realizzati che assieme dalle persone coinvolte. Essi non sono escludibili per nessuno che fa parte di quel gruppo di persone che hanno a che fare con quel bene, non sono frazionabili, cioè non sono divisibili in termini della teoria economica e non sono neanche concepibili come somme di beni individuali. Io faccio sempre l'esempio della famiglia; essa è un bene relazionale. Infatti la famiglia, quale clima in cui le persone vivono e crescono, per i bambini, per i figli è un bene relazionale primario di tipo comunitario, perché appunto lo si può produrre solo assieme, nel senso che uno dei coniugi non può dire: ci pensi tu alla famiglia; no, si può produrre solo assieme. Nessuno che faccia parte della famiglia può essere escluso, tutti hanno il diritto di condividere quello che è della famiglia. La famiglia, come si dice, è un solo calderone. In questo calderone si mette tutto e ciascuno prende ciò di cui ha bisogno; quindi da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni. Non possiamo dividere la famiglia in tante parti, essendo un bene comune e non una somma di beni individuali; è qualcosa che va molto al di là della somma ed anche del prodotto degli individui: è un bene comune in senso proprio. Al di là dei beni comuni primari di tipo comunitario ristretto come la famiglia, ci sono dei beni relazionali che io chiamo collettivi, perché fanno riferimento alla cooperazione e solidarietà sociale. Una cooperativa di solidarietà sociale nella quale, per esempio, lavorino persone handicappate o persone portatrici di handicap o persone che hanno qualche particolare problema, producono, non soltanto quel bene che magari poi vendono anche sul piano del mercato. Essi producono una realtà che è il bene della solidarietà con tutto ciò che significa e non è un bene privato, non è un bene pubblico, non è un bene relazionale primario di tipo cumunitario. Naturalmente, è su questo esempio che potremo discutere. Il discorso del bene relazionale vuol mettere in evidenza il fatto che questo bene, cioè il prodotto finale di questa cooperativa che non è solo la cosa che si scambia sul mercato, è invece l'ambiente umano, il clima in cui queste persone diventano libere, le quali poi si rendono capaci di sviluppare le proprie attitudini, i propri talenti umani. Questo bene dipende dalle relazioni messe in atto dai soggetti, l'uno verso l'altro. Questo bene può essere fruito solo se questi soggetti si orientano in conseguenza del fatto che lì c'è un bene relazionale comune collettivo che non è privato, non è pubblico, non è primario nel senso della famiglia, di una comunità più ristretta. Quindi è un bene che è la funzione delle loro relazioni intersoggettive; un bene che ci può essere solo se le relazioni intersoggettive sono determinate in un certo modo. Questo lo può fare solo quella comunità. Ecco perché il discorso delle comunità intermedie non lo può fare il mercato che produce beni privati ed ha il suo spazio, perché il mercato deve avere il suo spazio. Non lo può produrre lo Stato che realizza beni pubblici di altro tipo, e neppure la famiglia; lo fanno queste comunità. Diciamo che lo chiamiamo bene privato sociale o terzo settore, ed è diverso dal "common good", dall'interesse pubblico, dall'interesse collettivo, dagli interessi diffusi e così via. È un'altro tipo di bene ed è quello sulla base del quale credo che la solidarietà possa domani indirizzarsi più concretamente.
Cosa può fare lo stato per meglio valorizzare queste forze che sono presenti nella società e quindi la capacità stessa presente nella società? Credo che ci sono due strategie fondamentali: la prima è quella di rivedere e ripensare i compiti dello stato. Oggi è un processo in atto che ha due dinamiche. La prima è quella di trasferire compiti e competenze, soprattutto quelle finanziarie, dagli enti superiori a quelli inferiori, perché non si può in una operazione di risparmio trasferire da quelli inferiori a quelli superiori. Il processo segue questa via: la Confederazione scarica sui cantoni, i cantoni scaricano sui comuni. Questa via seguita non è evidentemente soddisfacente. La seconda dinamica invece è quella di rivedere i compiti dello Stato nell'ottica del risparmio, quindi di razionalizzare, di ridurre le spese. Non mi sembra neppure questa una strada che possa portare a grandi risultati. La seconda strategia è che l'esercizio corretto dovrebbe essere quello di ripensare i compiti e le funzioni dello stato in funzione degli obiettivi legislativi e politici. Valutare se questi obiettivi sono ancora giustificati nella applicazione di questi obiettivi politici. Questo esercizio va fatto non soltanto nell'ottica finanziaria, del risparmio finanziario, del risultato finanziario finale, ma nell'ottica di un concetto dello stato e del suo ruolo. È un esercizio che oltre tutto rende necessario, me ne sono reso conto, se volete una volta in più questa mattina,sentendo le relazioni dei miei correlatori. In questo momento vi è un ripensamento di questi ruoli dello stato nei confronti della società, di ciò che lo stato deve fare, di chiedersi che cosa può fare la società e che cosa si aspettano gli uni e gli altri. Oggi c'è un malessere dovuto proprio a questo fatto. Non sono concepiti, non sono più legittimati i ruoli degli uni e degli altri e devono trovare una nuova forma di legittimazione. È un discorso civile, profondamente politico che dobbiamo affrontare oggi sulla base di parametri che però devono essere scelti e stabiliti, e che non devono essere soltanto parametri finanziari. L'altra riflessione che volevo fare era legata alla prima domanda che era stata posta. Io capisco che l'economista Marazzi il quale questa mattina ha svolto una relazione bellissima, chiarissima ed ha dimostrato anche profonde conoscenze nella dottrina sociale della Chiesa e profonda capacità di lettura voglia cercare nella dottrina sociale della Chiesa il modello economico. Io penso invece che la dottrina sociale della Chiesa non fornirà mai il modello economico, perché ad essa non compete di fornirne uno. La dottrina sociale della Chiesa indica dei valori, dei punti di riferimento, dei riferimenti ideali. Non indicherà il modello economico; per questa ragione l'economista ve lo cercherà invano. Egli vi troverà invece il ruolo della persona, quello dell'uomo; in più troverà per la prima volta nella Centesimus Annus il ruolo dell'imprenditore. Quindi è nei valori che si troveranno delle risposte per orientare quei modelli economici ed è quello che spetta a noi fare.
Domanda rivolta a Pierpaolo Donati. Qual è il ruolo delle diverse teorie sulla antropologia che si scontrano nel mondo, rispettivamente delle ideologie che poi diventano partiti? Se vogliamo infatti portare avanti una giustizia ed una carità nel senso di attenzione all'uomo, ciò deve pur passare attraverso le leggi. Quindi ci deve essere una ricchezza in questo scontro, se no rimane soltanto una disperazione frenante. Che tipo di ricchezza allora hanno le minoranze dentro questo scontro, perché altrimenti scattano dei meccanismi nei partiti di maggioranza o nelle ideologie di maggioranza che potrebbero schiacciare determinate facce della ricerca della carità, della solidarietà dentro l'uomo.
Le ideologie sono cadute, bisogna prenderne atto, tanto quelle marxiste e questo lo ha detto la Centesimus Annus , quanto quelle liberali; il liberalismo è alla deriva. Secondo me la grande questione dei prossimi cento anni è una, ed è stata sollevata appunto con la Centesimus Annus per il prossimo millennio: è la questione umana. Mentre con la Rerum Novarum si è sollevato il problema della questione sociale in termini di lotta di classe, di redistribuzione delle risorse fra le classi sociali, noi abbiamo in questo momento storico una discontinuità forte, fortissima. Il vero problema diventa per i prossimi anni la distinzione tra umano e non umano, cioè noi stiamo annullando i confini fra l'umano e il non umano, intendendo per non umano sia il mondo animale sia il mondo ecologico, l'ambiente fisicamente inteso, la biosfera, l'ecosistema ma anche le biotecnologie della riproduzione. La grande questione che si aprirà non è quindi più una questione ideologica, è una questione di come riusciremo a distinguere l'umano dal non umano, se riusciremo a salvaguardare una società dell'umano dal momento che la società non è più immediatamente umana; questo è il problema che abbiamo di fronte. Fino ad oggi, dire società e dire sociale significava dire umano, perché noi vediamo la società come "agita da uomini". In realtà la società è diventata non umana, non dico ipso facto disumana: disumana nel senso di non umana, non necessariamente umana. La società ha dei meccanismi che non necessariamente sono umani. Ci sono infatti dei rapporti, delle relazioni sociali, economiche e politiche che non necessariamente sono umane. Il problema del domani è costruire la società dell'umano, considerato che la società non è immediatamente umana, e questo è il grande compito di ciò che viene dopo le ideologie sia di matrice liberale che marxista. Nel prossimo futuro non voglio essere profetico in questo senso, ma credo che la profezia venga dal Magistero, dalla Chiesa , con la caduta delle ideologie il problema sul quale il mondo si dovrà confrontare sarà la questione umana, ovvero il saper distinguere l'umano dal non umano, perché l'umano si sta perdendo nel non umano. Se dovessimo disegnare un compito della Caritas, svolgere un discorso sulla solidarietà e la carità, dovremmo metterlo in relazione a questa questione che è quella fondamentale dei prossimi anni.
Non ci poteva essere migliore conclusione di questa prima parte della giornata se non in questa forma così brillante e ricca di prospettive sull'umano. Concludendo, è mio dovere ringraziare gli oratori che hanno dato vita a questa mattinata, al vescovo Eugenio, a Pierpaolo Donati, a Renzo Respini e a Christian Marazzi. Ringrazio pure coloro i quali durante questi lavori hanno preso parte attiva alle traduzioni durante i discorsi e gli scambi, Giovanni Mascetti, Luigi Colombo e Rodolfo Snyder. Visto che all'inizio siamo partiti dalla parola di Dio, vorrei concludere con una parola dell'uomo. Una brevissima preghiera, proprio al Figlio dell'Uomo, forse per qualcuno apparentemente audace o rischiosa; è la conclusione di questa prima parte del nostro incontro. Dall'intelligenza che tradisce, dalla macchina che rende schiavi, dal denaro che corrompe, Signore salva l'amore. di Edoardo Bressan È opinione spesso condivisa che lo sviluppo dell'assistenza si sia svolto in senso progressivo e ascendente, dall'ambiguità dell'elargizione caritativa alla certezza di una prestazione fondata sul diritto di cittadinanza, caratteristica dei sistemi di Welfare State. Il Welfare segna appunto, in questa interpretazione, il punto di arrivo di un riconoscimento di diritti che dalla sfera puramente civile e quindi politica giunge finalmente a quella sociale, superando la figura del povero, prima, e del lavoratore, poi, in favore di quella del cittadino. Dalla carità allo Stato sociale, dunque, come recita il titolo del libro ormai famoso di Jens Alber, uscito alcuni anni fa. Ma qualche riserva potrebbe essere avanzata, anche senza entrare nel merito del ricorrente dilemma fra continuità e mutamento (quanto rimane dell'antica carità nei moderni sistemi sociali? e il cambiamento è sempre e comunque in positivo?), e anche senza pensare a fenomeni come il volontariato che sembrano davvero sostenere le ragioni degli "antichi" più di quelle dei "moderni". Il fatto è che la dimensione della carità e la scelta del volontariato sono all'origine del sistema assistenziale dell'Occidente, per distinguersi se mai da esso solo più tardi. La respublica christiana del Medioevo realizza quello che gli storici chiamano "sistema di carità", la trama di opere e di istituzioni in larga misura libere e autogestite che rispondono alla molteplicità dei bisogni sulla base della decisione personale e volontaria di chi sceglie di "dedicarsi" al servizio ospedaliero o di far parte di una confraternita elemosiniera. Ciò naturalmente avveniva all'interno di un mondo che si definiva in termini religiosi: il povero era l'incarnazione di Cristo, della sua passione salvifica che continuava nelle membra sofferenti, mentre la carità rappresentava la possibilità concreta e in un certo senso privilegiata di ottenere la salvezza dell'anima. Non a caso, la formula giuridica entro cui l'Europa cristiana aveva, per così dire, racchiuso l'intervento caritativo era quella dell' "opera pia", e cioè di un'istituzione che concreta mente poteva assumere aspetti diversi, dall'ospedale all'ospizio, dalla confraternita elemosiniera a quella per l'assistenza domiciliare, a tutto ciò insomma che i bisogni dei tempi richiedevano all'istituzione stessa. Essa basava essenzialmente la sua attività sulla dedizione dei propri membri, di coloro che appunto prestavano gratuitamente un servizio a favore del prossimo e che vivevano di quanto altre persone e altri istituti lasciavano per sostenere il loro impegno, grazie a quel continuo flusso di lasciti e donazioni alle opere pie che aveva finito per costituire un patrimonio talvolta ingentissimo. Lo sviluppo impetuoso della civiltà comunale mise tuttavia in crisi questa modalità d'intervento, soprattutto con l'aggravarsi della situazione sociale e sanitaria a partire dal XIV secolo. I numerosi pia loca delle città e delle campagne non riuscirono più a far fronte a necessità crescenti, mentre si diffondevano atteggiamenti discriminatori e colpevolizzanti nei confronti della povertà. L'inedito intervento dei pubblici poteri favorito, nel periodo precedente l'età della Riforma, dalla stessa latitanza dell'istituzione ecclesiastica e che si palesa nelle unificazioni ospedaliere e nelle prime "leggi sui poveri" non poteva che riflettere tali contraddizioni. Se in effetti esso favoriva una maggiore specializzazione, medica da una parte e sociale dall'altra, si collocava però all'interno di un contesto sempre più "disciplinare", in sintonia con le scelte complessive dell'assolutismo moderno. In una situazione non facile e per molti versi imposta dalle circostanze, rimaneva comunque vivo lo spirito della tradizione caritativa, che trovò un grande impulso nella Riforma cattolica, analogamente a quanto avveniva nel mondo protestante. Superando un certo immobilismo della cultura medioevale, molte iniziative vennero promosse dai gruppi legati alle istanze riformatrici e all' "umanesimo devoto". La riforma dell'assistenza attuata nel Cinquecento in molte città europee esempio in questo senso quella lionese rispondeva all'esigenza di una maggiore attenzione alla persona, ben prima che a finalità di controllo sociale o addirittura di "reclusione" dei poveri. Accanto alla rete di ospedali cittadini, da una parte, e di consorzi elemosinieri e monti di pietà, dall'altra (questi ultimi sollecitati dalla predicazione rispettivamente francescana e domenicana), sorsero numerose attività grazie ai nuovi gruppi laici e religiosi. Gli oratori del Divino Amore promossero quell'iniziativa straordinaria che furono gli ospedali degli "incurabili" per i colpiti dalla sifilide, e Gaetano da Thiene invitava a riconoscere in loro il volto di Cristo (oggi lo si potrebbe dire per i malati di AIDS); nuove congregazioni religiose si rivolsero all'assistenza agli orfani, alla scuola e all'istruzione popolare, al rinnovamento della pratica sanitaria, come i Camilliani e i Fatebenefratelli; sorsero ospizi e "ritiri" per anziani, inabili, giovani donne, vedove, nel quadro di una mutata sensibilità per i temi dell'infanzia e della famiglia. Riprese altresì vigore l'azione caritativa direttamente sostenuta dalla comunità ecclesiale, attraverso le parrocchie, le scuole della dottrina cristiana, le confraternite, alcune delle quali, soprattutto gesuitiche, si dedicavano a un volontariato ospedaliero ante litteram. L'apporto dei religiosi e il coinvolgimento dei laici s'inseriscono in quel progetto di "santità popolare" che rappresenta un elemento centrale del "tridentinismo", come dimostra in modo esemplare l'opera di Carlo Borromeo. Che la vita non dovesse rappresentare "un peso per molti, e una festa per alcuni" (giudizio che il Manzoni attribuisce al cardinal Federigo, ma che in realtà trae proprio dall'insegnamento di San Carlo) era una sorta di condizione necessaria all'esperienza religiosa, e al tempo stesso un impegno che non poteva poggiare su uno sforzo puramente umano. La redenzione delle opere e dei giorni dell'uomo passava sì attraverso il potere mistico e simbolico dei sacri monti, dei santuari, delle croci, nell'ideale delimitazione di uno spazio sacro, ma non di meno per la strada di una solidarietà attenta alla scansione dei bisogni proprio per ricordare le necessità più vere dello spirito. E la carità si rivelava soprattutto una dimensione spirituale, come sottolineano in modo particolare le grandi pagine di San Francesco di Sales, davvero al cuore dell' "Europa dei devoti". Le stesse prerogative ecclesiastiche sugli enti assistenziali e ospedalieri, riaffermate dal concilio di Trento e ribadite in ambito lombardo dal Borromeo, se non mancarono di sollevare lunghi conflitti giurisdizionali, s'inserivano non di meno all'interno di un sistema che rispondeva a esigenze morali e religiose largamente condivise e che viveva, prima ancora che di riferimenti istituzionali, di legami di solidarietà e di socialità. All'interno dell'assolutismo stesso, non mancavano poi "elementi non assolutistici" e "ambiti d'autonomia" assai rilevanti, come ha sottolineato Gerard Oestreich, ben presenti, ad esempio, nel tessuto sociale svizzero e in genere alpino con la realtà delle "vicinie". Del resto, ancora nel Settecento, di fronte agli inediti problemi posti dallo sviluppo economico che andava accelerandosi, nasceva la proposta di una riforma del sistema caritativo e sociale nel suo insieme che tenesse conto di questo spirito e di questi valori: basti per tutti il nome di Ludovico Antonio Muratori, in cui la scoperta del "sociale" metteva in crisi molte delle forme ereditate dalla tradizione, ma non i suoi riferimenti religiosi. Ben presto, vi fu tuttavia una vera e propria rottura rispetto a questa impostazione. Occorre, è appena il caso di ricordarlo, richiamare in proposito il pensiero degli illuministi e la nuova visione dell'uomo affermatasi in Europa con la Rivoluzione francese, rilevando almeno che, accanto a una mutata concezione della persona e della convivenza civile, si affermò anche un diverso modo d'intendere l'intervento sociale, immediatamente proiettato verso l'utopia. È veramente significativo lo slogan rivoluzionario "né poveri né malati, né ospizi né ospedali", che rifletteva un'idea tanto nuova quanto suggestiva: la soluzione del conflitto sociale e delle disuguaglianze prodotte dalla società nel suo sviluppo dato per presupposto il fatto di un'umanità originariamente "buona" avrebbe comportato la soluzione anche degli eterni problemi che essa si portava con sé e che trovavano appunto riscontro nell'evangelico "i poveri li avrete sempre con voi". Ora, noi sappiamo come è finita questa storia: a fronte di un progetto utopistico di abolizione della povertà, se non della malattia, si poté invece riscontrare un'accentuazione degli strumenti di controllo sociale, in attesa dell'avverarsi dell'utopia. Proprio negli anni dell'Illuminismo e della Rivoluzione francese si rafforzarono infatti quelle forme di contenimento e di repressione dei poveri, dei mendicanti e dei folli che venivano, già allora, bollate con un'eredità dell'ancien régime. Ma le vecchie istituzioni sociali assistono, sia pure in modo paternalistico quando non apertamente repressivo; le nuove rieducano a un ordine sociale infranto e quindi inevitabilmente controllano. Si tratta, a ben vedere, della contraddizione insita nell'idea stessa di rivoluzione come possibilità di autorealizzazione dell'uomo senza riferimenti ulteriori, con l'inevitabile sostituzione della politica alla religione in vista di un passaggio "dal regno della necessità a quello della libertà". Un regno della libertà inevitabilmente raffigurato quale "negazione delle istituzioni del passato", come una "società senza stato, senza chiese, senza esercito, senza delitti, senza magistratura, senza polizia...", secondo la penetrante osservazione di Augusto Del Noce. Ma l'ideologia e la prassi rivoluzionarie non possono, com'è noto, fare a meno di strumenti tanto utili per raggiungere un avvenire che realizzerà il senso stesso della storia; un obiettivo questo che, non avendo un fondamento adeguato, verrà indefinitamente rinviato, lasciando sussistere un sistema di controllo ben altrimenti adatto a una prospettiva che resta pur sempre fondata sull'utilità sociale. E tutto questo comporta l'allentamento, se non lo scioglimento, di quei legami di socialità, per così dire, naturali fra gli uomini e fra i gruppi sociali che, pur fra mille contraddizioni, esistevano ed erano radicati nella società e nel vissuto europeo. Si rafforza invece, in modo solo apparentemente paradossale, il potere dello Stato, unico garante della convivenza sociale e del raggiungimento dei suoi fini, come viene lucidamente anticipato da Rousseau in un celebre passaggio del Contratto sociale (libro II), in cui si afferma che gl'individui devono avere il minimo possibile di rapporti fra loro e il massimo (di rapporti e quindi di dipendenza) con lo Stato: "La seconda relazione è quella dei membri tra di loro, o con il corpo intero; e questo rapporto deve essere nel primo caso il più piccolo possibile, e nel secondo il più grande possibile; in modo che ogni cittadino sia in una perfetta indipendenza rispetto a tutti gli altri, e in una estrema dipendenza rispetto alla città...poiché non c'è che la forza dello Stato che faccia la libertà dei suoi membri". Non è difficile comprendere ciò che ne consegue: la laicizzazione e il controllo statale dell'assistenza, con cui venne in realtà nazionalizzato tutto ciò che viveva nelle forme dell'opera pia laica o ecclesiastica, giuridicamente molto varia e certo non immune da abusi, ma pur sempre libera e autonoma nel suo sviluppo. In Lombardia, le riforme giuseppine e poi, a maggior ragione, quelle rivoluzionarie e napoleoniche portarono a compimento questo processo. È un punto di non ritorno, poiché da allora in avanti gl'istituti di beneficenza assunsero una configurazione pubblicistica, con l'inevitabile abbandono dei tradizionali valori di riferimento. Il problema divenne dunque, da una parte, quello del benessere sociale e non più del proprio bene spirituale e religioso (la "salute del corpo" che sostituisce la "salvezza dell'anima", come ha scritto Michel Foucault) e, dall'altra, la comparsa di un nuovo soggetto nel campo dell'intervento sociale, lo Stato appunto, il quale si assunse direttamente l'onere di rispondere ai bisogni. Ma tutto ciò avvenne in una forma assai parziale e contraddittoria, in quanto se uno dei fondamenti della politica assistenziale post rivoluzionaria era quella di affermare il dovere dello Stato d'intervenire, non si riconosceva però un diritto soggettivo del "cittadino" (non più suddito!) a essere soccorso (più coerente era stato senz'altro il giacobinismo, coniugando l'affermazione di un positivo "diritto di sussistenza" come in Italia veniva tradotta la celebre affermazione contenuta nella Costituzione dell'anno II con la democratizzazione delle istituzioni sociali passate sotto controllo pubblico). Per un riconoscimento di tal genere si sarebbe dovuto attendere ben altro, si sarebbe dovuto attendere il movimento operaio, il socialismo e il "cattolicesimo sociale" di fine secolo, determinanti per l'avvio delle diverse legislazioni sociali nazionali. Questi fatti andrebbero certo collegati a una complessa evoluzione economica e sociale, che aveva pesanti ripercussioni sulle condizioni di vita dei ceti popolari, soprattutto nella prima parte dell'Ottocento. Bisogna però notare che, di fronte a fenomeni di tale portata e gravità, la carità non poteva più essere una risposta naturale, qualcosa che in un contesto cristiano si produce spontaneamente, con molti ed evidenti limiti ma comunque con un suo spazio e una sua possibilità di espressione. La carità diventava inevitabilmente, per i credenti, un valore da difendere, non soltanto sul piano di una battaglia culturale e della risposta all'ideologia rivoluzionaria, ma anche e soprattutto nella pratica quotidiana. Si trattava cioè di adottare stili di vita e comportamenti antitetici ai modelli e ai valori prodotti da un sistema sociale in cui, sia pure con una certa forzatura, si avvertivano i fondamenti utilitaristici se non materialistici, comunque laici e all'interno di una prospettiva statalistica che ostacolava sempre più l'azione pubblica della Chiesa. È quindi di fronte alla rottura di un antico ordine politico e di un modello sociale condiviso che nasce una risposta religiosa in termini anche organizzativi o, per meglio dire, comunitari. Il movimento delle "Amicizie cristiane", nato alla fine del Settecento e assai diffuso in Lombardia e nel Ticino già ai primi del secolo successivo, non va infatti interpretato come pure ha fatto una parte della storiografia alla stregua di un tentativo controrivoluzionario, che si opponeva al dilagare dei libri immorali e volterriani diffondendo letture edificanti. Le "Amicizie" erano in realtà molto di più, volendo sì ricreare un tessuto di vita cristiana, in polemica spesso aspra con i rivoluzionari allora vincenti con gli "spiriti forti", come si diceva , ma attraverso l'esempio, dedicandosi a una concreta opera assistenziale. Non si può non pensare alla chiesa di Sant'Alessandro a Milano e ad alcune grandi figure come i barnabiti Gaetano e Felice De Vecchi, che raccolsero una singolare comunità di "dame" e di "signori", la quale, se da una parte divulgava un certo tipo di scritti "sani" da contrapporre a quelli che allora andavano per la maggiore, dall'altra si recava ad assistere i malati all'Ospedale Maggiore, riprendendo l'antica tradizione di volontariato confraternale. Erano quelle che il Porta chiamava, con un'ironia un po' ingenerosa, le "dame del biscottino" (il conforto che recavano ai malati...), ma che non corrispondevano certo a un'immagine pietistica, come può ben testimoniare in una non dimenticata pagine della Morale cattolica l'elogio manzoniano della loro fondatrice, Teresa Trotti Arconati. Intorno al gruppo dell' "Amicizia cristiana" milanese e della, ad essa legata, "Pia Unione di carità e di beneficenza" si riconosceva infatti tutto un mondo che aveva trovato nella carità il suo punto di riferimento. E proprio con questa esperienza entrò in contatto Maddalena di Canossa la prima tra le fondatrici di nuove congregazioni religiose dedite all'assistenza e all'apostolato sociale , dopo essersi prestata, nella sua Verona, per la cura dei feriti delle guerre napoleoni che. Nasceva così un nuovo tipo d'impegno, la risposta che i credenti, attraverso le "opere" della carità, davano al modello politico e sociale che si andava affermando, una risposta che cercava di badare soprattutto alla realtà, nei suoi aspetti per così dire antropologici, e non certo a riproporre un ritorno all'antico. I protagonisti del cattolicesimo lombardo erano molto espliciti su questo punto, ribadendo di non impegnarsi per riportare qualcuno sul trono, bensì per creare un tessuto sociale cristiano. Se si riconsidera la storia del secolo scorso da questo punto di vista, non ci si può sorprendere di come sorgano decine di congregazioni religiose, di cui moltissime nell'Italia settentrionale. I campi di apostolato potevano appunto andare dalla scuola all'assistenza ai minori in difficoltà, dagli ospedali al mondo del lavoro, dagli anziani ai disabili. Basti pensare al peso che ebbero nella trasformazione dell'assistenza sanitaria congregazioni come quelle delle suore di Carità della Capitanio e della Gerosa o delle Ancelle della Carità di Brescia, o i religiosi del Cottolengo nell'assistenza all'handicap; o ancora, nel campo della scuola popolare e dell'istruzione professionale, le canossiane, le dorotee, i salesiani di don Bosco (ancora una volta quanti legami, tutti da approfondire, con il mondo delle "Amicizie cristiane"...). Non s'intendeva certo negare, da questo peculiare punto di vista e ambito d'azione, l'importanza di una "pubblica assistenza" che si andava sempre più consolidando e nella quale sono da individuare le premesse del Welfare State, soprattutto da quando si sarebbe affermato, sia pure fra innumerevoli resistenze, un "diritto" del singolo cittadino a essere soccorso, destinato appunto a concretizzarsi nelle varie legislazioni sociali. Il valore di queste realizzazioni non venne mai sottaciuto, soprattutto dal momento in cui il "cattolicesimo sociale" divenne un protagonista delle lotte sindacali, della cooperazione, del mutualismo, sollecitando lo Stato a una funzione d'intervento e di garanzia. Ma fin da allora emergeva, in un certo senso, una riserva, una distanza critica rispetto a quella che sarebbe stata la linea di sviluppo prevalente: così si spiega l'insistenza nel valorizzare gl'interventi provenienti dal basso, dalla società civile e dalla Chiesa. I sistemi di Welfare State variamente realizzati nel corso degli ultimi decenni, anche in relazione a un mutato rapporto dello Stato con la vita economica conoscono in effetti un'evidente difficoltà nel rispondere a esigenze che necessitino di una soluzione diversa da quella che può fornire l'istituzione, con i suoi inevitabili criteri quantitativi e i suoi passaggi burocratici. Se il problema è e in fondo è sempre stato quello di costruire un' "amicizia" nei "luoghi del Welfare moderno", come ha scritto Ardigò, la profezia della carità non può essere tradita, nel solco di quell'attenzione alla persona con cui si accompagna il giudizio dei credenti sulle realizzazioni della modernità in campo sociale. E già Rosmini, ispiratore di molte opere assistenziali del primo Ottocento e fondatore egli stesso di un "Istituto della carità", di fronte alle contraddizioni della realtà post rivoluzionaria individuava nella carità il terreno sì di confronto, ma soprattutto d'incontro con gli uomini del suo tempo: una carità che, partendo dall' "Ultimo", giungesse a incontrare gli ultimi della società.
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di Giacomo Contri La parola "opportunità" ricorre in modo particolare, oltre che nel nostro lessico comune si dice avere, procurare, delle opportunità , anche in pensatori, teorici dell'economia, del diritto e della morale, come tra altri John Rawls negli anni settanta e oltre. Rammento un'altra parola degli economisti, "minimax" : significa operare in generale secondo il fine di minimizzare le proprie perdite, i propri svantaggi, e massimizzare i propri profitti, i propri benefici: dichiaro senza esitare che vorrei che per nessuno la carità coincidesse con una pratica mini massimalista. Oltretutto penso che nella condotta minimax si riesca soltanto a raggiungere il minimo. Il verbo "amare" ha sempre indotto tutti al più grande degli equivoci. Un equivoco specialmente presente, a volte distruttiva mente presente, anche nella psicopatologia e nella psicologia. Noi possiamo, nella nostra condotta, trattare il verbo amare come un verbo immediatamente transitivo: io ti amo, io genitore amo i miei figli. Ma gli errori che conseguono a questa autentica credenza sono ingenti. Se è proprio sincero il movimento ad amare qualcuno, in particolare i figli, specialmente quando sono piccoli, allora dobbiamo avere la modestia di cogliere che l'atto dell'amore non è immediato: è mediato. Se io amo i miei figli, io onoro i miei figli. L'onorare é la mediazione dell'amare i miei figli. Allora li onorerò. Il verbo onorare comporta tutti i significati e le azioni del rispetto, della cura nel senso non anzitutto medico di questa parola: è quel curare che è più vicino all'espressione "curare i fiori", o "curare il proprio aspetto". È cultura: coltivazione, cura. Onorare i figli è riconoscerne effettivamente le esistenze, il pensiero, l'esistenza. Allora, mi sono chiesto se anche per la carità, così come essa può ricorrere in particolare in opere che si autodesignano come "carità", in latino Charitas , se non si tratti di qualche cosa di analogo o di identico: così come per amare i miei figli, sarà in tal caso che io avrò una qualche ragionevole certezza che i miei atti saranno atti dell'amore e non delle mistificazioni che si avvalgono pretestuosamente del lessico italiano, così mi sono chiesto se per la Caritas, in tutti i sensi intesa, non si tratti di qualche cosa di simile, cioè di individuare che si tratta di una mediatezza, così come per l'amore la mediatezza dell'onore. Un altro esempio della mediatezza dell'amore, dicevo un'altra volta: non ditemi "ti amo", ditemi "amo i tuoi piedi", perché chi mi ama, ama il dove vado. Se uno mi ama, ama la mia vocazione. Se ama i miei piedi, amerà me (notevole il gesto della "Maddalena": ha cura per i piedi di Gesù). Mi chiedevo se non si possa trovare qualcosa di simile per quanto riguarda la Caritas. Ebbene, ho trovato questo: e rammento che sto sviluppando il tema "La società ha bisogno dei soci". È perfino un'ovvietà dire che i soci hanno bisogno della società, fino al poter disporre delle tubature dell'acqua in casa, e in moltissime altre funzioni. Io ho rovesciato l'argomento: è la società ad avere bisogno dei soci. Questo rovesciamento porta l'accento sul fatto che l'azione attiva di carità non solo è quell'azione attiva che riguarda i soci, ma quell'azione attiva che riguarda la società stessa. In quelle dottrine cui mi riferivo prima, aventi al loro centro Rawls e altri teorici dell'economia e del diritto (Nozick, Dworkin e altri), si parla di opportunità intendendo che una delle risorse di cui ognuno di noi può disporre é la risorsa consistente appunto nella possibilità di accedere a opportunità non solo economiche, ma a opportunità di informazione, o culturali. A chi di noi appartiene all'esperienza cattolica io ne faccio parte è noto l'esempio del perdono. Ai nostri giorni forse individualmente noi no, ma come atteggiamento intellettuale o culturale noi siamo molto lontani da cos'è il perdono, così come lo intendo, cioè dal perdono cattolico. Molti sono tentati di essere vicini a un'idea del perdono cattolico come un atto di pulizia interiore, la Grazia divina come pioggia interiore, flash interiore, blitz divino, o una sorta di pulizia interiore. È un errore cospicuo, come io lo intendo. Il perdono è un vero e proprio atto pubblico di carità, di carità perché pubblico. Così mi parrebbe doverlo intendere. Il perdono è un atto di assoluzione da un delitto. Colui che è assolto da un delitto, già delinquente, diviene soggetto beneficiario di un atto pubblico per mezzo del quale viene riproposto alla comunità come affidabile. Fino a delinquente, la comunità aveva le migliori ragioni per ritenerlo inaffidabile. E sappiamo che in tutti i comportamenti, al soggetto inaffidabile non ci si affida. In termini più civili, non gli si fanno crediti bancari, e naturalmente, tutti gli altri crediti del mondo. Dunque il perdono, come ogni perdono, è un atto pubblico, non un atto di pulizia interiore. È un atto di riproposizione di un soggetto delinquente, e come tale giudicato dai membri della sua comunità come inaffidabile, che viene riproposto alla comunità stessa da un pubblico ufficiale ufficiante, nel caso particolare il prete, come affidabile, e come doverosamente da riaccogliersi come affidabile (non soltanto nei crediti bancari). Credo che il perdono tale sia: un atto sociale, indipendentemente dall'essere la confessione segreta o privata. Le conseguenze sono indubbiamente sociali: riguardano l'affidabilità al cospetto della comunità di quel soggetto: me stesso per esempio. Allora noi vediamo come veramente lo stesso perdono è l'atto con cui è ricostituita, o data ex novo , una opportunità ad un soggetto. Non è un atto di soddisfazione di sentimenti morali condivisi tra alcune persone, come diceva Adamo Smith. Non è nulla di privato. La tentazione a pensarla diversamente ci viene da quel brutto scherzo luterano che ha trasferito tutto sul conto dell'interiorità. Nel perdono cattolico siamo tutti sul conto della pubblicità, nel senso del linguaggio pubblicistico e del diritto. Si potrebbe sto semplicemente rallentando l'arrivo al termine della mia esposizione passare per un riesame dell'espressione corrente "fare la carità", in uso comunissimo in tutte le lingue. Se solo ci si arresta su di essa, anche solo come espressione io direi che non è una buona espressione. C'è da augurarci che quando facciamo la carità, l'atto corrispondente a questa espressione sia migliore dell'espressione medesima, ossia che vi sia una certa incoerenza dell'atto rispetto all'espressione linguistica, perché l'espressione linguistica non è buona. Non è buona perché la carità non è una regola, non è un principio, non è un consiglio celeste di buona condotta privata. La carità per noi è un fatto reale: è Dio stesso, la persona stessa di Dio. Non possiamo dire "fare la carità", sarebbe come dire "fare Dio", e non è quello che ci è consigliato da Dio. Vorrei ora correre al termine sul dire che è la società che ha bisogno dei soci, e qual è l'opportunità: la carità come procacciamento di opportunità, così come io la intendo. Fare la carità è fare che i soci amino la società, in modo che poi la società ne aiuti l'esistenza a ogni livello, anche, ovviamente, materiale. Il circuito mi pare questo. Ma è molto difficile pensare che un soggetto possa amare la sua società. Lo dico meglio, perché esprimendomi in questi termini mi esprimo in termini riduttivamente psicologici. Mi pare di dover ridire le stesse cose alla larga, e cioè così: noi siamo a un punto della storia moderna sarebbe meglio dire post moderna, o tardo moderna, e post cristiana in cui sembra riproporsi il grande, forse unico problema politico degli inizi della modernità. Il grande problema politico degli inizi della modernità, non era soltanto il problema del come è possibile la società, ma il problema del se è possibile la società. Il dubbio degli inizi della storia delle dottrine politiche moderne. Il dubbio è insito e strutturante la genesi del pensiero politico moderno. Malgrado i toni di trionfalismo politico è sufficiente pensare al più trionfalistico dei titoli della storia delle dottrine politiche: il Leviatano , malgrado questi toni e le loro forme esterne, le grandi monarchie ecc., la modernità è iniziata con il dubbio sulla fragilità della società. E fragilità della società significa anche il non soccorso ai singoli, e l'impossibilità della loro vita, la morte, la malattia, la fame, almeno. Sappiamo come fosse minacciosamente presente questo dubbio in Hobbes, che era un uomo sincero: lui parlava del Behemot, che significa la guerra civile sempre compresente con il problema della possibilità del costituirsi della società. L'insistere sulla presenza della guerra civile nella società umana a mio avviso è più che ascoltabile. Penso non sia un caso di tutto ciò ha scritto ben altri e ben più sapiente di me in queste cose che le società moderne sono cominciate come poliziesche e penalistiche, e non solo in Prussia. Del resto la dottrina luterana stessa delle società era rigorosamente e formalmente poliziesca e penalistica. E lo sono state a lungo, fino a ieri: nel mio personale pensiero, penso lo siano ancora malgrado certe apparenze. Fragilità, perché c'è un quesito misterioso, che attraversa tutta la storia della società moderna, e non anteriormente, credo, o non così ingentemente. Ossia: perché mai i soci dovrebbero starci alla loro società? Il quesito è restato misterioso malgrado tutte le risposte razionalizzanti, dalla "mano invisibile" al contratto sociale, alla teoria e alla produzione di tecniche occulte o trasparenti, al neocontrattualismo stesso di Rawls. Perché mai i soci dovrebbero starci alla società, essendo da chiunque giudicato insufficiente che questo starci dipenda da una riflessione personale sulla necessità della propria sopravvivenza, sopravvivenza che sarebbe debitrice alla società e alla sua esistenza? Vorrei rispondere, per terminare in ogni caso la mia risposta è questa che oserei dire che c'è una risposta cattolica data per tutti: cioè che, come in tutta la storia solo il cattolicesimo ha veramente fatto, malgrado il neogiusnaturalismo moderno, è il cattolicesimo ad avere sempre insistito che il socio, il socius, ha esistenza di socio prima della società. Qual è questa società che è prima della nostra società? Si tratta anche di sapere se esiste prima, solo perché lo crediamo come atto di fede, o solo perché osserviamo che siamo la società delle creature salvate da Dio: ma il fideismo non è il mio pane. No, non è solo per fede, sostenuta dall'osservazione empirica, che sostengo che ognuno è già socio di un'altra società, un'altra reale società nel senso in cui S. Agostino parlava di due città. Ognuno è già socio di un'altra città. Sto solo seguendo un filo sobrio, povero, di pensiero. Ma il pensiero stesso che il socio è precedente la nostra società, che non è costituito tale dalla nostra società, che la precede a pieno titolo, ossia che appartiene già a un'altra società, ha delle conseguenze cospicue. Altri potrebbe pensare che il pensarla così è addirittura delirante (non seguo questa obiezione ma è interessante). Una delle conseguenze dell'essere socio precedente la nostra società, è che la pace della nostra società la possibilità stessa della sua esistenza, che coincide con il concetto di pace , la fonte della pace della nostra società, è il socio, in quanto già socio prima della nostra società. È di un'altra fonte la pace sociale che viviamo quando c'è. La nostra società è incompetente, inetta in ordine al produrre la propria pace. Penso a quanto in Italia da circa quindici anni la parola "governabilità" è diventata la parola più frequentata in tutti i discorsi politici. Potremmo fare delle liste per vedere quali sono le parole più frequentate. In pole position c'è sicuramente la parola governabilità. Mi verrebbe da dirlo un po' a battuta: che il consenso, ossia la pace, ossia l'adesione anche fattiva e feconda del socius alla propria società, é veramente un fenomeno dell'altro mondo. Ogni giorno che passa me ne persuado empirica mente. Ma allora ecco il mio terminare, in questo mio esporre con tante lacune, ma c'è un filo preciso , mi sembra di dover terminare con una frase che è priva di ogni paradossalità. Così come ho detto prima che per amare i miei figli devo passare per onorarli, il rischio essendo altrimenti di illudermi sulla parola amore, allora, per quanto riguarda il compito della Caritas indubbiamente la Caritas cristiana, e all'interno di essa ciò che è la Caritas in cui voi avete il merito di operare , il compito allora non è fare la carità. Il compito della Caritas è fare la società, facendone due. L'agostinismo delle due città, reali ambedue, nel mio pensiero è ormai dominante e razionalmente persuaso. Direi quasi, più asciuttamente, che è persino una semplice questione aritmetica, di aritmetica sociale, che sto chiamando agostiniana solo perché Agostino per primo ha così potentemente esplicitato questo modo di pensare. L'aritmetica politica agostiniana è il numero due, due città: l'amicizia per l'una ha come fonte l'amore per un'altra. Nessuna società è in grado di autoprodurre il consenso a se stessa. E nessun individuo è in grado di autoprodurre il proprio consenso alla propria società. Inettitudine di società e individuo in questa autoproduzione. Ma allora, attraverso questa altra genesi della pace e del consenso, veramente pace e veramente consenso fino alla lealtà nelle sue forme più ordinarie. Io penso ecco perché sono partito dall'opportunità che la carità si esprime anzitutto, non facendo la carità, ma facendo opportunità, in tutti i sensi e con tutti i possibili contenuti, ivi compreso procurare il lavoro. Procurare opportunità agli uomini è procurare loro l'opportunità di essere leali soci della propria società, procurando ad essi almeno l'intuizione di un'altra società, di cui peraltro io, Lei e Lei seduti in questa stanza di fronte a me, siamo, io penso, appartenenti. Giacomo B. Contri, medico e psicoanalista. Si è
formato alla psicoanalisi di Freud con J. Lacan. Attualmente dirige l'Istituto
di lavoro psicoanalitico e l'iniziativa editoriale Sic. TAVOLA ROTONDA Tavola rotonda con la partecipazione di: Mons. Juraj
Petrovic Caritas Rijeka (Croazia), J. Luc Roby Noris, direttore di Caritas Ticino Questa tavola rotonda, che accoglie amici venuti un po' da tutta Europa, è una ulteriore sfida di questa giornata e di quello che sta dietro. La questione che abbiamo posto ai nostri relatori, ai nostri amici, è una questione di metodo d'intervento. L'abbiamo posta a degli specialisti di Caritas, credendo però che essa non interessi solo Caritas ma tutti. La domanda che abbiamo fatto è questa: qual è, in una società occidentale come la nostra, il ruolo dei cattolici di fronte alle sfide della povertà? Abbiamo formulato questa domanda perché nel corso degli ultimi decenni si sono sviluppati diversi modelli d'intervento all'interno delle varie diocesi europee, all'interno delle diverse Caritas; modelli estremamente interessanti per uno sguardo che va verso il futuro. Credo che i nostri ospiti di oggi rappresentino linee e tendenze che in Svizzera sono presenti nella nostra Caritas Ticino sono effettivamente presenti perlomeno a titolo di preoccupazione , anche se poi nella loro traduzione pratica non hanno raggiunto le realizzazioni che si sono potute avere in altri paesi. In Germania, la Caritas è un datore di lavoro imponente, quindi rappresenta un fatto sociale; in Italia vi è un grosso movimento di volontariato con poche strutture ma che sostiene l'importante lavoro della Caritas e della Chiesa nel sociale; in Francia la Caritas ha invece optato per l'animazione. Tra i nostri ospiti abbiamo invitato una Caritas, che ha ben altri grattacapi che non quelli metodologici, alla quale abbiamo voluto porre la stessa domanda in termini di metodo, ed è la Caritas che in Croazia da un anno è confrontata con la guerra e con l'accoglienza di migliaia di profughi. Questa Caritas è confrontata con una situazione di emergenza di cui noi non riusciamo forse a cogliere tutta la portata. Abbiamo voluto invitare questa Caritas di amici, perché sono ormai dieci anni che tra noi c'è un rapporto di amicizia. La domanda che le rivolgiamo è questa: come è possibile rispondere ad un interrogativo di metodo, ad una domanda sul ruolo dei cattolici, quando si è confrontati con una realtà di emergenza e di dramma quotidiano?
Il tema della tavola rotonda è il seguente: "I cattolici e la carità: ruolo e modelli d'intervento". Un'osservazione soltanto sui lavori sino a questo punto. Il ruolo della carità abbiamo detto è quello di uno spazio per così dire insostituibile. Uno spazio non delegabile ad altri che non siano coloro i quali aiutano e sono aiutati. La carità non è più solo dare un ricovero, un riparo all'infanzia abbandonata, al vecchio solo, al malato, ma è qualcosa di più, ovvero una sinergia fra chi aiuta e chi è aiutato. Dunque la carità è una relazione sociale fra chi aiuta e chi è aiutato; una relazione sociale non occasionale, che crea un bene comune fra chi è aiutato e chi aiuta. Essa rappresenta quindi un contesto di vita che ha un carattere comunitario, che va al di là della sopravvivenza, della necessità di dare qualcosa per la sopravvivenza, perché mette in gioco la libertà della persona; essa mette in gioco lo sviluppo delle persone, non solo di chi è aiutato ma anche di chi aiuta. Sentiamo quindi le esperienze che ci pervengono da tanti luoghi dell'Europa, con l'interesse per la comprensione di ciò che ci può arricchire vicendevolmente. Infatti, l'esperienza in un paese può essere trasferita in qualche modo ad altre aree con la consapevolezza che la solidarietà è creatrice di pace: opus solidaritatis pax (la pace è frutto della solidarietà).
Gentili Signore, Egregi Signori, Permettetemi di esprimere un cordiale grazie, anche a nome di tutti gli operatori, cooperatori e volontari della Caritas dell'Arcidiocesi di Rijeka Senj, particolarmente a nome del prof. Veselko Akmadza, membro della nostra Caritas, e coordinatore per la Caritas Rijeka dei contatti con Caritas Ticino. A nome del nostro Arcivescovo, S.E. Mons. Dott. Anton TAMARUT, porgo i rispettosi saluti a Voi qui presenti, al Vostro Vescovo, S.E. Mons. Eugenio Corecco, alla Vostra Caritas. Da quando il direttore di Caritas Ticino, signor Roby Noris, e la signora Vera Podpecan sono venuti lo scorso anno per prendere contatto diretto con il nostro Arcivescovo e con la Caritas di Rijeka, si è sviluppata un'attiva cooperazione che ha portato aiuti sia ai diseredati della nostra popolazione che ai musulmani in Bosnia ed Erzegovina, e a tutti quelli bisognosi d'aiuto. Desidero esprimervi pure gli auguri per questa ricorrenza da parte del nostro Arcivescovo emerito, S.E. Mons. Josip Pavlisic, il quale presta volentieri il suo operato nella nostra Caritas a Rijeka. Ci è motivo di consolazione e di gioia il fatto che gran parte degli aiuti provenienti dalla Svizzera vengono spediti tramite la Caritas Ticino. Noi Croati ringraziamo Dio di essere cristiani cattolici credenti. Preghiamo che tutti possano conoscere meglio Gesù Cristo e che possano seguirlo. Chi non vive nella fede, può cadere nel crimine ed eseguire atti inumani. Bisogna precisare che la guerra non si combatte in Serbia ma in Croazia e Bosnia Erzegovina. Nessuna casa, nessun villaggio, nessuna città della Serbia è stata distrutta. Nella guerra che ci è stata imposta, sono entrati in conflitto l'odio e l'amore. L'odio si concentra nell'uccidere, distruggere, annientare, umiliare. La settimana scorsa a Zagabria si è tenuto un convegno della Caritas, e un rappresentante estero ci ha chiesto perché non parliamo delle necessità dei Serbi. Abbiamo risposto che l'aiuto viene dato anche a loro e che la Caritas e la Chiesa non fanno alcuna distinzione in casi di necessità. Quasi cinque milioni di Croati e abitanti in Croazia numero imprecisato di cittadini che provengono dalla Bosnia ed Erzegovina, compresi profughi e esuli potrebbero raccontare la propria storia, della sofferenza e del dolore provocato da questa guerra. Se il mondo non farà nulla, a queste sofferenze si aggiungerà la distruzione del Kosovo. L'esercito Serbo ha provocato la guerra sul territorio della Slovenia, della Croazia, della Bosnia e dell'Erzegovina e adesso nel Kosovo. A chi attribuire la colpa di tutto ciò ? Non è una domanda da porre a noi, in quanto noi non facciamo altro che difendere le nostre case, le nostre terre e le nostre frontiere. L'introduzione che avevo preparato si dilungherebbe molto, e penso che questa non sia la sede né il momento per parlare della sofferenza del popolo croato. Per chi lo desidera ho preparato un documento che volentieri distribuisco. Prima della guerra, il regime comunista non ha permesso alla Chiesa e di conseguenza alla Caritas di essere al servizio del prossimo, come era nostro desiderio e secondo il bisogno delle persone. È vero che in alcuni settori ci hanno lasciato lavorare, ma semplicemente perché gli tornava utile. La Caritas si occupava oltre che dei bisogni sociali, anche dei bambini abbandonati, degli andicappati e delle persone anziane. In effetti, a Zagabria vi sono diverse case che ospitano proprio queste persone. Durante il regime comunista queste case si mantenevano solo con l'aiuto delle Caritas estere. Dalla costituzione della Croazia indipendente abbiamo dovuto prima di tutto concentrarci sull'aiuto umanitario. Una Caritas giovane la nostra, che dall'inizio della guerra ha dovuto affrontare problemi molto grandi e fino allora inimmaginabili. Una Caritas che prima della guerra era una presenza silenziosa; non ci era permesso di alzare la testa, di gridare il perché della nostra presenza, pena interventi da parte del regime comunista. Prima della guerra ci occupavamo essenzialmente di problemi sociali legati a categorie di persone, ed eravamo presenti a Zagabria, Osijek Rijeka e Split. La nostra Caritas poteva contare sulla collaborazione di poche persone e di diversi volontari. La guerra, scoppiata all'improvviso, ha cambiato in modo radicale, inimmaginabile, il nostro lavoro. Da un giorno all'altro ci siamo trovati a dover affrontare i problemi dei profughi. Così abbiamo affrontato questo fenomeno in questi anni: 1. Organizzazione di luoghi di raccolta (palestre, dormitori). 2. Collocazione dei profughi in alberghi, presso famiglie e altrove. 3. Procurare cibo, vestiti, e tutto quanto necessario per la sopravvivenza. Una situazione di emergenza simile che dura alcuni mesi la si può affrontare e con un'organizzazione efficiente. Il tempo però trascorre senza che la situazione migliori. Grazie ai volontari, che si sono messi al nostro fianco, grazie al grande aiuto venuto dall'estero, anche la nostra piccola Caritas ha potuto giocare un ruolo attivo. Grazie anche a voi, che dal Ticino ci avete mandato viveri, vestiti, letti, medicamenti e altro. Questa prima fase, che possiamo chiamare di emergenza, è terminata o sta terminando? Non so rispondere perché molta gente si trova ancora nei campi di raccolta, molti profughi non sanno dove andare; il nostro lavoro, la nostra giornata consiste nel correre continuamente da un posto all'altro per organizzare, garantire la distribuzione del cibo, dei vestiti, dei medicamenti. Comunque, da questa prima fase di intervento d'emergenza possiamo giungere alle seguenti considerazioni: 1. La necessità di coordinare le diverse azioni e i diversi interventi, soprattutto tra le Caritas croate, italiane, svizzere e di altri paesi. 2. È indiscutibile il valore della solidarietà
delle altre Caritas, che in un momento così difficile diventa ricchezza,
sostegno morale. Se non avessi potuto disporre di diversi collaboratori, di tutti questi volontari, la Caritas non avrebbe potuto fare nulla. Molti sono gli aiuti ricevuti in Croazia da parte delle Caritas, si parla di un valore di circa 100 milioni di dollari. Non so se la cifra è giusta, comunque so che la Chiesa, attraverso le sue Caritas, si è mossa, ed è stata attenta ai problemi di questo popolo così duramente ferito. Ma ora dobbiamo guardare al futuro. Questa frase sta nel titolo del nostro convegno. Dico nostro, perché la Caritas non ha confini, la Caritas è l'espressione della Chiesa e la Chiesa è universale. Quale futuro per il popolo croato, che è stato cacciato dalle proprie terre e non sa quando potrà tornare? Quale lavoro ci aspetta come Caritas? 1. I profughi vivono una ferita profonda, sono stanchi, demoralizzati perché si fa poco o nulla per risolvere il problema del loro rientro. Il nostro lavoro consiste nello stare con loro, per non farli sentire abbandonati. 2. Giovani: la nostra è una responsabilità grande nei loro confronti. I giovani devono poter sperare in un futuro migliore. Dobbiamo pensare alla formazione scolastica delle giovani generazioni: in questi anni diversi di loro hanno dovuto rinunciare a frequentare le scuole, gli apprendistati. Ricostruire la Croazia vuol dire innanzitutto permettere ai giovani di avere il loro posto in questo pezzo di terra e quindi la formazione diventa una priorità nei programmi di sviluppo che la Caritas intende promuovere e soprattutto aiutare chi li desidera organizzare. 3. Un'attenzione particolare deve essere dedicata alle famiglie oggi per necessità non unite, divise (gli uomini sono al fronte). I bambini che hanno vissuto traumi difficilmente descrivibili; hanno il diritto di sperare in un futuro migliore; qui purtroppo devo ancora una volta tornare sulla questione politica, perché il futuro di tutta la nostra gente e dei nostri bambini dipende prima di tutto dall'Europa. 4. I croati sono conosciuti come grandi lavoratori e persone molto orgogliose, e perciò con difficoltà accettano aiuti senza volersi impegnare in prima persona. Il desiderio della Caritas è di organizzare campi di lavoro per la ricostruzione dell'industria. Da soli non possiamo farcela, abbiamo bisogno di investimenti dall'estero; in questo modo si creerebbero posti di lavoro, aiutando lo sviluppo e nello stesso tempo le persone. Sulle nuove situazioni che si sono venute a creare in questi due anni di guerra, potrei parlare ancora per ore, ma spero di essere stato abbastanza chiaro e desidererei concludere dicendo: la Chiesa, le Caritas hanno un ruolo importante in questo momento. La sfida è grande. Dobbiamo lavorare nel modo giusto per ricostruire la nostra comunità; lo possiamo se insieme poniamo la nostra speranza nel Signore. Vi prego di non dimenticare che la Croazia ha bisogno di voi. Grazie.
Ringrazio a nome di tutti monsignor Petrovic per questa testimonianza così profonda, così umana e divina nello stesso tempo, la quale ci ha fatto toccare con mano l'universalità della carità, dello spirito della Caritas nei confronti, in particolare, di una chiesa che ha sofferto. Credo che con questa testimonianza egli dimostri che la carità è capace di sopravvivere alle grandissime sofferenze e non solo di sopravvivere, ma di essere rigenerata, di diventare anche il motore di una ricostruzione così onerosa e difficile. Carità che per la Croazia significa essere piena di promesse. Facciamo i nostri auguri e preghiamo per la pace tra i popoli della ex Jugoslavia. Credo che tutti i paesi europei, e in primo luogo il Ticino, saranno molto vicini alla Croazia nei prossimi anni. Cedo subito la parola al segretario generale della Caritas Europa. J.Luc Trouillard, Caritas Europe Mes chers amis, Permettez moi de m'exprimer en français. Je voudrais vous présenter très rapidement ce qu'est actuellement la structure qu'on appelle Caritas Europe et par la suite vous présenter quels sont les défis principaux qu'elle doit relever au niveau européen. Quand je parle de l'Europe, à partir de maintenant cela voudra dire la Grande Europe, de l'Irlande à minimum Budapest et pratiquement jusqu'à Moscou; certains même n'hésitent pas à vouloir mettre Novosibirsk et le reste dans l'Europe. Donc à partir de ce moment, quand je dirai Caritas Europe, cela voudra dire ce nouvel ensemble qui vient de se reconstituer. Il faut savoir, mais vous le savez déjà, que Caritas Internationalis, qui est notre confédération à tous, se compose d'environ cent trente membres, chaque membre étant une Caritas nationale d'un Pays, par Etat, je veux dire. A l'intérieur de cette famille Caritas Internationalis, il y a six régions. La région Europe est une de ces six, les autres étant l'Afrique, l'Amérique du Nord, Moyen Orient , l'Asie, l'Amérique Latine etc. En 1975, cette région a élu son premier président et a ouvert un secrétériat permanent en l989, quelques mois avant la chute du mur de Berlin. Cette décision, plus la chute du mur, a accéléré le processus et nous sommes arrivés à la création, effective physique, d'un secrétariat général des Caritas d'Europe il y a environ douze, treize mois. Je suis le premier titulaire de ce nouveau poste. Avant j'ai travaillé pendant dix ans au Secours Catholique de Caritas France. Voilà, donc le décors. Maintenant, comme je le disais, je voudrais essayer de vous expliquer, en quoi consiste le travail de la famille Caritas, ce qui n'est pas très facile parce que nous ne faisons pas d'actions très concrètes. Que faut il faire? Qu'est ce que nous croyons qu'il faut qu'elle fasse? Premièrement, et je ne m'étenderai pas là dessus, il y a des tâches de travail, j'allais dire matérielle, qui sont les travaux d'entretien de la famille: on organise l'assemblée, des groupes de travail, on suit la marche ordinaire de la vie familiale. Je passe là dessus. Il y a aussi quelques tâches matérielles du style financements d'urgence. Vous savez que la communauté européenne est installée à Bruxelles. Son secrétariat est composé de quatre personnes, j'oubliais de vous le dire. Vous voyez que c'est un petit secrétariat. On essaie de faciliter l'accès de chaque Caritas au financement européen décidé pour les situtations d'urgence. Par exemple : la guerre dans l'ex Yougoslavie a donné lieu à des décisions politiques, à Bruxelles. Une de ces décisions étant l'attribution de budjets, de finances. Il fallait quand même que les Caritas nationales puissent avoir accès à ces finances, vu qu'elles étaient prêtes à aider la Croatie, par exemple. Je passe également là dessus, ce n'est pas très difficile à comprendre. J'en viens, si vous le voulez, au troisième point qui me paraît être le thème de votre session d'aujourd'hui. Nous avons la chance en Europe d'avoir ce que l'on appelle la Communauté Européenne (certains ne la conside’rent pas une chance), ce qui n'existe pas dans les autres régions du monde. La Communauté européenne, n'est pas comme l'ONU ou l'Organisation d'Unité Africaine ou bien l'ASEAN ou autres. La Communauté européenne prend des décisions. Si on ne lui dit rien et si on ne cherche pas à l'influencer, la Communauté continue à produire et influence la façon dont nos sociétés évoluent. Ceci est unique dans le monde et nous force, nous invite en tout cas, à chercher à donner une réponse. Dans les autres régions il n'y a pas de telles institutions, ce qui fait qu'on peut se contenter, y compris au niveau de Caritas, de faire des réunions où on échange des expériences, où chacun explique à l'autre comment il fonctionne, quels sont ses critères d'action, quels sont ses résultats, comment il évalue des programmes qui ont déjà été exécutés. Au niveau de l'Europe ce n'est plus suffisant! Au niveau de l'Europe, l'Eglise catholique, et le professeur Donati nous l'a rappelé ce matin, ce n'est pas tout d'avoir une intuition, d'avoir un sentiment, d'avoir la conscience d'une mission d'Eglise, encore faut il trouver les moyens, les idées qui la rendent acceptable au niveau des politiciens qui prennent des décisions. Comment organiser cette réponse de l'Eglise? Non pas de l'Eglise en général, mais comment organiser la réponse de Caritas? Caritas a t elle quelque chose à dire ? Oui ou non au niveau de cette Europe qui est entrain de se former et qui de toute façon, que l'on fasse quelque chose ou non, que l'on dise quelque chose ou non, continuera à former notre espace social. Problème difficile que même l'Eglise, la hiérarchie de l'Eglise n'a pas tout à fait résolu jusqu'à maintenant. L'Eglise catholique, le Vatican, la Conférence des évêques en Europe a un secrétariat, qui d'ailleurs se trouve à Saint Gall. Il y a bien une "antenne" supplémentaire, la commission des conférences épiscopales européennes qui se tient à Bruxelles, mais l'attitude générale actuelle de l'Eglise est d'essayer de comprendre ce qui se passe au niveau européen, sans avoir la prétention d'agir. Nous avons donc beaucoup de documentation, beaucoup de gens ont fait des études extrêmement approfondies, intelligentes, claires et tout ce que vous voudrez sur le fonctionnement de l'Europe, mais l'Eglise n'a pas encore passé sérieusement au stade "action". Comment agir sur le processus de décisions? Au sein de l'Eglise, si Caritas n'essaie pas d'attaquer au moins cette affaire, qui va le faire ? En tout cas, au niveau de l'action dite sociale, Caritas est la plus grosse association dans le domaine socio caritatif, non seulement dans l'Eglise, mais même dans la société civile. Vous me direz pourquoi doit on agir en Europe? On pourrait ne pas le faire, car après tout l'Europe ne sera même pas à la Communauté européenne. En fait, il est difficile de refuser ou de tenter d'ignorer cette extraordinaire source de dynamisme que représente la Communauté européenne, pas seulement pour les douze actuels, mais pour l'ensemble de l'Europe. On ne va pas s'étendre là dessus, mais disons que ce sentiment d'une communauté de destins, c'est quand même la base de ce qui existe actuellement, de ce qui se fait actuellement en Europe. Les pays de l'Est ne s'y trompent pas! Nous sommes dans une période de très grande instabilité politique. Les combats, la situation dramatique de la Yougoslavie peuvent très bien se reproduirent demain n'importe où, dans l'Europe de l'Est ou presque. A commencer par le Kosovo bien sûr, et en continuant par le Caucase et le reste. Qu'il y ait un pôle de stabilité en Europe, tout le monde le souhaite et tout le monde souhaite qu'il se développe. La réponse de Caritas. Comment se prend une décision au niveau de Bruxelles? Elle n'est pas prise par un groupe de fonctionnaires irresponsables, quelque part dans leur bureau à Bruxelles. Les décisions concernant l'Europe sont prises par des ministres. Toutes les décisions sont prises par le Conseil des Ministres et uniquement par lui. Actuellement, le parlement n'a même pas, encore , vraiment de pouvoir de décisions. Comment est composé ce conseil? Il est composé de ministres des pays membres de la Communauté. Ce qui veut dire que ces ministres ne sont pas des gens qui vivent en dehors de leur pays. Ce sont des ministres et des hommes politiques qui ne prennent des décisions que lorsqu'ils sentent que l'opinion publique les pousse à le faire. Ce ne sont pas des penseurs, ils n'ont pas le temps de penser, ce sont des hommes politiques et leur premier souci c'est d'être réélu d'une façon générale, c'est leur priorité première. Prenons l'exemple d' une question bien déterminée et délicate comme celle de la protection des droits d'asile en Europe. Je prends donc cet exemple vu que Caritas y a travaillé dessus pour le développer un petit peu. Un groupe de travail de Caritas travaillait donc depuis huit ans sur les questions de migration. Sans aide de l'extérieur, c'est à dire en restant au stade décrit, soit seulement avec un échange d'expériences. Très intéressant, mais qui ne produit rien vu de l'extérieur. Nous avons décidé de lui faire produire quelque chose. Le groupe a donc émis une déclaration qui n'était pas un sermon, qui n'était pas une encyclique, ceci il y a des tas de gens qui le font. Ce que nous désirions c'était de trouver, un sujet concret qui intéresse toute l'Europe , de la Norvège à la Grèce, de l'Irlande à Moscou et qui ne va pas s'arrêter mais un problème qui va augmenter. Trouver une position qui ne soit pas simplement une position du genre "soyez gentils avec les émigrés", même si vous dites ça sur deux pages, cela ne sert absolument à rien! Un homme politique qui dit ça, il vous dit oui, oui et il classe. Il faut lui faire des propositions concrètes qui soient politiquement intégrables dans un débat, dans un parlement européen ou national. Il faut donc aller assez loin dans le détail et dans la définition des propositions, ce qui a été fait. On peut donc dire que ça marche, c'est à dire qu'à partir du moment où vous avez une position commune des Caritas d'Europe sur un sujet concret qui intéresse tout le monde, à ce moment là vous pouvez demander à toutes les Caritas de défendre cette même position, à peu près au même moment, auprès de leurs propres hommes politiques. Ceci fini, difficile à mesurer, va dans le sens d'une influence sur les prises de position au sommet, au sommet européen. Je voulais un petit peu m'étendre, de’s l'introduction de Caritas Europe sur ce travail encore à faire qui est une nouvelle dimension de l'Europe et qu'il faudrait pouvoir développer dans tous les domaines. La grande difficulté que nous rencontrons dans ce travail, c'est évidemment la très grande diversité des Caritas en Europe. Qu'est ce qu'il y a de commun entre la Caritas Allemagne qui a 350.000 salariés et la Caritas Finlande qui n'en a même pas un! Entre la Caritas grecque, avec une poignée de salariés dans un environnement hostile d'orthodoxes, religion d'état qui voit toute activité catholique comme un prosélytisme caché, et Caritas Italie qui se meut dans un milieu naturellement catholique. La différence entre une jeune Caritas de l'Est qui se voit confrontée à des problèmes sociaux énormes avec un Etat qui n'a pas d'argent, une communauté de croyants qui n'existe plus, qui n'a plus d'argent, ou la Caritas du Tessin qui a des problèmes parce que tout est parfait sur le plan matériel au niveau du canton. Il y a au moins une question commune qui se pose, que ce soit à l'Est ou ici chez vous au Tessin, et c'est bien la même question : pourquoi Caritas? Avec des points de vue complètement opposés. On parlera par la suite, pendant la discussion, de cette fameuse diversité de Caritas puisque c'était là dessus que Roby Noris nous avait demandé de parler. Voici le cadre, voici certains axes d'actions possibles, le reste à plus tard.
Grazie per questo intervento. Innanzitutto mi ha colpito quest'aria di familiarità che ha dato al suo intervento, nel senso di aver coniato questa dizione della famiglia europea della Caritas. Grazie per essersi riferito a questa nozione di Europa che va dall'Atlantico agli Urali, perché questa è la concezione dell'Europa del Magistero della Chiesa. Papa Giovanni Paolo II, infatti, parla di un'Europa a due polmoni: l'Europa Occidentale e l'Europa Orientale; di Europa quale nazione culturale di matrice cristiana che va dall'Atlantico agli Urali. Questa è una cosa importante, perché spesso per Europa s'intende solo la Comunità Europea e quindi solo un'aggregazione d'interessi, di mercati, mentre la nozione di Europa cui la Caritas fa riferimento è una nozione culturale molto più ampia di una aggregazione d'interessi nazionali. Avremmo probabilmente voluto sentire di più su queste due importanti funzioni della Caritas europea sia dal punto di vista di rappresentanza, vale a dire sul ruolo della Caritas Europa di fronte alle scelte, alle strategie dei soggetti sovranazionali europei come la Comunità Europea, e sia in termini di accordo, di cooperazione fra le Caritas nazionali. Ad esempio, cosa c'è di comune fra le Caritas di Germania, Francia, Grecia? Certamente ci sono delle diversità ma forse esistono idee, progetti in termini di scambi d'esperienze, di azioni, magari di coordinamento, oppure altre iniziative che in futuro potrebbero essere prese in considerazione per rendere ancora di più sinergica l'azione delle varie Caritas nazionali. La parola adesso alla Francia, rappresentata dalla responsabile del Secour catholique. Marie Alice Sergé, Secours Catholique Monsieur Trouillard a parlé de famille, aujourd'hui je suis heureuse de représenter le Secours Catholique au 50ème de la Caritas Lugano, de la représenter en tant que petite soeur Secours Catholique qui est en fait une petite soeur de la Caritas Lugano parce que nous n'avons pas encore 50 ans, nous les aurons, je crois en l996. Me voici donc comme petite soeur de la Caritas Lugano. Au Secours Catholique, je suis responsable, au niveau national (dans tous les coins de France), du service "Femmes Famille" qui s'occupe de la vie quotidienne des femmes et des familles et de la coordination des actions qui se mènent sur ce thème lá dans tous les coins de la France. Brièvement, pour présenter le Secours Catholique Caritas France, d'abord quelques chiffres. Je vais m'appuyer sur ceux qui datent de l'année l991, mais qui ne changent pas beaucoup d'année en année. Au Secours Catholique, nous avons rencontré en l991, dans toutes les permanences qui sont dans tous les lieux d'accueil en France plus de 635'000 de situations de pauvreté, représentées par des hommes, des femmes et aussi des enfants. Un chiffre qui nous paraît important. Nous avons un réseau actif de 70'000 bénévoles qui sont implantés partout et je dirais que s'ils n'existaient pas, je ne serais pas là et il n'y aurait pas de Caritas France. Je peux aussi dire le nombre de donateurs, parce que le Secours Catholique vit pratiquement essentiellement de dons, il y a donc plus d'un million de donateurs qui nous permet de vivre et d'aider. Parlons aussi des salariés, dont je fais partie, nous sommes environ 750 dans toute la France. Comment sommes nous organisés? Il y a l06 délégations diocésaines. Le Secours Catholique est représenté dans chaque diocèse de France. Ces délégations diocésaines sont reliées à un siège national, où je travaille; ce siège coordonne tout ce qui se passe sur le terrain et donne des orientations qui définissent parfois aussi quelques programmes et qui surtout visent à l'unité, à la cohérence et au dynamisme du Secours Catholique dans tous les coins de France. Il ne faut pas oublier l'intermédiaire entre les délégations diocésaines et le siège national, je nomme les régions. Nous avons neuf régions Secours Catholique dont celle du département d'Outre Mer, puisque nous avons encore en France des départements situés presque aux quatre coins du monde. Ces régions représentent des paliers, des intermédiaires qui sont en ce moment en train de devenir plus forts. Voilà globalement quelques chiffres pour permettre de situer plus facilement vu que nous n'avons pas beaucoup de temps. Tous partenaire au Secours Catholique, bien sûr de manière différente, je nommerais en premier les personnes en difficulté, puis les bénévoles, bien sûr, je l'ai dit, sans lesquels nous n'existerions pas, les donateurs aussi, les salariés, les permanents, tous sont partenaires de manière différente et nous sommes en collaboration avec d'autres, parce que le Secours Catholique n'a pas à tout faire et que nous ne savons pas tout faire. Je reviendrai là dessus, plus en avant, j'évoquerai aussi de manière très brève, au sein du Secours Catholique les relations existant entre les permanents salariés et les bénévoles et j'aimerais évoquer aussi ces personnes en difficulté qui deviennent bénévoles. Personnes que nous rencontrons dans nos permanences d'accueil et qui petit àpetit demandent à devenir bénévoles. Le Secours Catholique est un généraliste, le Secours Catholique est un touche à tout, tout public, du sans domicile fixe à la famille sur endettée, de l'enfant qui a des difficultés scolaires, à la mère isolée, de l'agriculteur, au jeune qui habite dans la banlieue, d'une femme magrébine à la personne âgée, nous rencontrons toutes ces personnes au Secours Catholique. Le but premier du Secours Catholique, qui est inscrit dans les statuts, c'est de rayonner la charité chrétienne selon ce que nous avons parlé ce matin, et de remettre ces personnes en difficulté, que nous rencontrons, de les remettre debout avec elles en partant d'elles, de ce qu'elles sont, de leurs désirs aussi et je crois que nous avons à faire une attention très particulière avec les personnes que nous rencontrons qui ont des difficultés. Une attention très particulière à rechercher non pas, car on voit toujours les personnes en difficulté, on voit toujours leurs difficultés, ce qui ne va pas, ce qui est négatif, essayons de voir aussi, à travers elles, dans elles, ce qui est positif, leurs capacités, leurs désirs parce que c'est à partir de cela, je crois, que nous pourrons construire ensemble, qu'elles pourront elles mêmes trouver en elles leur force pour redevenir debout. Notre méthode d'action est en fait très simple. La première, je crois (quand je dis nous c'est à la fois les bénévoles, c'est tous les partenaires que j'ai évoqués tout àl'heure), c'est le temps de la rencontre. Accueillir, prendre le temps d'accueillir, le temps de se rencontrer. Je crois que c'est capital et on ne peut rien faire si nous ne nous sommes pas rencontrés, s'il n'y a pas eu d'échange entre personnes en difficultés et personnes qui est peut être dans d'autres difficultés. Le temps de la rencontre, le temps de l'accueil. Le deuxième point c'est essayer de comprendre la situation dans laquelle se trouve la personne qui vient nous voir, essayer d'analyser les causes de cette situation. Le troisième point, la collaboration avec les différents organismes parce que, comme je le disais tout à l'heure, tout seul on ne peut rien faire. Le quatrième point c'est à la fois d'éveiller. Nous avons un rôle d'éveilleur, nous devons alerter l'opinion publique d'une part, alerter les pouvoirs publics d'autre part sur les situations auxquelles nous sommes parfois confrontés. Agir sur les institutions. En fin, le dernier point, c'est témoigner, c'est poser des actes, poser des signes. Je prendrai un petit exemple: Monsieur Donati parlait ce matin des enfants accueillis dans des familles d'accueil pendant un temps court ou plus ou moins long. Nous avons ce genre d'activité au Secours Catholique. Ce sont 9'000 enfants qui partent en vacances accueillis dans des familles d'accueil pendant le temps de l'été, c'est pour nous un signe. Ce n'est pas parce qu'il y a beaucoup d'enfants, c'est en fait très peu par rapport au besoin. Cette activité ne veut être qu'un signe au Secours Catholique, un signe que celà est possible et que nous pouvons le faire. Ce qui est important au Secours Catholique, je vais reprendre les paroles de son fondateur, Monseigneur Rodin, qui dit en l963, le but premier du Secours Catholique c'est d'abord un travail pédagogique, un travail d'éveil à la charité, un travail d'éducation de la charité, chez le fide’le et chez le païen. La charité d'aujourd'hui prépare la justice sociale de demain. Demain la charité subsistera pour préparer après demain. Nous ne voulons pas être un service social privé,ni le service social de l'Eglise. Nous ne voulons pas non plus gérer d'institutions sociales, mais multiplier de micros projets qui soient des signes dans la société.
Grazie per questa molto sintetica ma non per questo meno ricca esposizione di quello che è la Caritas in Francia. Non credo di dover riassumere i passaggi, molto chiari e suggestivi, che vanno dall'incontro accoglienza fino alla comprensione, all'accordo con gli organismi, con l'opinione pubblica ed i governi per attrarre l'attenzione sui problemi sociali e per arrivare infine a questa idea madre: che la Caritas nella sua azione ponga dei segni nella società. Direi forse che si tratta di semi; viene seminato qualche cosa che dovrà poi portare dei frutti e a sua volta moltiplicarsi in tante altre attività che forse non sono neppure della Caritas, ma per le quali la Caritas ha agito da stimolo, da idea madre. Qualcosa di più magari ci potrà riferire nella parte finale della tavola rotonda a riguardo della sua affermazione che la Caritas non è un servizio sociale e neppure un servizio sociale della Chiesa. Magari ci potrà dire qualcosa di più a proposito dei micro progetti.
Caritas Italiana è un po' più giovane di voi, nel senso che ha appena compiuto vent'anni. In Italia prima esisteva la Pontificia Opera di Assistenza, un'organizzazione pontificia di assistenza che Paolo VI ha chiuso, chiedendo alla Chiesa italiana di far nascere la Caritas. È nata quindi dopo il Concilio, nella visione conciliare di Chiesa concepita come comunità articolata attorno a tre dimensioni: l'ascolto e l'annuncio della parola, la celebrazione dei misteri e la testimonianza della carità. Tre dimensioni complementari e strettamente collegate fra di loro, per ognuna delle quali c'è un organismo pastorale promotore. La Caritas è stata creata per promuovere, appunto, questa terza dimensione della Chiesa. Essa è nata come strumento pastorale della Chiesa italiana per la promozione della carità e, analogamente, in ogni diocesi la Caritas diocesana è nata come strumento pastorale della Chiesa locale, quindi con una sua autonomia, non dipendente dalla Caritas italiana. La Caritas italiana è soltanto un organismo di collegamento. Non voglio tediarvi con un po' di storia di questa Caritas italiana, perché non credo che sia vostro interesse, almeno in questo momento. Vorrei parlarvi comunque soltanto di due idee. 1. Il contesto sociale, economico ed ecclesiale nel quale in questo momento ci troviamo ad adoperare. In che modo questo condiziona il lavoro della Caritas? 2. il metodo di lavoro della Caritas in questo contesto. 1. Il contesto socio economico è un contesto che vede accentuarsi il distacco fra la fascia dei garantiti, che è la stragrande maggioranza della popolazione, e la fascia degli esclusi. Un'accentuarsi che si sta radicalizzando, tendenzialmente fossilizzando e fatalizzando, mostrandosi come un processo irreversibile. Ci sono in Italia, secondo l'ultimo rapporto della commissione nazionale della povertà, otto milioni e settecentomila poveri (rapporto 1989). Tra il primo ed il secondo rapporto i poveri sono cresciuti di 300'000 all'anno, per cui a oggi sono probabilmente dieci milioni. Perché ho detto "fossilizzando e fatalizzando"? Perché non si vede volontà politica di rimuovere gli ostacoli, per rendere effettiva l'uguaglianza delle persone e quindi per restituire i poveri all'uguaglianza del paese. Anzi direi di più, la cosa più grave forse è che tutto questo avviene in un pieno gioco democratico. Peso democratico nel senso che chi decide come ripartire meglio, in maniera più equa, le risorse nella democrazia è la maggioranza. La maggioranza in Italia è evidente che sta bene e quindi non ha nessuna volontà di ridurre il proprio vantaggio. In questo senso la posizione è grave, perché è la stessa democrazia che sembra rendere impossibile il ricupero dei poveri, i quali appaiono come condannati a restare poveri, senza speranza per il futuro. Noi vediamo in quest'ultimo periodo crescere la domanda di assistenza in campi d'azione che un tempo non avremmo potuto immaginare come, ad esempio, l'aumento di mense, di ambulatori e anche di farmacie. La Caritas in questo momento si sta interrogando sul servizio che deve rendere ai poveri. Deve essere un servizio di risposte assistenziali indefinite o bisogna fermarsi invece esclusivamente a un qualche segno e poi cercare di costituire coscienza critica e forza di pressione nella società perché cambino le regole del gioco? Questo è il grosso problema. Contesto ecclesiale. La Chiesa si sta interrogando sulla propria presenza nel mondo e sul ruolo della carità nel quadro della sua missione evangelizzatrice. Su questo tema ha avviato un programma di riflessione che durerà dieci anni, gli anni 90, programma che è stato chiamato "Evangelizzazione e testimonianza della carità". I punti più importanti sono questi: a) La collocazione della carità cristiana dentro il cammino dell'evangelizzazione. La carità è chiamata il cuore della nuova evangelizzazione. Questo vuol dire che la carità viene concepita non soltanto come effetto dell'avvenuta evangelizzazione ma è vista anche come strada per evangelizzare. In altre parole, un modo per raggiungere con l'annuncio del Vangelo chi non è raggiungibile attraverso la catechesi, attraverso la liturgia, per chi in chiesa non ci viene, ed è l'80%. Questo perché la Chiesa ci dice che abbiamo l'obbligo di raggiungere tutti: "andate ed annunciate a tutte le genti ...". Come raggiungo l'80% che è fuori? Ecco, la carità è vista come una delle strade possibili per raggiungere quel 80%. Al di là di questo, che può essere un motivo contingente, la carità è vista come strumento di evangelizzazione per una riscoperta di fedeltà a Cristo. Egli ha annunciato il Vangelo facendo e parlando. Egli accentuava l'uno e l'altro secondo le opportunità; due strade complementari. Il Vangelo era unico e Lui era l'evangelizzatore ed usava strade diverse. b) Testimonianza evangelizzatrice. Solo la carità cristiana conserva, si sforza di tradurre i caratteri, le caratteristiche della carità di Dio per l'uomo e nel documento vengono evidenziati soprattutto quattro filoni di questa carità: la gratuità, la concretezza, la dimensione liberatrice della carità e la scelta preferenziale per i poveri. Chi viene toccato dalla carità è invitato ed aiutato a guardare più in alto, a vedere chi la manda e chi la spedisce. La carità di Dio in questo senso diventa annuncio. Se, essa invece si adegua semplicemente ai criteri umani non diventa un annuncio. c) Il soggetto della carità deve essere sempre più concepito dalla comunità cristiana. Quindi c'è un passaggio che viene richiesto alle comunità cristiane in Italia: dalla carità nella comunità alla carità della comunità. La carità come soggetto, non quindi solo delle presenze dentro la comunità. Presenze caritative chiunque esse siano, di religiosi o di volontari. È la comunità stessa che si presenta come soggetto, che vive la carità. In questo senso la stessa comunità annuncia e quindi dà testimonianza della carità, è pastorale della carità. Quando si parla di pastorale il soggetto è proprio la comunità cristiana. d) La Chiesa italiana ha fissato un soggetto, uno strumento per fare questi passaggi ed è quello della Caritas, creata fino alle espressioni più elementari della vita ecclesiale, cioè le parrocchie. Uno degli obiettivi degli anni 90 è che la Caritas nasca in tutte le parrocchie d'Italia. In questo momento siamo abbastanza lontani, salvo per alcuni casi. Domenica scorsa ero a Milano, dove la Caritas sta lavorando da parecchi anni. Infatti ha già superato il 70% delle Caritas parrocchiali in tutte le parrocchie, ma molte altre diocesi procedono molto più a rilento. 2. Il cammino della Caritas in questo contesto. L'obiettivo che ha la Caritas è quello di portare la comunità a diventare soggetto. Quello che per noi sostanzialmente è lo strumento per poter allargare il più possibile il numero di credenti, i quali traducono la fede in testimonianza. Cominciando dai credenti: primo, vivere la testimonianza della carità. Secondo, assumere collettivamente, quindi in quanto comunità, i problemi dei poveri, per cui i temi della povertà e dei servizi dovrebbero entrare nell'agenda dei consigli pastorali. Terzo, assumere insieme dei servizi; questo quando si decide di compiere anche qualche servizio segno. Un servizio della comunità è quindi essere insieme come comunità, come parrocchia: la voce delle istanze dei poveri anche dentro il civile come il comune o la regione. Il secondo elemento di questo cammino della Caritas è il taglio pedagogico, dove la preoccupazione maggiore è quella di condurre la comunità ad essere soggetto. Noi cerchiamo, ci sforziamo di attuare, anche se è molto difficile, il principio di sussidiarietà applicato alla parrocchia. Ci sono dei direttori Caritas in Italia per i momenti di emergenza c'è un numero telefonico, il 113 che mi dicono di sentirsi molto dei 113, perché quando c'è una qualunque disgrazia il parroco telefona alla Caritas diocesana, chiedendo: "Guarda, c'è questo caso, te ne puoi incaricare?" Viceversa, i parroci dicono: "Capita anche a noi, perché nel quartiere, quando si presenta un qualche caso, viene scaricato alla parrocchia, alla Caritas parrocchiale". Il grande processo in atto che ci si sforza di portare avanti è di rovesciare questo principio, questo costume, allargando e riportando alla base la responsabilità dei problemi. Ad esempio, due persone anziane che si ammalano; i primi che devono interessarsene sono i coinquilini. Nella misura in cui loro non ce la fanno da soli, scatta il principio di sussidiarità e si appoggiano al cerchio più ampio che è la parrocchia, e nella misura in cui la parrocchia non ce la fa, scatta il principio di sussidiarità del terzo gradino e si arriva alla diocesi. Soltanto attraverso questo passaggio siamo convinti che può funzionare il principio della comunità soggetto. L'alternativa è la comunità delegante, cioè la comunità che vede i problemi, se ne lava le mani scaricandoli sui volontari, sulle Caritas parrocchiali, su organizzazioni religiose. La Caritas parrocchiale, di conseguenza, è strumento pastorale e non agenzia di aiuti e servizi. In questo senso siamo molto vicini al cammino che sta facendo le Secours catholique francese. In questo programma decennale, puntiamo molto le nostre carte sulle generazioni dei giovani. L'obiettivo che anche dentro il progetto stiamo portando avanti è quello che dovremmo tutti inserire l'esperienza del servizio ai poveri in tutti gli itinerari formativi dei giovani, almeno in tutti quelli cosiddetti cristiani. Siamo convinti che non si può parlare d'itinerario formativo cristiano scuole cattoliche, associazioni cattoliche od altre realtà di carattere associativo se si tralascia l'inserimento, l'introduzione nel servizio ai poveri. In questo cammino noi abbiamo aperto dei segni, dei viottoli, delle strade. Il primo è quello di educare i giovani ad abbinare insieme il servizio e la pace. Abbiamo una convenzione per gli obiettori di coscienza. In questo momento abbiamo 3'300 obiettori distribuiti in 170 Caritas diocesane. L'esperienza fatta in questi ultimi dieci anni è estremamente positiva, nel senso che i giovani seguiti in questo lungo itinerario di un anno hanno dato esiti eccezionali. Per dirvi delle cose che possono essere insignificanti, sono circa 300 i giovani che si sono fatti preti. Circa il 60% dei giovani continua ad essere impegnato a livello ecclesiale, il 25% a livello civile a tutti i livelli come la famiglia, famiglie aperte all'accoglienza di persone con handicap eccetera. La seconda pista, sempre come segno, è quella dell'anno di volontariato sociale per tutti quelli che non hanno l'obbligo del servizio militare e civile, e riguarda soprattutto le ragazze. Anche qui abbiamo delle esperienze molto forti. La terza strada è quella delle famiglie aperte. Noi spingiamo molto sul volontariato, considerandolo la punta di diamante se mantiene il suo carattere di provvisorietà e si inibisce di accettare di essere delega per gli altri. Volontariato che noi incoraggiamo e che ci sforziamo di formare, e che può comportare anche dei rischi. In questo momento di boom del volontariato ne constatiamo tutta la fragilità, tutti i rischi. In ogni caso, consideriamo che la tappa finale del lavoro che portiamo avanti non è di aumentare a proporzioni enormi il numero dei volontari, quanto piuttosto di far crescere l'intera comunità cristiana, perché considereremmo una sconfitta la parrocchia in cui ci fossero molti volontari la cui comunità è assente, perché ha delegato ai volontari l'occuparsi dei poveri.
Ringraziamo moltissimo monsignor Pasini. Credo che sia impossibile cercare di riassumere, perché tale è la ricchezza delle piste di lavoro, degli esempi che ci ha offerto dello spirito che anima la Caritas italiana. Non c'era modo migliore per esprimere quel compito che fu dato all'origine della Caritas italiana, e cioè la testimonianza cristiana come crescita della comunità cristiana stessa e di tutta la comunità civile. Non c'è modo migliore per testimoniare come in questi anni sia cresciuta e si sia arricchita di molto e abbia effettivamente un programma. Credo che sia importante che tutte queste cose siano dette e forse anche nella stessa Italia c'è bisogno di una maggiore conoscenza di questi programmi e del valore di queste iniziative che sono state intraprese. Forse qualcuno avrà poi piacere di chiedere dettagli su alcuni aspetti, particolari iniziative di cui monsignor Pasini ha parlato ed a cui ha potuto accennare solo brevemente. Veniamo adesso all'ultimo intervento che riguarda la Caritas Svizzera. Tout d'abord il faut que je vous donne les salutations de notre directeur. Je suis de langue allemande, j'essaie de m'exprimer en français, je vous prie d'essayer de me comprendre. Quand je vous écoute parler de vos Caritas, je me demande ce que je vais dire? Caritas Suisse n'est pas devenue ce qu'elle est selon une idée, mais elle est devenue par les événements. J'aimerais vous expliquer un petit peu cette Caritas Suisse qui est la plus ancienne des Caritas ici présentes, elle a 90 ans, c'est la "nonna" des Caritas ici présentes. Il n'existait que la Caritas allemande qui a été fondée à Fribourg en Brisgau et à Strasbourg, on ne sait pas exactement, ce sont les petites histoires entre les organisations. Pour Caritas Suisse, il faut savoir qu'avant la Caritas Suisse il y avait les Pères capucins. Les Pères capucins, surtout le Père Théodosius Florentini, ont fondé des congrégations religieuses de femmes, les soeurs d'Ingelbohl et les soeurs de Menzingen qui travaillaient dans le social. Sans ce travail, je crois il n'y aurait pas de Caritas en Suisse. La Caritas ne fait pas partie des Pères capucins de nos jours, mais est partie de là. Il y avait un capucin, Rufensteiner, qui a fondé la Caritas Suisse en l90l, non comme oeuvre d'entraide ou oeuvre de charité, mais comme une oeuvre et un instrument politique, pour donner une voix aux catholiques, aux oeuvres de charité catholiques de la Suisse sur le plan national. C'était un engagement extrêmement politique pour prendre de l'influence dans la sécularisation de cette société. Pour beaucoup de catholiques, ce père Rufensteiner était trop politique et après trois ans, il a été évincé et de la Caritas; il n'est resté qu'une commission dans une autre association. Pendant environ 20 ans, elle n'a plus été active. Tous les 2 3 ou 5 ans, elle faisait un congrès ou une conférence, et seulement à la fin de la guerre l9l4 l9l8, vu que toutes les autres associations s'occupaient des gens en détresse, les catholiques ont pensé de faire aussi quelque chose en Suisse. On s'est alors souvenu de Caritas. Son premier engagement a été pour ses voisins d'Autriche. Comme aujourd'hui la Caritas Ticino fait pour la Croatie. Elle a aidé les enfants et les religieuses d'Autriche et c'est à partir de cette période que le premier directeur a été nommé et qu'un bureau a été fondé à Lucerne. Cette Caritas était une petite Caritas, mais dans les années 30, il y avait le chômage en Suisse et c'est à ce moment qu'elles a pris un essor vers les paroisses, spécialement dans les diocèses de Bâle et du Tessin (c'était le même diocèse dans le temps) grâce à Monseigneur Ambühl qui était auparavant curé de Lucerne qui connaissait cette organisation. Ce n'est qu'alors que les évèques ont pris conscience de cette Caritas. Ils en ont pris le patronnage et ont obligé toutes les paroisses à fonder des Caritas paroissoiles. On voulait aider les gens qui étaient au chômage, mais pour les catholiques suisses c'était très risqué parce qu'ils n'osaient pas aider les travailleurs sans travail pour ne pas être des socialistes. Qu'a fait Caritas? Elle a décidé d'aider les enfants des chômeurs. Des distributions de soupes ont été organisées pour les mères, mais surtout pour les enfants, mais pas pour les pères, pour ne pas être parmi les socialistes. Durant les années l940, Caritas Tessin, Caritas Genève, Caritas Vaud ont été fondées à cause du nombre de réfugiés venant en Suisse et pas seulement des Juifs. A la fin des années l940 il y a eu la grande crise pour Caritas Suisse parce qu'elle ne s'occupait que des réfugiés et du travail d'après guerre. C'était un travail immense; elle avait un budget, à l'époque, de 50 millions de francs suisses. Si Caritas Suisse a un budget maintenant de l00 millions, ce n'est pas la moitié de ce qu'ils avaient dans le temps si on se rapporte à la dévaluation. Un prêtre était directeur, et comme souvent quand un prêtre est le directeur, les autres n'aiment pas qu'il occupe une place tellement importante et cela a provoqué une crise. Il était devenu une personnalité internationale, mais d'autres de ses collègues ne l'ont pas bien vu et l'évêque a dû le mettre comme chef d'un institut d'enfants. Tout cela a provoqué une crise; la Caritas a baissé son budget de 50 millions à l,2 million de francs. Dans les années l960, l'activité a repris avec l'idée d'aider le tiers monde et d'apporter de l'aide en cas de catastrophes. Une fois de plus la Caritas Suisse s'est trop engagée pour les catastrophes et dans les années l970, elle n'avait plus rien en caisse. Encore une fois cela a été la grande crise. On a réorganisé la Caritas en l96l et depuis lors elle a pris un engagement plus large, dans toutes les régions; toutes les Caritas régionales sont nées et la Caritas Suisse a trouvé sa base pour travailler sur le terrain. C'est le principe de subsidiarité: Caritas Suisse est là pour aider, afin que l'on puisse faire quelque chose." Dans les années l980 c'était l'afflux des requérants d'asile. Ce problème nous préoccupe d'ailleurs encore de nos jours. Depuis les années l990, cette nouvelle pauvreté est devenue actualité en Suisse. Il y a quelques semaines que la Suisse réalise l'ampleur du problème parce qu'elle a plus de l00'000 chômeurs et qu'ils seront 400'000 dans quelques années et cela impressionne. Les dons qui parviennent à Caritas Suisse augmentent. Notre population s'est rendue compte que maintenant c'est sérieux, il faut à nouveau être solidaire envers les autres. Ceci est un côté des activités de Caritas. Les autres oeuvres d'entraide sont les suivantes: • entraide en cas de catastrophes • entraide pour le Tiers Monde • entraide pour "Sozialaufbauer" en Suisse • entraide pour les réfugiés et requérants d'asile Actuellement la Caritas Suisse travaille sur toutes ces différentes entraides. Mais comment travaille t elle? J'aimerais encore vous dire quelque chose sur les principes, mais si je dis principes c'est de nouveau trop dire parce que c'est plutôt sorti du sens de pratique que d'une réflexion théorique. En Suisse, vous avez entendu parler ce matin du welfare state. Là il n'y a pas de pauvreté. C'est presque une chose exquise que d'être pauvre parce que ce n'était pas un phénomène on avait peu de pauvres de vrai pauvreté et il fallait les découvrir. Il y en avait, mais les pauvres ne se montraient pas. On a remarqué que la pauvreté en Suisse est un phénomène de désintégration. Quand on est pauvre on ne fait plus partie du tout, on est à côté. La pauvreté, dans ce sens de détresse, n'est pas qu'une des difficultés de la vie. Ce n'était pas d'apporter une solution à un problème ou àune difficulté, mais que la détresse est toujours là quand il y a plusieurs problèmes qui jouent ensemble, plusieurs difficultés. Lorsque quelqu'un perd son mari ou sa femme, qu'il perd en même temps son travail, qu'il y a des factures à payer et que tout à coup les amis se détachent, c'est là que la détresse commence. C'est toujours des complexités et pas seulement des problèmes et des difficultés àmaîtriser. Sur ces deux idées Caritas Suisse s'est développée parce qu'elle veut contribuer à l'intégration de quelqu'un qui est dans la détresse, pour l'aider à retrouver à nouveau des liens dans la société, dans son entourage. Si on arrive à déceler sa détresse, certaines difficultés seront à nouveau métrisables. Comment faire pour réintégrer une personne quand on sait bien que l'intégration ne peut pas se faire, qu'on ne peut pas la commander, qu'on ne peut pas dire "soyez de nouveau ensemble"? La charité ne se laisse pas commander. On se dit alors que la méthode c'est l'animation. Je rejoins ce que vous avez dit de la France. Mais l'animation suisse, dans les années l970, c'était surtout un mouvement socio culturel, un mouvement pédagogique, éducatif. Notre ancien directeur, Fridolin Kissling, disait ce n'était pas la bonne méthode pour Caritas Suisse. Il ne faut pas prêcher, c'est aux curés de prêcher, mais il faut faire des actions et inviter les gens à participer aux actions. "Involvieren" les faire participer et travailler avec eux et mettre ensemble celui qui a besoin d'aide et celui qui a besoin d'aider. C'est sur de tels projets que Caritas Suisse travaille pour animer une société un peu plus charitable. Ce n'est pas à nous de diminuer la détresse; notre objectif est la promotion de la charité. Caritas ne peut pas résoudre les problèmes, mais elle peut contribuer à ce que cette société ou cette Eglise soient plus sociales ou respectent plus son prochain. Voilà notre manière de faire et lorsque nous travaillons à l'étranger, nous avons le souci d'être partenaire, de ne pas apporter de l'aide, mais d'examiner avec celui à qui on apporte de l'aide, comment et de quelle manière il a besoin qu'on l'aide. C'est tout ce que je peux vous dire sur Caritas Suisse. Le défi continue et nous devons étudier, tous les jours, comment concevoir cette Caritas, comment réinventer cet évènement. Nous n'avons pas des idées tellement définitives, au point que je puisse vous les proposer ici.
Grazie anche a Bausch per questa ricchissima testimonianza, che mi ha colpito in diversi punti, soprattutto per questa presenza di spirito e di rielaborazione dello spirito della carità, della Caritas come presenza nella società e nella Chiesa. Sono stato molto colpito da quella osservazione che ha espresso e cioè che quando una persona diventa povera perde tutte le appartenenze, non fa più parte di nulla. Probabilmente lo spirito della Caritas è proprio questo, di porgere una mano a chi entrando in una situazione di bisogno non ha nessun punto di appoggio, nessun punto di orientamento. Dibattito Due domande che rappresentano dei particolari che mi hanno colpito nelle diverse relazioni. La prima alla signora Sergée. Come rappresentante della Caritas Francia, ha parlato di circa cinquecentomila interventi e poi ha finito la sua relazione dicendo: "Il nostro lavoro, il nostro modo di essere presenti nella società francese è quello di costruire delle micro realizzazioni". Io vorrei capire se questi 500'000 interventi si potrebbero concepire come interventi di tipo individuale, quindi un aiuto alla persona. Per questo desidero che venga chiarito meglio cosa essi vogliano dire e quindi spiegare con alcuni esempi, relativi a queste micro realizzazioni. La seconda domanda a monsignor Pasini, riguardante l'ultimo punto trattato, quando diceva: "non corriamo il rischio di creare dei volontari all'interno della comunità, facendo in questo modo morire quella scintilla di comunità che ancora esiste e creando un rapporto di delega tra la comunità e i volontari".
C'est vrai que nous rencontrons beaucoup de gens au Secours Catholique. Ils viennent nous voir parce qu'ils ont un problème; ça part toujours d'une relation ou d'une situation personnelle. Suivant les cas, c'est quelque chose qui ne va pas en soi même quand il s'agit d'une personne seule; ou pour la famille, les enfants, la femme ou le mari. Nous en rencontrons beaucoup. Ces personnes viennent toujours nous voir avec quelque chose de concret à nous demander parce qu'elles savent que leur demande soit alimentaire, vestimentaire ou financière est recevable au Secours Catholique. Si on prend le temps de la rencontre, si les équipes locales, les bénévoles prennent le temps de discuter, d'instaurer petit à petit la confiance entre les deux personnes, l'aidé et l'aidant, on découvrira d'autres choses. Une des choses que l'on découvrira, c'est la solitude et la détresse dont on a aussi parlé tout à l'heure. Il est vrai qu'il y a aussi des questions alimentaires et financières posées par des familles surendettées ou des gens qui ne peuvent pas payer leur loyer ou leur facture d'électricité etc.. Nous essayons, à travers notre réponse, d'accompagner la personne dans le temps et aussi de créer des petites choses. Voici en suivant quelques exemples concrets qui, comme dans le cas alimentaire, n'est pas forcément à répéter partout. Nous avons en France un quarantaine de magasins alimentaires situés dans des différents coins du pays. Je prends l'exemple du magasin alimentaire qui est en Normandie, à Evreux. Il se trouve dans un quartier très populaire, dans un quartier où il y a beaucoup de grandes tours etc. Dans ce magasin alimentaire, quinze familles y viennent régulièrement. Parfois parce qu'ils ont des problèmes effectivement financiers (une femme arrive en disant qu'elle n'a plus rien à donner à manger à ses enfants); nous essayons de savoir pourquoi elle n'a plus rien à donner à manger à ses enfants déjà le quinze du mois par exemple. Nous essayons d'établir un dialogue avec elle, sa famille avec tout un groupe de familles. Ces familles se réunissent plus ou moins régulièrement et on essaie de construire quelque chose ensemble. Nous parlons alors de la façon de gérer leur budget alimentaire, de recettes de cuisine ou comment faire pour mieux nourrir son gamin. Des exemples très concrets mis en pratiques sur le lieu même du magasin alimentaire. Je vais aussi parler de ce que je connais mieux évidemment, de ce dont je m'occupe au niveau de la coordination femme famille, nous aidons au départ de familles en vacances. Même des familles en difficultés sociales ou financières peuvent partir en vacances. Donc aux familles que nous connaissons, via les magasins alimentaires ou d'autres lieux de rencontre, nous demandons ce qu'elles pensent de partir en vacances. On projette certains lieux, dans certaines délégations diocésaines du Secours Catholique comme par exemple Montpellier dans le Sud où toutes les familles partent ensemble pendant une dizaine de jours et y vivent en commun dans cet ensemble durant cette période. Ailleurs, si je prends le cas d'Annecy dans les Alpes, pas loin d'ici finalement, se sont des familles qui sont accueillies de manière plus isolée, mais accompagnées par l'équipe locale. Une mère, avec des enfants, viendra effectivement pendant dix douze jours et sera accueillie. Là, c'est extraordinaire le sens de l'accueil, l'importance du premier moment de la rencontre. J'ai encore dans ma tête le souvenir d'une lettre de remerciement d'une personne en difficultés qui disait l'importance, pour elle, du bouquet de fleurs sur la table de la salle à manger et de la tarte aux abricots. Tout ça pour dire que les petits détails ont drôlement leur importance aussi. C'est à partir de celà que toute une communauté va se créer autour de cette famille pour l'accom pagner, pour lui proposer d'aller visiter le château voisin ou le pique nique, etc., tout en étant à la fois discret. En effet, nous n'avons pas à dire: vous voulez faire ceci, on va faire cela, etc. Il faut respecter les personnes. Il y a plein d'exemples comme celui ci. Il existe l20 ou l50 groupes de femmes qui se retrouvent, parce qu'elles vivent une solitude très grande et qui dans ces groupes font des choses ensemble. Cela commence par un café que l'on boit et puis après on construit ensemble; ce sont les femmes qui décident ce qu'elles veulent faire. Il y a aussi des débouchés qui leur permettent de mieux s'occuper de leurs enfants. La possibilité de suivre des cours, etc. ou bien d'aller visiter des musées, découvrir son environnement extérieur alors que l'on ne connaît rien; que l'on ne connaît que son quartier ou sa commune. Il est vrai que l'on rencontre beaucoup de gens, on essaie de leur répondre par certains biais qui peuvent être cette solution là. Je ne sais pas si j'ai vraiment répondu. Ce que nous essayons de faire bien sûr, c'est de ne pas le faire tout seul. L'autre jour, j'étais à Toulon, dans le Var (Midi de la France): un bénévole, qui n'y connaissait rien en toxicomanes, mais qui en rencontrait dans son quartier, s'est dit que là il y avait certainement quelque chose à faire. Comme il n'était pas au courant du système d'aide que l'on peut apporter aux toxicomanes, il a fait appel aux voisins qu'il connaît, aux médecins, pharmaciens, etc. en leur demandant de bien vouloir partager le projet qu'il avait envie de réaliser. C'est ainsi que maintenant il existe une permanence et toute un réseau d'aide pour les toxicomanes dans un quartier de Toulon.
Cercherò di chiarire l'ultima idea che ho espresso, e che potremmo identificare con questa frase: il trionfo del volontariato scoppia quando il volontariato scompare, perché non più necessario, nel senso che la comunità è diventata una comunità responsabile. Noi abbiamo fatto una analisi storica che riguarda l'Italia ma che tocca, penso, anche altri ambienti. Abbiamo registrato storicamente una specie di peccato originale, iniziato dopo i primi secoli del cristianesimo. La nascita degli ordini religiosi consacrati al servizio dei poveri ha fatto scattare una specie di meccanismo di delega. Era quasi un dividersi le competenze, per cui dei poveri e degli ammalati se ne dovevano interessare le persone chiamate da una speciale consacrazione, mentre la comunità cristiana doveva preoccuparsi del culto e della catechesi al popolo. Solo a livello individuale, liberale e facoltativo, essa doveva assicurare un qualche sostegno a chi, dei poveri si occupava. Questo ha portato a costruire delle comunità cristiane come dei tavoli a tre gambe, di cui una mancante. Una comunità cristiana che non vive e realizza la dimensione della carità non è comunità cristiana. In questo senso noi, quando parliamo del volontariato, puntiamo molto ad evidenziarne una triplice funzione, considerata complementare. La prima funzione è quella che dà credibilità
al volontariato ed è il servizio diretto alle persone in difficoltà,
quello che rende credibile le loro parole. La terza dimensione è l'impegno politico. La prima carità è di assicurare dignità alle persone, i diritti alle persone. Si potrebbe dire" vestire gli ignudi", ma gli ignudi di diritti innanzitutto; il primo vestito da dare è restituire loro il diritto. Questo non può darlo il volontariato; il diritto è una cosa permanente, una cosa che è assicurata dalle strutture legali mentre il volontariato c'è e non c'è proprio per sua natura. Non può essere dunque il volontariato che assicura i diritti alle persone. Porto un piccolo esempio. Uno dei tanti gruppi di volontariato in Italia si calcola che vi siano quattro milioni e mezzo di volontari divisi in circa 16'000 gruppi ha inserito nel proprio metodo di lavoro questa idea, che così può essere esemplificata: in una famiglia con un malato mentale e con i genitori che fanno fatica a gestire la situazione, i volontari si chiamano equipaggi della speranza prestano il primo soccorso. Dopo che essi si sono resi conto perfettamente del caso, suonano il campanello di tutto il palazzo e lo segnalano, esortando i coinquilini a fare qualcosa. Qualcuno li manda a quel paese, ma per agire in questo modo i coinquilini devono cominciare a prendere una decisione, ed è molto difficile decidere di non volersene occupare quando un volontario è li presente. Don Ciotti, che guida uno dei gruppi più noti in Italia, il gruppo Abele di Torino che si occupa degli emarginati, dice sempre: "Guai a noi se non ci considerassimo estremamente provvisori". Dovremmo veramente considerarci realizzati nel momento in cui possiamo scomparire, perché siamo riusciti a costruire una società solidale. In questo senso noi non li chiamiamo "quelli della Caritas", ma piuttosto animatori di comunità, perché il compito loro non è specifico. Quello a cui sono stati chiamati non è solamente fare. Potranno svolgere anche un servizio, appartenendo ad un gruppo di volontari, ma il loro servizio precipuo è quello di animare la comunità affinché divenga una comunità soggetto.
Non vorrei trarre delle conclusioni. Secondo me tre sono le idee che sono state in qualche modo al centro di questa giornata. La prima è che la Caritas è molto giovane non solo nel senso di età, come ad esempio in Italia, dove ha appena vent'anni. Un ragazzo di vent'anni è infatti molto giovane ma è giovane come spirito e quindi come energie. Ha tutta una vita da vivere davanti a sé. La seconda idea, che corrisponde ad un principio assodato in tutte le esperienze di questa tavola rotonda, è che la Caritas mette in atto quel principio di sussidiarità che è così centrale nella dottrina sociale della Chiesa e che non è un principio negativo. Non è un principio di difesa dello stato come spesso è stato frainteso, ma è invece un principio positivo. Il principio di sussidiarità attiva, come abbiamo sentito, un modo per stimolare chi è più vicino al prossimo che ha bisogno e non corrisponde al sostituirsi a chi è prossimo al povero, alla persona in stato di malessere, di disagio, di richiesta di aiuto. Quindi il principio di spingere il vicino, il prossimo a fare tutto quello che può fare, a mobilitarsi lì dove vive è un un principio spirituale con conseguenze organizzative. Esso sta a significare, come abbiamo sentito in tanti interventi, che prima si cerca di mobilitare il vicino, se questi non può ci si rivolge alla parrocchia, quindi alla diocesi, e poi eventualmente a una entità più ampia, una regione con più diocesi e un'intera Caritas nazionale o addirittura la Caritas Europa. Questo principio di sussidiarietà, messo in pratica in senso positivo per mobilitare le energie delle persone, realizza la società civile, la Chiesa. Mi sembra essere l'esperienza più condivisa e anche un principio su cui lavorare ulteriormente, perché stimola nuove idee, nuove iniziative. L'ultima idea è quella di aver visto tre grandi linee di azione per il futuro della Caritas, considerato anche che questo convegno è uno sguardo sul futuro. Tre grandi linee, cioè i compiti che la Caritas può avere. Compiti di animazione innanzi tutto, nel senso proprio di dare un'anima a questa società e molto spesso anche rianimare comunità ecclesiali, parrocchie che hanno perso un po' la spinta, la fiducia nel futuro. Un secondo grande binario di attività è il compito civile della Caritas, inteso non come supplenza alla società o allo stato ma come compito di rendere possibile la presa di coscienza sui problemi sociali, economici e politici. Abbiamo sentito, a livello di Caritas Europa, l'aspetto politico, il problema economico della povertà. La terza grande linea è quella del compito dell'azione, chiamiamola pastorale, nel senso della crescita dell'intera comunità cristiana della chiesa locale, della chiesa più ampia. Questa azione pastorale si realizza partendo sempre dalla chiesa locale, perché il valore della sussidiarietà è ciò che ispira come principio e dà il criterio e la misura in cui questi compiti possono e debbono essere realizzati. Questa cornice, la giovinezza della Caritas, il suo essere principio positivo di stimolo in quanto sussidiarietà ed aver questi grandi binari, è la linea di direzione che consente poi a tutte le Caritas di arricchirsi, di scambiarsi stimoli e idee per nuove azioni. Credo che dobbiamo ringraziare molto la Caritas Ticino che ci ha dato questa occasione d'incontro comune. Facciamo molti rallegra menti per la loro iniziativa, molti auguri per la loro attività, dando quindi la parola al direttore della Caritas Ticino per la vera conclusione di questo convegno, ringraziandolo ancora dell'ospitalità e di averci fatto trovare insieme.
Io non oso concludere questo convegno, perché adesso comincia il lavoro, nel senso che gli spunti ci sono, ce ne sono veramente molti. Partiamo da qui. Credo che noi non stiamo chiudendo nulla, stiamo solo aprendo questo sguardo sul futuro con l'aiuto di quelli che hanno preso la parola e con l'aiuto vostro, perché evidentemente le Caritas non sono quelle strutture che hanno delle sedi, del personale e così via. La Caritas è tutta la comunità che in diocesi cerca di vivere la carità e che deve, appunto, trovare strade nuove perché le sfide di fronte alle quali siamo posti oggi chiedono sempre più alla Chiesa risposte efficienti. Quindi un grazie di cuore a tutti quanti e magari troviamoci non al "centesimo" della Caritas ma forse prima, per capire che cosa effettivamente avranno dato come risultato le linee emerse oggi. Mons. Juraj Petrovic, nato nel 1932, Teologo, Vicario generale della Diocesi di Rijeka, direttore di Caritas dal 1991. Jean Luc Trouillard, nato nel 1942 diploma alla Scuola Superiore di Studi Economici. Dal 1981 al 1991 ha lavorato per Caritas France. Attualmente è segretario generale di Caritas Europa. Marie Alice Sergé, diploma in Economia sociale. Ha lavorato per 14 anni per la comunità di Taizé per alcune parrocchie di Parigi. Da 5 anni presso Secours Catholique è responsabile a livello nazionale del programma "Femme et Famille". Mons. Giuseppe Pasini, sacerdote, giornalista e pubblicista, è docente di Pastorale della carità presso l'Università Lateranense di Roma. Dal 1986 direttore della Caritas Italiana. Hubert Bausch, filosofo e teologo, responsabile della
pianificazione e del controlling presso Caritas Svizzera. Privato sociale e carità, modelli e esperienze
di Mimi Lepori Bonetti Ripensare il sociale: nuovi soggetti sociali È un dato di fatto oggettivo e incontestabile che la costruzione dello Stato sociale, avvenuta anche nella nostra società ticinese a partire dagli anni 60/70, ha permesso alla nostra società e alla popolazione ticinese di compiere un salto qualitativo mai conosciuto in precedenza. L'elaborazione di molte leggi sociali già evidenziate nel capitolo dedicato all'evoluzione della legislazione sociale, la spesa legata al Dipartimento opere sociali di circa 600 milioni di franchi ( spesa comprensiva di circa 150 milioni di franchi per le spese sanitarie) per il 1992 sono la testimonianza tangibile dell'assunzione del bisogno sociale da parte dello Stato. Questa assunzione, segno di un dinamismo reale, è stato voluta dalla società ticinese e dalle forze politiche rappresentate in Parlamento. Non si può comunque sottacere il ruolo storico avuto in questo settore dai cattolici che, come in molti Paesi occidentali, anche in Ticino hanno svolto un compito di pionieri. Questo dinamismo, oltre a colmare i ritardi iniziali, ci permette oggi di essere all'avanguardia in alcune leggi sociali rispetto ad altri Cantoni svizzeri. Eppure, proprio in questa esplosione, non solo di spese sociali ma anche di progettualità e di creatività, la società ticinese (per prima seguita più tardi da quella Svizzera) ha scoperto di convivere con una fetta di popolazione (15%) che si situa al disotto della soglia della povertà. Lo Stato sociale cominciava a mostrare i suoi limiti e a cedere sotto il suo stesso peso, proprio nel momento in cui pensava di non essere più costretto a "correre" per rispondere all'urgenza del bisogno. "Riorganizza re e non smantellare", "più Stato", "meno Stato", "meno Stato e più società" erano slogan usati dalle diverse forze politiche a metà degli anni 80 per indicare il cambiamento di rotta che lo Stato sociale doveva compiere. Non è compito di questo scritto analizzare il perché della crisi dello Stato sociale e non è neppure nostro compito individuare i punti dell'organizzazione futura dello Stato sociale: il tentativo nostro è quello di chiederci in che misura il privato sociale (quello cattolico , quello nato da spinte di giustizia sociale, il "terzo settore" come spesso viene definito) è stato capace di assumere un ruolo attivo nella costruzione dello stato sociale e in che misura oggi, in questo momento storico in cui "le carte stanno per essere rimescolate", il privato sociale è un soggetto attivo, capace di portare il suo contributo originale per rispondere alle sfide degli anni 2000.
I primi capitoli della prima parte del libro, ma lo stesso Convegno organizzato da Caritas per ricordare il suo 5Oesimo anno di attività, testimoniano la presenza irrinunciabile della ricchezza del privato sociale cattolico che, soprattutto all'inizio di questo secolo era costituito da persone "di buon cuore" che riuscivano a proporre soluzioni ai diversi problemi. Un privato sociale basato essenzialmente sul volontariato, che solo verso la metà di questo secolo si è ulteriormente arricchito delle prime figure professionali formatesi oltre Gottardo. Un privato sociale per lo più non organizzato che ha vissuto della generosità e solidarietà della gente, della comunità cristiana e che in questo secolo ha esercitato un ruolo determinante. Il 1891, con la presentazione della prima enciclica sociale, la "Rerum Novarum", segna un momento importante per il privato sociale cattolico. Infatti, in questo importante documento è tracciato il primo programma sociale della Chiesa: viene riconosciuta la centralità della persona in tutti i settori della vita, vengono elencate le categorie di persone confrontate con una situazione di povertà e di disagio molto grande (anziani, orfani, persone andicappate, ammalati), viene espresso un appello affinché, nel rispetto del principio della sussidiarietà, lo Stato si faccia carico dei più deboli. La storia sociale, svizzera e ticinese, ci indica che è solo dopo molti decenni che lo Stato sociale si dà un contenuto normativo. In Svizzera possiamo identificare la nascita dello Stato sociale con l'introduzione nella costituzione del principio dell'AVS (1947), e in Ticino la si può identificare con l'istituzione del Dipartimento opere sociali avvenuta attorno agli anni 60, e con il varo della legge protezione maternità e infanzia (1963), nella quale viene indicato un primo programma di politica sociale da parte dell'autorità. Perché questo ritardo e quali possono esserne le cause? Ci permettiamo di indicarne alcune, senza la pretesa di voler essere esaustivi. • L'emarginazione culturale e politica del Cantone durante le due guerre mondiali • La lenta trasformazione della società ticinese, con il passaggio da società agricola a società economica e industriale • Una mancanza di sensibilità politica dei partiti per troppi anni legati a lotte ideologiche • La mancanza di contatti con i centri universitari e i centri di formazione per operatori sociali della vicina Italia e d'oltre Gottardo Soprattutto nella prima metà del secolo, quando la situazione economica del nostro Paese sollecitava moltissimi ad emigrare e quando il nostro Paese era diventato terra di accoglienza per molti rifugiati, in Ticino si insediarono numerose congregazioni religiose con il compito di aprire istituti per l'infanzia, per gli ammalati, per gli anziani. In quegli anni, accanto a queste forme di espressione nel sociale, nascevano tiepidamente altre forme associative, ispirate da ideali di giustizia e di filantropia. Durante i decenni di latitanza dello Stato si stava organizzando un privato sociale, cattolico e non, che, pur confrontato con problemi economici enormi, ha saputo essere attento ai bisogni della società ticinese. Un privato sociale che, al momento della nascita del Dipartimento opere sociali, ha trovato difficoltà a farsi ascoltare e farsi riconoscere. Soprattutto durante il primo periodo (60 75), il rapporto tra intervento pubblico e intervento privato (definizione usata correntemente, ma errata nel suo contenuto perché ciò che nasce dall'iniziativa non statale è al servizio di tutti, quindi è pubblico) ha presentato disagi e talvolta anche incomprensioni.
Una sottile rivalità metteva a confronto i diversi attori dell'azione sociale. Tre i fattori di questo disagio da noi individuati: Un primo fattore è riconducibile al clima culturale presente nella società, ticinese e non, verso la fine degli anni 60. La presenza di operatori sociali formati presso scuole e istituti universitari, dove la contestazione giovanile aveva assunto un ruolo accentuato, ha creato un profilo dell'operatore sociale poco incline a riconoscere i valori tradizionali presenti nella società. L'incontro/scontro avvenuto in quegli anni con chi fino ad allora aveva garantito una risposta ai bisogni sociali ha sicuramente contribuito a rendere più problematico il rapporto tra pubblico e privato. La stessa professionalizzazione del lavoro sociale, tappa indispensabile nello sviluppo della socialità, ha creato nuove difficoltà a molte associazioni, alle congregazioni e agli istituti. L'introduzione nel mondo sociale di personale formato, coinciso con l'inserimento in molte istituzioni religiose di personale laico, oltre a creare difficoltà di ordine economico ha provocato tensioni tra il personale; nuovi operatori, con percorsi di vita molto diversi, venivano introdotti in gruppi già esistenti, portando nuove metodologie non sempre di facile comprensione. Lo stesso sviluppo delle scienze pedagogiche e sociali ha, da una parte indiscutibilmente aperto a nuovi orizzonti. Dall'altra però, proprio per l'incontro/scontro avvenuto, ha mortificato chi fino ad allora aveva operato rifacendosi più ad un "buon senso" che non a delle conoscenze teoriche specifiche, ma con una carica ideale che spesso sopperiva egregiamente alla mancanza di un bagaglio scientifico preciso. Un secondo fattore è da ricercarsi nel ruolo che il dipartimento competente ha svolto fin dalla sua organizzazione, sicuramente più per il desiderio di essere operativo in un settore dove molte lacune erano presenti, o più semplicemente per recuperare il ritardo di alcuni decenni, che non per un reale progetto politico di egemonia. Comunque l'accentramento avvenuto nei primi decenni di attività ha creato sospetto e non ha facilitato lo stabilirsi di un rapporto di fiducia tra i diversi partner. Inoltre, la crescita di questo Stato sociale, il desiderio di promuovere, di vigilare, di coordinare, di organizzare ha favorito, da parte della persona e della stessa società, una incapacità a creare risposte proprie ai bisogni sociali. Sarebbe però ingeneroso indicare solo nella crescita dello Stato sociale il fattore determinante per questa deresponsabilizzazione della persona e della società. Un'analisi delle diverse cause ci porterebbe però troppo lontano: indichiamo nell'evoluzione culturale e in quella economica due aspetti sicuramente determinanti per questo cambiamento di mentalità avvenuto dopo gli anni 50/60 . La vitalità presente nella persona e di conseguenza nel tessuto sociale, questa vitalità capace di creare solidarietà e risposte spontanee ai diversi bisogni è andata via via spegnendosi. Sta di fatto che la crescita dello Stato sociale, dello Stato protettore, oltre a creare quella qualità di vita a cui si accennava all'inizio, ha favorito un atteggiamento di delega delle proprie responsabilità da parte della persona e della società. Più lo Stato sociale produceva servizi e strutture per rispondere ai bisogni delle persone, più le persone e la società delegavano la loro responsabilità a questi servizi e strutture. Un terzo fattore si situa più a livello di metodo. La mancanza di un partner unico, raggruppante le forze del privato sociale (cattolico e non) e riconosciuto dal Dipartimento quale interlocutore non ha permesso un dialogo organico e coordinato tra i diversi attori dell'azione sociale. L'ATIM (l'associazione ticinesi istituti minorili) dapprima, la FTOSA (federazione ticinese opere sociali e assistenziali) in seguito, l'ATIS (associazione ticinese istituti sociali) oggi ancora attiva, altre associazioni mantello che hanno tentato e tentano tutt’oggi di raggruppare le iniziative del privato sociale, non hanno potuto e saputo assumere un ruolo dinamico e propositivo nei confronti del Dipartimento competente. Le iniziative private singole, legate forse più ad aspetti particolari che non a una concezione globale dell'azione sociale, non hanno saputo cogliere le diverse occasioni per porsi quali forze culturali nei confronti dello Stato. I diversi tentativi di raggruppare, più che coordinare, le iniziative private sono stati difficilmente capiti, quasi come se chi avesse questa intenzione lo facesse più per interessi personali che non per uno scopo comune, quasi si volesse togliere l'autonomia della singola espressione, da tutti gelosamente conservata. Le stesse associazioni e servizi, presi singolarmente, soprattutto durante il primo decennio (65 75) non hanno saputo dialogare con l'autorità pubblica partendo dall' identità che le aveva originate o partendo dalla concezione del metodo pedagogico e sociale utilizzato. Il rapporto con l'autorità passava per forza di cose da un legame finanziario. Questo legame finanziario che con il trascorrere degli anni è diventato sempre più determinante per la sussistenza della stessa opera aveva allora condizionato non poche opere. Anche i servizi privati nati durante questi ultimi decenni, forse più agguerriti da un punto di vista degli strumenti professionali rispetto a quelli nati durante i decenni antecedenti, non hanno saputo dialogare con le autorità partendo dai contenuti culturali che li hanno originati. Molte di queste strutture sono nate con criteri metodologici dettati da altri (commissioni pianificatorie, funzionari) , e gli stessi responsabili chiamati a dirigere queste strutture, più che avere un ruolo di "animatore del sociale", amministrano con grande diligenza la propria fetta di socialità.
I tre fattori elencati nel paragrafo precedente, con accentuazioni diverse a seconda del momento particolare, sono stati presenti e hanno contraddistinto il rapporto tra pubblico e privato durante lo svolgersi di questi importanti decenni per la crescita della socialità in Ticino. Un rapporto, quello tra pubblico e privato, che solo verso la metà degli anni 80, al momento in cui già lo Stato sociale dimostrava tutte le sue debolezze, ha potuto essere riconsiderato. Si entrava finalmente in una nuova fase. Pubblico e privato: fine di un'alternativa? Un saggio di Pierpaolo Donati sembra trovare anche nella nostra piccola realtà una conferma. Il pubblico e il privato finalmente vengono considerati complementari. A testimonianza di questa svolta basterebbe scorrere i diversi documenti ufficiali del Dipartimento competente (i messaggi che accompagnano le nuove leggi e linee direttive) per notare, appunto attorno a quegli anni, un nuovo linguaggio e un'apertura nuova nei confronti del riconoscimento del privato sociale. Un privato sociale che allora, sollecitato dai bisogni e in certe occasioni dallo stesso dipartimento (vedi per esempio l'organizzazione delle Antenne per i tossicodipendenti) ha saputo dare delle risposte attraverso la costituzione di numerose opere. Un elenco dettagliato delle moltissime aggregazioni presenti in Ticino farebbe entrare il nostro Cantone nei Guinness dell'associazionismo sociale. Mi permetto di indicare un dato, anche per sottolineare che il 1994 è l'anno internazionale dedicato alla famiglia. Oggi circa 50 associazioni o servizi si occupano direttamente di aspetti legati alla famiglia. Un'esplosione di realtà a conferma del pluralismo presente in Ticino? Lo si potrebbe pensare. Comunque, come del resto quasi tutto il privato sociale anche queste espressioni di sostegno e aiuto alla famiglia beneficiano in larghissima misura dei sussidi cantonali. Ed è forse partendo da queste considerazioni e dalla cifra di circa 460 milioni di sussidi (moltissimi dei quali destinati ad attività istituzionali e ad attività territoriali) che si apre un interessante dibattito.
È corretto parlare oggi di privato sociale, di "terzo settore" (come espressione dell'iniziativa non statale, al servizio di tutti) quando quasi tutte le espressioni di solidarietà presenti sul territorio possono operare perché beneficiano di sussidi? Senza questo riconoscimento e senza il sussidio elargito in base alle diverse leggi, moltissime associazioni e moltissimi servizi dovrebbero pensare ad un ridimensionamento drastico delle loro attività. Il principio della sussidiarietà, caro alla dottrina sociale della Chiesa, affermato con vigore nell'enciclica "Rerum Novarum" di Leone XIII nel 1891 e ripreso più in esteso nell'en ciclica "Quadragesimo anno" di Pio XI del 1931, ha trovato e trova una sua applicazione nella concezione di politica sociale presente in Ticino? Una prima risposta, anche data in maniera frettolosa, ci fa dire di sì. Infatti, tutte le leggi sociali elaborate in questi trent'anni e oltre affermano il ruolo sussidiario dello Stato rispetto alla società e ai soggetti presenti nella società. L'associazionismo sociale, così numeroso, testimonia questo dinamismo presente nella nostra società. Poniamo allora una seconda domanda: ma in fondo, in che misura un servizio o un' opera voluta dall'iniziativa privata, ma aiutata finanziariamente dallo Stato, può esser considerata ancora emanazione dell'iniziativa privata e non un servizio parastatale? La dipendenza economica incide anche sulla specificità e sull'identità di un' opera? Domande poste da parecchie istituzioni in questi anni e che esigono una risposta soprattutto se si vuole guardare al futuro ripensando a nuovi modelli di welfare. Ad iniziare questa riflessione sono proprio state quelle istituzioni che beneficiano, grazie a un correttivo apportato nel l975 alla Legge protezione maternità infanzia, della copertura totale del deficit d'esercizio. Queste strutture, e le altre nello stesso modo, in che misura possono definirsi emanazione del privato sociale quando quasi tutto il finanziamento a livello di investimento e di gestione viene dal pubblico? Più corretto sarebbe parlare di privato sociale sussidiato e di limitare a poche opere presenti nel territorio il diritto di definirsi privato sociale tout court. Ma è giusta questa distinzione che sembra entrare nel linguaggio di chi si occupa di sociale? Qual è la domanda che il privato sociale, tutto il privato sociale da quello cattolico, che ha trovato la sua fioritura maggiore prima degli anni 60, a quello nato soprattutto negli ultimi decenni deve porsi? È questa dipendenza finanziaria che non permette al privato sociale di definirsi tale, o la causa va ricercata altrove ad esempio per le opere di matrice cattolica nella perdita di identità e per le altre opere nel ruolo ibrido di un semi privato pubblico assunto nel corso degli anni senza grosse differenziazioni tra di loro? La crisi economica presente nella nostra società e le riflessioni che ne derivano ci fanno guardare al sociale con la coscienza che in questi anni si è assistito a un aumento della spesa sociale mai vissuto negli anni addietro. D'altra parte, l'aumento della spesa sociali avvenuto in questi ultimi 5 anni (1987: 260 milioni 1992: 460 milioni) difficilmente potrà continuare con la stessa velocità. In questi decenni "l'asticella" della socialità è stata posta. Negli anni futuri, quello che farà crescere i costi della socialità sarà un aumento quantitativo all'interno di una stessa categoria (anziani disoccupati tossicodipendenti) più che un sostanziale miglioramento finanziario a favore del singolo. Nei prossimi anni invece assisteremo a dei profondi cambiamenti nei modelli di welfare. Per il privato sociale si tratta di sceglie re: o rimanere dietro le quinte o assumere con maggior determinazione il nuovo ruolo che la storia gli sta offrendo e cioè di essere complementare al pubblico e quindi maggiormente capace di pensare, proporre e dialogare.
1. Essere capace di autocritica Il rischio corso, in questi decenni, di espansione quantitativa e qualitativa del sociale è stato quello di creare delle forme di semi pubblico privato più preoccupate di gestire il proprio servizio e la propria struttura che di guardare all'insieme delle politiche sociali. Il privato sociale non è stato un interlocutore serio dell'intervento pubblico. I numerosi operatori sociali con formazione presenti nel privato sociale, raramente hanno fatto sentire la loro voce per incidere nelle scelte di politica sociale. Forse che la sicurezza finanziaria acquisita durante gli anni di crescita dello Stato sociale, abbia fatto venir meno quella creatività che invece troviamo nelle espressioni che hanno accompagnato i pionieri dell'azione sociale e quella genialità che teneva desto il perché del proprio agire e che permetteva alle diverse associazioni di porsi come dei soggetti vivi all'interno della società. La carta geografica della socialità in Ticino ci dimostra come in tutti i settori la presenza del privato sociale è grande. Dalla protezione della famiglia, all'infanzia, alla gioventù, alla persona con diverse dipendenze, alla protezione della persona andicappata, della persona invalida, della persona anziana, la rete di offerte e di servizi è ricca. Molte di queste offerte appartengono al privato sociale. Ma, al di là di una quantificazione di ciò che può essere definito appartenente all'intervento pubblico o privato, quello che appare agli occhi di chi si situa all'interno del "mondo sociale" non è una cartina della socialità a tinte forti bensì a tinte pastello. Il privato sociale sembra essere imprigionato in una serie di lacci che non gli permettono di incidere maggiormente nelle scelte di politiche sociali che si stanno operando nel Paese. 2. Essere capace di un nuovo patto sociale La situazione di profondi mutamenti nella quale ci troviamo, la presenza nella nostra società di nuove forme di povertà (15% della popolazione vive al disotto della soglia della povertà), la scoperta di una disoccupazione strutturale, di nuove forme di dipendenza, il forte aumento di persone ultraottantenni, chiedono con forza un nuovo patto sociale tra i diversi partner. Tutti, e soprattutto chi in questi decenni ha assunto delle responsabilità nelle diverse politiche sociali, sono chiamati a mettere in comune le proprie idee per trovare soluzioni ai problemi complessi. Gli attori sulla scena sono parecchi, prima fra tutti la famiglia con la sua rete primaria. Mai come in questi ultimi anni la famiglia ha ripreso quota e importanza. Chi la voleva emarginare dalle politiche sociali, o chi semplicemente non le ha dato un posto nelle leggi sociali sta correggendo la sua posizione. Tutti, con motivazioni diverse, chiedono con forza alla famiglia di assumere un ruolo più dinamico nella soluzioni di problemi sociali. "La famiglia soggetto della politica sociale", un'affermazione che oggi sembra essere scontata, ma che solo qualche anno fa suonava male alle orecchie di molti. Non è importante sapere a quale modello di famiglia si fa riferimento: si tratta di riconoscere il ruolo della famiglia nella sua funzione sociale, nella sua capacità di "produrre solidarietà". Ma oltre alla famiglia ci sono altri attori del privato sociale: le associazioni, i gruppi, organizzati e non, presenti nel territorio. Questa ricchezza di risorse umane, oltre al bisogno di esser maggiormente conosciuta, è chiamata anch'essa ad assumere nuove responsabilità nei confronti di questo patto sociale. Gli stessi utenti dei servizi, fruitori dei diritti sociali acquisiti in questi decenni, devono essere chiamati ad assumere un ruolo più attivo. Il diritto alla prestazione deve essere accompagnato da un dovere di solidarietà. Il disoccupato, l'anziano e via via tutte le altre categorie di persone che beneficiano di prestazioni, in misura diversa e nel rispetto della loro libertà, dovranno essere confrontate con il dovere di partecipare alla vita pubblica e con il dovere di offrire solidarietà. Altri attori, quelli legati al settore del mercato (imprenditori, sindacati, servizi) e quelli appartenenti più alla sfera dello Stato sono chiamati anch'essi ad assumere un ruolo più dinamico. All'interno di questo nuovo patto sociale, tutti, quindi anche il privato sociale con la sua forza e le sue carenze, dovranno contribuire a trovare soluzioni concrete alle richieste che emergono con insistenza dalla società. 3. Essere maggiormente complementare Questa complementarità, tra azione privata e pubblica, anche se ha avuto bisogno di parecchio tempo per essere compresa, oggi deve assumere un ruolo ancora più determinante. Questo ulteriore salto di qualità richiede da parte di tutti una capacità a lasciarsi mettere in discussione. Molti aspetti del lavoro sociale possono essere migliorati e, in questo momento di ripensamento di alcune politiche sociali diventa importante aprire un dibattito con tutti i soggetti sociali presenti e attivi nella società civile. Un dibattito che sappia, da una parte indicare i limiti del nostro lavoro sociale e, dall'altra, guardare al futuro con nuove idee.
• La prima riflessione tocca la sfera della persona e del bisogno: il rischio che ha accompagnato il lavoro sociale è stato quello della settorializzazione della persona, una concezione del lavoro sociale che ha posto e pone soprattutto l'accento sul bisogno non permettendo di incontrare la persona nella sua integralità • È chiaro che questo modo di porsi è stato dettato anche da un tipo di formazione proposta durante questi ultimi decenni. Infatti, la stessa formazione degli operatori sociali, o di chi generalmente si occupa di sociale, comprendente più di un centinaio di professioni, non fa che accentuare una parcellizzazione della persona • La stessa frammentazione presente nella società si è rispecchiata e si rispecchia sia nel modo di concepire i servizi che nel modo di offrire le prestazioni • La presenza di molte associazioni e molti servizi non è riuscita ad incidere nella società civile, così da renderla maggiormente capace di solidarietà • La società civile non ha saputo seguire i ritmi dello sviluppo delle politiche sociali; lo sviluppo delle politiche sociali non ha permesso alla società civile di crescere in ugual misura • La dipendenza economica del privato sociale dallo Stato ha mortificato una certa creatività. • Il privato sociale non ha saputo concepirsi quale forza culturale indipendente dalla concezione statalista del lavoro sociale. I tentativi per un confronto più dinamico tra le diverse forze del privato sociale non hanno portato a momenti particolarmente costruttivi.
• La presenza del privato sociale è determinante, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo. Senza la moltitudine delle opere del privato sociale lo Stato sociale ticinese non esisterebbe. È anche vero che senza il finanziamento dello Stato le stesse opere non potrebbero più (sicuramente per la maggior parte di esse) mantenere l'asticella della qualità delle prestazioni dove oggi è posta. La complementarità tra privato e pubblico è quindi un dato di fatto oggettivo e positivo. Al privato sociale tocca saper gestire questa nuova coscienza con maggior determinazione. • Il privato sociale (soprattutto quello di matrice cattolica) potrebbe essere ancora più incisivo se l'origine del suo mandato fosse maggiormente esplicita, se oltre all'essere operativi ed efficaci ci fosse una maggior attenzione nei confronti della propria identità. • Molte espressioni del privato sociale sentono la necessità di compiere una valutazione del proprio lavoro per meglio capire lo spazio entro il quale muoversi. • Risulta essere determinante per ogni servizio disporre dell'elasticità per lasciarsi mettere in discussione. I mutamenti in atto nella nostra società richiedono questo lavoro. La presenza di bisogni sempre più complessi esige strategie nuove; soprattutto strategie che sappiano incidere là dove il bisogno emerge. • Il volontariato, espressione del privato sociale dovrebbe essere maggiormente riconosciuto e valorizzato nella sua capacità di produrre solidarietà. • Il rapporto di fiducia costruito in questi anni con le autorità competenti dovrebbe portare il privato sociale a considerare nuove forme di finanziamento, non più legate a sistemi di controllo attraverso preventivo e consuntivo, ma attraverso dei centri costo dei crediti quadro gestibili direttamente dai responsabili delle strutture e servizi. (per esempio: oggi un istituto privato sussidiato per qualsiasi tipo di acquisto, per qualsiasi cambiamento a livello d' organico deve confrontarsi con i rappresentanti dello Stato; una nuova concezione del sussidia mento permetterebbe all'istituto privato di gestire il suo credito quadro e in sede di consultivo di rendere conto del suo operato). Questo diverso modo di sussidiare permetterebbe all'opera di essere maggiormente creativa ed efficace. Inoltre il rapporto tra costi e benefici potrebbe essere migliorato e le diverse istituzioni si porrebbero in una sana concorrenzialità; questo non farebbe che aumentare la qualità del servizio e delle cure. Ma soprattutto al privato sociale è chiesto di diventare un soggetto più attivo, capace di pensare e di proporre soluzioni ai diversi problemi della nostra società, senza delegare al solo Stato il compito di pensare, pianificare e realizzare.
In queste pagine si desidera lanciare un dibattito, soprattutto con il privato sociale che si può riconoscere in alcuni dei giudizi espressi. Questo libro, suddiviso in due parti, l'una più storica e l'altra rivolta al futuro, ci è sembrato l'occasione giusta. Crediamo infatti che il momento che stiamo vivendo "di rimescolamento delle carte" chiede al privato sociale uno sforzo nuovo. A metà degli anni 80 la crisi dello Stato sociale ha risvegliato anche il privato sociale. Le critiche mosse allo Stato sociale erano indirettamente rivolte anche alla società civile, al privato sociale. Se lo Stato sociale ha invaso troppi spazi lo si deve in parte al fatto che la società civile non ha saputo occuparli; se lo Stato sociale ha accentrato troppo su di se, è perché chi poteva porre dei freni non ha avuto la forza culturale per farlo. Alcuni anni sono passati. Lo Stato sociale sta ripensando nuove strategie, sta elaborando nuove leggi ( sugli assegni familiari, per il mantenimento a domicilio delle persone, di sussidiamento delle attività giovanili), sta pianificando e programmando nuovi interventi. Al privato sociale non è più concesso di perdere il treno. Cogliere questa occasione vuole dire concretamente lavorare per far sì che la complementarietà non rimanga solo nei ruoli, ma sfoci in confronti metodologici e di contenuto. È come se dovessimo credere, noi per primi, noi che lavoriamo nel privato sociale che guardare al futuro vuol dire ripensare a modelli di welfare, in cui il concetto di Stato deve assumere un ruolo maggiormente societario e dove i diversi attori, quelli più legati al vecchio modello di Stato sociale o quelli nuovi, più legati alla società, sappiano interagire maggiormente e produrre una diversa sinergia. Senza queste premesse è difficile credere che un nuovo patto sociale possa essere concluso tra chi, nei prossimi anni, sarà chiamato ad assumere un ruolo attivo per rispondere ai problemi nuovi di questa nostra società sempre più complessa. Mimi Lepori Bonetti, lic. s. soc. all'Università
di Friburgo, collaboratrice di Caritas Ticino dal 1977, deputata in Gran Consiglio
dal 1983, membro del gruppo di esperti del Fondo Nazionale per il programma
32 "Anziani", Consigliera Nazionale dal 1993. Sposata con Daniele
Bonetti e madre di Ilaria e Eugenio. di Roby Noris Premessa Senza pretese di ordine storico, anche perché l'attualità non è ancora storia, vorrei riprendere da un'altra angolazione il passato decennio e quello attuale di Caritas Ticino. Per quanto riguarda la descrizione dei diversi servizi e della loro evoluzione in questi anni, rimando a tutta la documentazione che i bollettini di informazione, i rapporti annuali e la rassegna stampa riportano con dovizia di particolari. La preoccupazione qui non è quella descrittiva. Gli anni ottanta sono segnati da importanti cambiamenti di ordine metodologico che hanno aperto una nuova era di Caritas Ticino che si può situare negli anni novanta che stiamo vivendo. La collocazione delle due fasi evidentemente non è così netta, ma permette una migliore comprensione del processo di evoluzione; molti aspetti dell'impegno di Caritas sono infatti ancora in piena transizione mentre altri già da anni sono entrati in una nuova fase. Difficile dire se quella che ci appare oggi come la nuova prospettiva, o la nuova immagine "anni novanta", troverà una sua configurazione stabile per molti anni, ma certamente un cambiamento abbastanza radicale sta avvenendo. Numerosi fattori potrebbero determinare anche repentini cambiamenti di rotta. I processi di evoluzione ma anche quelli di involuzione sono più veloci di un tempo, e nonostante la struttura più ampia e imponente del passato e la posizione acquisita nel contesto sociale cantonale, Caritas Ticino vive una precarietà costante, direi strutturale, dovuta ai numerosi fattori non controllabili. I mezzi finanziari, ad esempio, che determinano fortemente le possibilità di presenza, sono condizionati dall'immagine che la gente si fa di Caritas. L'immagine però dipende solo parzialmente dalla nostra capacità e determinazione nel promuoverla, perché numerosi fattori non controllabili giocano un ruolo importante: il momento "storico", fatti contingenti, avvenimenti deformati o strumentalizzati dai mass media, paure e semplificazioni indebite della realtà e dei problemi sociali da parte della gente che poi decide il sostegno o meno dell'organizzazione, una forte recessione e l'esplodere di nuove povertà, ad esempio, potrebbero far impennare le richieste di aiuto e diminuire drasticamente i mezzi finanziari a disposizione. Quindi, pur tenendo conto di questa situazione aleatoria, e senza voler ipotecare l'immagine, la struttura e tutto il futuro di Caritas Ticino, credo sia comunque opportuno cercare di cogliere i segni del cambiamento e i fatti che attestano questo cambiamento. La preoccupazione è quella di evidenziare in modo critico, per quanto mi sia possibile, la ricchezza delle diverse espressioni di carità, di cui Caritas deve essere la "forma istituzionalizzata per attivare questa virtù teologale", come afferma il nostro Vescovo Mons. Eugenio Corecco in queste pagine. Questa ricchezza è ciò che ridimensiona le difficoltà e le incertezze relative al futuro; Caritas Ticino potrebbe infatti anche chiudere tutti i suoi servizi e le sue strutture, ma continuerebbe ad essere l'espressione del servizio, della "diaconia" della chiesa: Caritas non ha il compito di eliminare la povertà anche se la sua attività a volte ottiene dei risultati in questo senso ma quello di promuovere la carità evangelica, e questo è possibile e doveroso anche quando si fosse privati di ogni mezzo materiale. Ma siccome "la carità e la solidarietà sono termini distinti ma relazionati", come dice Pierpaolo Donati nel suo contributo al convegno di Caritas, e "la solidarietà è l'aspetto sociale della virtù della carità", allora la funzione di Caritas non è ristretta all'ambito dei credenti, perché sul piano della solidarietà c'è una convergenza e una possibilità di dialogo anche con chi non ha come punti di riferimento il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa ma parte dal rispetto dei diritti della persona umana.
1.1. La cura dell'immagine L'idea stessa di marketing applicato a un organismo ecclesiale che deve promuovere la carità evangelica, sembra quasi sacrilega, eppure si è fatta sempre più strada nell'ultimo decennio per acquistare finalmente cittadinanza a pieno diritto nel quadro delle prospettive di sviluppo di Caritas Ticino. In breve si è trattato di prendere atto del fatto che anche in campo socio caritativo finiva l'epoca della credibilità affidata a quello che si è e si fa, alle caratteristiche intrinseche e date per scontate; si è entrati in pieno nell'era della comunicazione di massa dove è d'obbligo convincere la gente, attraverso i mezzi di comunicazione, che quello che si è e si fa è una cosa meritevole di essere sostenuta, non per un valore acquisito per sempre ma perché si rende ragione continuamente del proprio operato attraverso la costruzione di un'immagine credibile. Non è possibile barare a lungo nella comunicazione vendendo un'immagine falsa, quindi ciò che conta rimarrà fortunatamente sempre la sostanza delle cose che si realizzano e non gli artifici della comunicazione che si possono adoperare per promuovere un'immagine. Ma a partire da ciò che un organismo è veramente, si deve mettere in atto un sistema di marketing analogo a quello commerciale: noi dobbiamo proporre idee e solidarietà al posto dei prodotti commerciali, ma se non riusciamo a convincere e rendere ragione di ciò che facciamo o vogliamo fare, non avremo l'appoggio e i mezzi necessari, alla stessa stregua di una ditta commerciale che se non conquista il mercato con i suoi prodotti, fallisce. Vale per tutte le organizzazioni, indipendentemente dalla credibilità acquisita nel passato, perché in poco tempo ci si dimentica facilmente di un prodotto per interessarsi di un altro: l'immagine non vive a lungo di rendita. Caritas Ticino deve in buona parte anche a questa intuizione lo sviluppo di questi anni: si è riusciti attraverso una comunicazione abbastanza aggressiva a far passare l'idea di Caritas quale organismo professionale, interlocutore affidabile del pubblico e del privato; l'immagine stereotipata legata alle raccolte di vestiti o ai pacchi per i poveri ha lasciato il posto a quella di organismo che si occupa dell'accoglienza di stranieri e in particolare di rifugiati con strutture e azioni importanti. Infine anche questa immagine è stata sostituita da quella più recente di organizzazione che si occupa delle nuove povertà e in particolare dei disoccupati più ai margini. Ma l'immagine, almeno in una certa misura, si può determinarla con una promozione opportuna. In effetti abbiamo voluto liberarci dell'immagine riduttiva di organismo che si occupava solo di rifugiati, per evidenziare l'impegno in situazioni di povertà di più ampio respiro, come la disoccupazione di lunga durata in continua espansione: un'immagine più accettabile e comprensibile, perché meglio corrispondente alle sfide della povertà che preoccupano la gente nella situazione attuale. È stata una scelta di accenti e sottolineature che si è deciso di dare al momento giusto, tenendo conto dei diversi mezzi di comunicazione e delle grandi differenze di impatto: i media elettronici hanno un'efficacia straordinaria per una promozione a tutto campo, ma la stampa è un complemento fondamentale per l'approfondimento, e ogni spazio va utilizzato al meglio partendo dall'idea che il pubblico ha bisogno di capire e di sentirsi coinvolto in modo attivo, intelligente e utile.
La promozione della carità attraverso i media va fatta utilizzando linguaggi, codici e leggi della comunicazione che non differiscono molto da quelli usati per la pubblicità commerciale, se non negli obiettivi: il buon uso di una lingua o di un linguaggio, la trasparenza e la semplicità del messaggio sono condizioni per riuscire a comunicare, indipendentemente dall'oggetto della comunicazione, che può essere un prodotto da vendere o un'idea di solidarietà da promuovere. Inutile scandalizzarsi, e comunque non vi è alcuna alternativa: in una società tecnologica basata sulla comunicazione non si può pretendere di raggiungere in modo significativo migliaia di persone senza sottostare a regole precise, dettate dalle tecniche della comunicazione di massa. L'animazione e la sensibilizzazione della comunità, la pastorale della carità passa anche attraverso l'impatto e la presenza che abbiamo attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Un esempio significativo, da cui possiamo trarre alcune indicazioni per un concetto di comunicazione per il futuro, è l'azione di sostegno alle donne violentate nei campi della Bosnia: l'azione "Vrapce: una casa per un bambino". In dieci mesi, in Ticino, Caritas Ticino ha raccolto 350'000. Fr. con cui è stato possibile comperare due case di accoglienza in Croazia, dandole in gestione a Caritas Zagabria. Si è inoltre promosso una forma di padrinato per centinaia di bambini vittime della guerra. Per il Canton Ticino la cifra raccolta è enorme e fuori dall'ordinario, considerato il genere di colletta. Nel successo straordinario dell'iniziativa credo abbiano giocato diversi fattori combinati fra loro. Il primo è legato al tipo di messaggio che è stato presentato, soprattutto dalla televisione, in modo lineare, semplice e coinvolgente: la violenza sulle donne e bambine, finalizzata a un progetto di epurazione etnica, è stato infatti ampiamente descritto dai media utilizzando testimonianze che hanno fatto scattare un forte coinvolgimento emotivo, facendo leva sul meccanismo di identificazione con le vittime e con i loro famigliari: in quelle vittime abbiamo tutti visto un po' le nostre mogli e le nostre figlie. I momenti di preghiera promossi dal Vescovo hanno favorito un coinvolgimento più profondo in particolare della comunità cattolica, che si è sentita vicina al dramma umano di queste persone e ha voluto esprimere la condivisione anche con un gesto di accoglienza: da qui l'origine dell'azione di Caritas Ticino che si è sviluppata in un clima quindi favorevole, anche col sostegno di moltissimi non cattolici entrati senza difficoltà in piena sintonia, sul piano della solidarietà immediata. Ma vi è un altro fattore importantissimo che ha fatto scattare l'adesione di un migliaio di persone all'azione di Caritas Ticino. La proposta di aiuto, oltre ad essere semplice, era anche credibile: infatti i due anni di attività, ampiamente pubblicizzati, a favore delle vittime della guerra in ex Jugoslavia, con l'invio di sessanta camion con 600 tonnellate di aiuti dal Ticino a fine '92, hanno preparato il terreno all'azione "Vrapce". Ma il massimo dei consensi si è certamente avuto quando la televisione ha mostrato le immagini dell'inaugurazione della prima casa a Zagabria, solo qualche mese dopo aver lanciato l'azione. Di fronte a un dramma di grande portata, ciò che è quasi inaccettabile è l'impotenza e una proposta che permetta in qualche modo di sentirsi utili in brevissimo tempo per diminuire un po' la sofferenza, raccoglie l'adesione di tutti. Per l'apertura della seconda casa a Samobor cinque mesi dopo, Caritas Ticino ha organizzato un viaggio a Zagabria con dieci giornalisti di tutta la Svizzera, ottenendo così nuovi spazi alla televisione, alla radio e sui giornali, con una copertura mai vista prima una pagina intera su tre quotidiani ticinesi e mezza pagina su diversi giornali di punta d'oltre Gottardo . Grazie anche a queste "astuzie promozionali" l'attenzione per l'iniziativa continua, senza smorzarsi dopo la primissima emozione come spesso succede. Evidentemente ciò che conta è la sostanza e la continuità dell'azione di solidarietà nei confronti di donne e bambini, e non tanto la pubblicità che si è riusciti a fare: ma senza la cura dell'immagine di questa azione non ci sarebbe stata probabilmente la seconda casa a Samobor e forse nemmeno la prima a Vrapce. Purtroppo è molto difficile ricreare le condizioni favorevoli che hanno determinato il successo di una azione e quindi si devono continuamente immaginare nuove forme di promozione che possono anche fallire completamente. Le regole generali della comunicazione garantiscono solo l'impostazione corretta di partenza, che oggi è una condizione irrinunciabile, ma i risultati ottenibili sono determinati anche da molti altri fattori completamente indipendenti dalle strategie promozionali. Conduzione manageriale e cura dell'immagine sono diventati ingredienti importanti dell'impostazione generale dell'attività di Caritas Ticino, al fine di essere concorrenziale ed emergere in un mercato della comunicazione spesso saturo di messaggi che dovrebbero promuovere forme di solidarietà che cadono invece nel vuoto. In questo senso vanno compresi gli sforzi per aprire sempre più nuovi spazi nei diversi media, per curare tutto il materiale promozionale pubblicitario e per sviluppare sempre più anche mezzi di comunicazione gestiti in proprio come ad esempio: il bollettino di informazione trasformato nel '94 in rivista, i filmati video realizzati secondo standard professionali per la TSI o usati per l'animazione, e domani chissà, forse una radio privata Caritas. Va precisato che, nonostante sembri quasi impossibile, si può realizzare un tipo di comunicazione con mezzi competitivi e professionali, ma con costi bassissimi se si dispone di una certa infrastruttura tecnica adeguata, anche se ridotta all'essenziale, di amici e volontari professionisti nella comunicazione giornalisti, tecnici audio e video, informatici , e una dose sufficiente di idealismo e di determinazione. Lo Spot video di 5 minuti, realizzato per il cinquantesimo di Caritas Ticino sul tema "povertà relativa che viene negata e bisogno di solidarietà",con attori non professionisti e tecnici volontari in un ufficio di Caritas trasformato per una settimana in studio televisivo, e montato con le nostre attrezzature, è costato poche migliaia di franchi, ma è stato visto da migliaia di persone alla televisione ticinese, è servito per l'animazione dello stand Caritas a Primexpo '92, e persino durante un convegno di sacerdoti organizzato da Caritas Bucarest. L'ultima scommessa è questo libro scritto e completamente impaginato elettronicamente "in casa". Caritas Ticino ha operato una scelta che, visti i risultati positivi, si riconferma. Ma non avrebbe potuto essere altrimenti.
2.1. Un modello rimesso in discussione Lo sviluppo del servizio sociale polivalente sempre più dotato di strumenti professionali di intervento assistenti sociali e denaro per aiutare le persone nel bisogno, sussidi alla casistica è ciò che caratterizza meglio lo sviluppo di Caritas fino agli anni settanta. Pur continuando ad essere il servizio che definisce anche negli anni successivi Caritas Ticino, almeno nell'immagine che molte persone continueranno ad avere dell'organizzazione, ad esso si affiancano nuove forme di intervento a cui in parte accenneremo successivamente anche in questa sede. Il fatto nuovo e più significativo però è che, senza che nessuno se ne rendesse conto, nel 1980 in Caritas si innestava un lento ma inesorabile processo di rimessa in discussione radicale del modello di intervento, che i servizi sociali avevano concepito fino allora unicamente come intervento individualizzato la casistica individualizzata, i dossier dell'assistente sociale. Questa "scuola" partiva da uno dei punti nodali, un concetto base, dello sviluppo dei servizi sociali durante la piena espansione dello stato sociale con la sua illusione totalizzante: l'efficacia dell'intervento sociale è proporzionale all'investimento specialistico, che prevede una presa a carico risolutiva della persona che manifesta un bisogno. Ma il bisogno più profondo di una persona che vive una forma di disagio grave, di povertà, ad esempio in termini economici, è fondamentalmente il bisogno di essere accolto nel suo ambito di vita, il bisogno di senso della propria esistenza, il bisogno di "cittadinanza" in una società che emargina la diversità. Anche se raramente questa richiesta si manifesta in termini così espliciti. A questo bisogno più profondo, in assenza di un contesto naturale di accoglienza, l'intervento individualizzato risponde con soluzioni palliative, caratterizzate inevitabilmente da moralismi e paternalismi che in definitiva deresponsabilizzano la persona bisognosa. Non è un problema di capacità, di professionalità e di mezzi, ma di una scelta determinante di ordine prettamente metodologico. Una scelta che parte dalla convinzione di poter "risolvere" i problemi dell'utente prendendolo a carico completamente: una sorta di presunta "onnipotenza" di fronte alla povertà. È questo un modello di intervento sociale ritenuto vincente per decenni in tutte le società avanzate, che stenta ad essere abbandonato anche se la ricerca teorica e le verifiche sul terreno l'hanno sconfessato da un pezzo. Ed è ciò che in modo macroscopico si è prodotto con lo svilupparsi del welfare state, con la sua pretesa totalizzante e la sua crisi successiva. Per quanto riguarda la storia della nostra piccola Caritas, questa concezione dell'intervento sociale ha cominciato a incrinarsi con l'arrivo, in Svizzera, delle migliaia di profughi vietnamiti e con l'azione di accoglienza realizzatasi anche in Ticino con un'imponente struttura di volontariato, animata e affiancata dai servizi professionali di Caritas. Si è incrinato un modello di intervento individualizzato e si sono messe le basi per una concezione di intervento di "rete" vicino all'idea di sviluppo comunitario che oggi si sta piano piano cercando di realizzare attraverso esperienze diverse di sostegno e di accoglienza. Pur nella difficoltà di un'attuazione pratica su larga scala di queste intuizioni, che potrebbero anche non realizzarsi mai completamente, rimane la certezza che si sia aperta la strada verso modelli di intervento improntati maggiormente all'accoglienza della persona nella sua globalità, che non alla risoluzione di problemi contingenti, per quanto drammatici possano apparire. In questo senso è difficile immaginare di retrocedere e credo si possa ritenere acquisito il passo fatto in questo decennio.
L'azione IND (da Indocinesi) è consistita nell'accoglienza, in Svizzera, di migliaia di profughi del Sud Est asiatico all'inizio degli anni ottanta, utilizzando un modello combinato di intervento da parte di strutture professionali come Caritas e di migliaia di persone non professioniste che a titolo volontario hanno formato dei "gruppi di accoglienza". La proposta non era il frutto di un'analisi e di una scelta metodologica approfondita ma il risultato di due condizioni particolari: migliaia di profughi, accolti assieme con la prospettiva di rimanere definitivamente in Svizzera, richiedevano una infrastruttura imponente di cui le organizzazioni umanitarie non disponevano in quel momento; secondariamente, la sensibilizzazione a tappeto operata soprattutto dai media elettronici, che ogni giorno portavano in tutte le case le immagini drammatiche dell'esodo dei Boat people, aveva preparato le condizioni perché scattasse un movimento enorme di solidarietà. È solo a posteriori che ci si è resi conto della valenza metodologica di questa esperienza, che anche in Ticino aveva coinvolto in modo diretto duecento volontari suddivisi in 18 gruppi di accoglienza, oltre a un numero difficilmente calcolabile di persone mobilitatesi intorno a questo movimento di volontari più strutturato. In definitiva si è potuto sperimentare, in condizioni uniche e forse irripetibili su larga scala, la complementarietà fra l'intervento tecnico professionale e la capacità di accoglienza della comunità: da una parte, gli operatori sociali e gli specialisti che mettevano a disposizione competenza e infrastrutture tecniche, e dall'altra, la comunità rappresentata dai gruppi di accoglienza e da tutto quell'ambito comunitario che li ha circondati, partecipando in misura diversa all'esperienza. Se la comunità non esiste o è "momentaneamente" assente non ci sono palliativi tecnico professionali, bisogna ricreare dei luoghi che, anche in embrione, vivano tutte le dinamiche dell'accoglienza di un contesto comunitario. La chiave di volta dell'azione IND sta nell'aver ricreato attraverso i gruppi di accoglienza delle micro-comunità solidali anche laddove poteva essere difficile ritrovare uno spirito comunitario generalizzato, capace di grandi aperture e di solidarietà. La comunità, spesso assente, è stata sostituita in questo caso da piccole comunità i gruppi di accoglienza che sono diventate, attorno alle famiglie vietnamite, il gruppo di quartiere, il gruppo di parrocchiani, il gruppo di vicini di casa e talvolta il gruppo di amici. Il volontario del gruppo di accoglienza non era né più bravo né più cattivo dell'assistente sociale di un servizio, ma era semplicemente al posto giusto in quanto vicino di casa, un ruolo che il migliore assistente sociale non potrà mai avere, o comunque non con tutti gli utenti del suo servizio, non fosse altro che per motivi territoriali. Il profugo, ma anche lo svizzero indebitato, disoccupato o depresso, non hanno bisogno di un palliativo dell'accoglienza nella propria comunità quella dove vivono ricreato artificialmente in un ufficio da un assistente sociale anche se fosse efficientissimo, accogliente, disponibile ed entusiasta. La persona bisognosa di aiuto necessita prima di tutto di essere accolta là dove vive, da quelle reti primarie fondamentali che dovrebbero circondarla: la famiglia, gli amici e i vicini di casa. Se questo si realizza, le difficoltà contingenti si affrontano con molte più possibilità di trovare soluzioni durature o definitive. L'azione IND in questo senso è stata un banco di prova sperimentale eccezionale, perché ci ha permesso di verificare che moltissimi problemi emersi nel processo di inserimento dei profughi vietnamiti nel nostro contesto sociale non sono esplosi con le conseguenze rovinose verificatesi in altre situazioni analoghe, semplicemente perché i gruppi di accoglienza facevano da "cuscinetto tampone" che preveniva e correggeva, attraverso l'ascolto e il sostegno diretto. I volontari, dando molto tempo alle famiglie dei profughi, soprattutto garantendo questa prossimità, permettevano un affronto meno conflittuale, appesantito ed esasperato delle difficoltà, perché i rapporti interpersonali confermavano continuamente l'idea, anche senza formularla esplicitamente, che il gruppo di accoglienza era sempre vicino e disponibile, qualunque cosa fosse capitata.
3.1. Integrazione e assimilazione Un altro aspetto metodologico importante e nuovo per Caritas, sperimentato attraverso l'azione IND una vera miniera di suggestioni per ripensare il sociale è il del tentativo di accogliere un gruppo che viveva una situazione di incontro/scontro con il nostro contesto, cercando di non considerare queste persone come entità, singole o famigliari, da accogliere secondo il modello di intervento individualizzato, ma con un tentativo di approccio in termini di integrazione del gruppo, nel rispetto delle affinità etniche e socio culturali. Non credo si possa parlare di integrazione se non come di un incontro fra popoli o gruppi che considerano positivo entrare in contatto fra loro, mettendo in comune la ricchezza del proprio bagaglio culturale. L'immagine, pur sembrando utopica, è l'unica ammissibile, anche se non è realizzabile quando manca, tutta una serie di presupposti necessari; i risultati in tempi brevi comunque non esistono. Ciononostante, anche nel nostro piccolo abbiamo cercato di dare spazio a tutto ciò che ci sembrava potesse favorire seppur minimamente il farsi strada di questo concetto di integrazione, ben distinto dall'assimilazione proposta normalmente e che consiste sostanzialmente nella perdita delle proprie radici, relegando allo stretto privato, o al folclore sterile di consumo, l'espressione della ricchezza della propria identità culturale. A scanso di equivoci, nonostante la ferma convinzione che Caritas dovrà sempre di più contribuire a far evolvere in questa direzione ogni tipo di intervento di accoglienza di chi proviene da contesti socio culturali molto diversi dal nostro, nutro poche speranze che sia possibile vedere il ben che minimo risultato in un futuro prossimo. Le esperienze fatte mi dicono che non si va mai oltre forme di assimilazione più o meno "soft", dove il modello consumistico e individualistico è sempre vincente ed accettato con disinvoltura, incoscienza e soddisfazione da tutti. E non bisogna dimenticare che questo modello mistificatorio proposto a tutte le latitudini è all'origine di molti fenomeni migratori. Il paradiso occidentale è esclusivamente materiale, e chi lascia tutto, la miseria ma anche la sua cultura e le sue radici, accetta questo scambio col benessere, presunto o effettivo che sia. Il prezzo da pagare, la perdita delle proprie radici, è molto alto, ma la posta in gioco è talmente allettante da cancellare ogni dubbio. Un proverbio vietnamita recita "Se i lampioni di Saigon avessero le gambe sarebbero tutti partiti negli Stati Uniti". In questo quadro desolante, il ruolo di Caritas in quanto diaconia della Chiesa che denuncia la perdita dei valori fondamentali per l'uomo, gli squilibri mondiali e le strutture di peccato, attraverso numerosi documenti del magistero sociale, diventa sempre più necessario come segno profetico.
La creazione del Centro ricreativo e culturale per la comunità vietnamita a Sorengo, un'esperienza particolare durata solo alcuni anni, ha permesso di verificare una modalità di approccio che, anche se difficile e talvolta impossibile da realizzare, apre prospettive ben diverse da quelle dell'intervento individualizzato. La difficoltà principale sta negli obiettivi, individuabili a corto termine nell'intervento individualizzato, ma che diventano a lunghissimo termine se l'approccio è di tipo socio culturale nei confronti di un gruppo. Un esempio: i corsi di lingua vietnamita per i bambini il sabato erano spesso disertati per motivi famigliari, come le spese settimanali o altro; era difficile far capire ai genitori quanto poi sarebbe inevitabilmente capitato in pochi anni con i figli, i quali usando sempre più l'italiano e dimenticando il vietnamita avrebbero ridotto la comunicazione in famiglia a un vocabolario poverissimo, funzionale alla sopravvivenza. Impossibile poi far capire che il mantenere la lingua dei genitori vuol dire per la seconda generazione garantirsi la possibilità di accesso alla cultura di origine che, provenendo da diecimila chilometri di distanza, rischia di essere persa per sempre. Ora, se le conseguenze di questa situazione sono gravi, talvolta molto gravi, e sarebbe auspicabile affrontarla sul nascere con una preoccupazione preventiva, purtroppo l'investimento di mezzi e energie sembra invece meno prioritario dei bisogni contingenti di ordine materiale; non si discute nemmeno l'opportunità di intervenire, su questi ultimi, dandola per scontata, mentre un lavoro finalizzato all'integrazione appare sempre come un lusso e una velleità intellettuale. E se questo valeva, nell'esempio citato, per il genitore vietnamita, valeva poi anche per il nostro sistema sociale, poco disposto e preparato ad investire in forme di intervento finalizzate all'integrazione: la necessità di questi interventi preventivi a lungo termine viene facilmente sottovalutata, perché le conseguenze di certe mancanze ed errori non sono immediatamente misurabili. D'altra parte, l'esperienza fatta ci ha convinto della necessità di ripensare ai processi di integrazione in termini preventivi, dove l'approccio apparente mente solo culturale e un po' elitario, è l'unico per tentare di limitare le conseguenze sociali dello sradicamento. Tutti gli interventi a posteriori, quando emergono manifestazioni di disadattamento, diventano palliativi fuori tempo massimo; eppure si continua ancora a concepire il lavoro sociale nei confronti di persone provenienti da società e culture agli antipodi, come lavoro individualizzato su problemi contingenti, sovente solo di ordine materiale.
4.1. La casistica si aggrava L'evoluzione del sistema sociale ha permesso gradualmente di riconsiderare il servizio sociale polivalente di Caritas Ticino, che tradizionalmente costituiva l'impegno principale, in un nuovo quadro di bisogni e di risposte possibili. Anche in Ticino, parallelamente al livello di benessere, si è sviluppato nel corso degli anni un sistema di protezione e assistenza sociale sempre più sofisticato, attraverso leggi, servizi sociali cantonali, comunali, e molte infrastrutture private a carattere socio caritativo. L'assunzione di una casistica sempre più grave e complessa per Caritas è stata inevitabile, ma è stata anche una scelta cosciente, che ha modificato lentamente la metodologia di intervento, richiedendo sempre più mezzi sofisticati e specializzati: sono diminuiti proporzionalmente i bisogni esclusivamente finanziari di piccola entità ai quali altre istanze pubbliche e private potevano rispondere, mentre sono aumentate le situazioni limite, sia di grave dissesto finanziario che sociale più in generale. Ciò che caratterizza sempre più tutti i servizi di Caritas è che siano un po' l'ultima spiaggia per persone che hanno bussato già a molte porte; ciò rende più complesso il compito da svolgere, ma certamente più consono a quell'opzione preferenziale per i più poveri che caratterizza l'intervento della chiesa.
La nuova situazione e le richieste specifiche di settori di intervento soprattutto per categorie di persone lavoratori della ex Jugoslavia, rifugiati e candidati all'asilo ha favorito lo svilupparsi di una sorta di settorializzazione interna al servizio, con forme più specializzate. Questa fase importante ha permesso di arrivare a comprendere meglio quel criterio che è diventato fondamentale ultimamente nel ripensare tutti i servizi di Caritas: non si devono sviluppare servizi che siano il doppione di altre strutture statali o private, ma solo forme di intervento che rispondano a un criterio di "specificità" della Chiesa. Cioè che siano esplicitamente legate a una forma di presenza specifica della Chiesa in un ambito determinato o di fronte ad aspetti che toccano questioni fondamentali dell'esperienza e della concezione cristiana della vita e dell'uomo. La scelta dei più diseredati e la protezione della vita, dal suo concepimento alla morte, sono alcuni criteri specifici degli interventi della Chiesa, che hanno determinato l'operatività di Caritas Ticino, ad esempio nella creazione di un programma occupazionale per le fasce di disoccupati che rischiano maggior mente l'emarginazione (vedi punto 4.4.), o lo sviluppo di un'azione di sostegno alle donne vittime della violenza sessuale in Bosnia e dei loro bambini (vedi punto 1.2.).
Anche una presenza di supplenza in situazioni di bisogno non coperte da nessuno è importante, ma va considerata transitoria se non risponde a questo criterio di "specificità". Accanto all'intervento o alla creazione di un servizio a carattere temporaneo, Caritas dovrà mettere in atto tutto ciò che può sollecitare il futuro intervento di coloro a cui questo dovrebbe competere. Nel caso di un'assenza da parte dello stato, la forma della presenza e della sollecitazione nel dibattito politico sarà quella più appropriata. Ma il ruolo di supplenza è strettamente legato ad un'altra funzione: quella di proporre strade nuove o strade che nessuno vuol percorrere. Il ruolo propositivo non va sottovalutato perché fa parte della tradizione della Chiesa che è sempre stata propositiva in campo sociale, senza necessariamente appropriarsi di una forma di presenza e di intervento che altri hanno poi ripreso.
L'esperienza del programma occupazionale per i disoccupati "Mercatino" di Lugano, che si è sviluppata dal 1988, raggiungendo dimensioni notevoli per una struttura di questo tipo a fine '93 una trentina di posti di lavoro per i disoccupati e un budget annuo di 1'600'000.- Fr. , non ha mai voluto dire che Caritas Ticino debba specializzarsi nel campo della politica del lavoro, diventando "esperta" in disoccupazione: la scelta per i più poveri ci ha portato a incontrare fasce di persone che rischiano maggiormente l'emarginazione e con queste abbiamo voluto dimostrare che vale la pena di tentare ancora qualcosa per reinserirle nel mondo del lavoro nonostante le difficoltà. Nella situazione attuale, di esplosione della disoccupazione, a maggior ragione bisogna difendere le persone che hanno più problemi da una linea di tendenza grave che serpeggia in diversi ambienti politici che considera inutile investire per chi ha grosse difficoltà: il ruolo di Caritas è diventato allora propositivo nell'affermare il diritto delle persone più in difficoltà di essere sostenute nel tentativo di reinserimento nel mercato del lavoro, dimostrando che questo investimento permette di ottenere dei risultati tangibili. Probabilmente, fra qualche anno abbandoneremo questo tipo di intervento legato alla legge disoccupazione che era pensata per un fenomeno contenuto e transitorio per concentrare gli sforzi sul fronte della disoccupazione strutturale, che sarà fonte di grosse conseguenze sociali: è una nuova sfida forse più drammatica di quella che abbiamo raccolto in questi anni e che richiederà modalità nuove di intervento. La posta in gioco è un radicale cambiamento di mentalità riguardo al concetto di lavoro salariato considerato oggi come il solo punto di riferimento per affermare il proprio diritto di cittadinanza in una società essenzialmente "mercantile". Dovremo riuscire a proporre un modello diverso, che valorizzi il potenziale di ciascuno indipendentemente dal mercato del lavoro salariato, offrendo valide opportunità di espressione delle diverse capacità finalizzate al "bene comune", un concetto caro alla dottrina sociale. Anche su questo fronte il ruolo di Caritas sarà essenzialmente propositivo e, speriamo, profetico.
Ma le conseguenze dell'applicazione del criterio della specificità hanno avuto in Caritas anche altre conseguenze importanti che, nel caso di alcuni servizi, hanno modificato completamente l'attività, senza rinnegare nulla del passato, anzi riconoscendo la validità di un compito portato avanti fino a quando questo è stato necessario: una missione compiuta. Nello svilupparsi dello stato sociale si sono visti interventi e servizi sclerotizzati in modelli anacronistici che "ricreano il bisogno" per giustifica re le ragioni della propria esistenza, perché non hanno saputo riconoscere la fine o il cambiamento della loro funzione. In Caritas, la flessibilità di molti operatori, l'adattabilità di diversi servizi e la continuità del lavoro di riflessione sulle motivazioni dell'esistenza stessa di Caritas, hanno sicuramente giocato un ruolo importante per limitare questo inevitabile pericolo di staticità: è comunque più facile creare un nuovo servizio che accettare l'idea che sia venuto il momento di chiuderlo. L'esempio di tre servizi che hanno subito recentemente importanti modifiche e una chiusura. • Il servizio per i lavoratori della ex Jugoslavia ha abbandonato la casistica a carattere esclusivamente sindacale, che si era sviluppata molto nel corso dei primi dieci anni di attività, ritenendo le strutture sindacali più idonee per occuparsi di questi aspetti specifici per i quali Caritas fornisce oggi solo un servizio di prima consulenza, mantenendo invece gli altri aspetti più propri al servizio sociale, oltre al servizio di traduzione di documenti. • Il servizio adozioni, dopo un quindicennio di attività a tutto campo, ha ristretto drasticamente la sua opera, dedicandosi solo ad adozioni di bambini "difficili", cioè già grandi o portatori di andicap. Una scelta lungamente meditata, che ha come punto di partenza l'opzione preferenziale per i più poveri, quelli che nessuno vuole. La conseguenza operativa è un cambiamento radicale di approccio e di metodo di lavoro: se per bambini piccoli e sani ci sono liste di attesa di genitori adottivi, i bambini a rischio non c'è nessuno che li aspetta. Bisogna allora fare un lavoro di promozione per trovare famiglie aperte a una forma di accoglienza all'insegna della "gratuità" più totale, sostenendole e formandole a un compito che ha dell'eroico. • Il terzo esempio è la chiusura del servizio sociale per i candidati all'asilo, alla fine del 1991, e del servizio giuridico e di procedura d'asilo, alla fine del 1992. La decisione di passare questi servizi a Soccorso Operaio Svizzero, che da anni si occupava di questi problemi in collaborazione con Caritas Ticino, è stata maturata proprio cercando di capire se quel tipo di servizi, che avevano visto uno sviluppo enorme in Caritas per un decennio, si giustificavano ancora secondo il criterio della specificità. Siamo giunti alla conclusione che, se la nostra presenza operativa con numerosi servizi sul fronte dell'asilo aveva permesso a Caritas di essere fortemente presente nel dibattito soprattutto sulla legge d'asilo e in momenti di particolare tensione, attualmente il fenomeno aveva ormai altre connotazioni e di fatto, almeno in Ticino, non vi era più gran che da dibattere. Il fenomeno dell'esplosione delle domande d'asilo legato alla legge si è fortemente ridimensionato, anche se il dramma dei movimenti migratori e della povertà in moltissimi paesi del mondo si è ulteriormente aggravato, ma questo non ha più molto a che vedere col dibattito intorno alla questione dell'asilo politico, così come era esploso a metà degli anni ottanta. La legge sull'asilo va ricondotta nei suoi argini originali di strumento giuridico specifico ad un aspetto particolare, per poi poterne migliorare l'efficacia e tentare di colmare alcune notevoli lacune. Ma questo non richiede a Caritas Ticino di continuare a gestire un apparato importante di servizi, che possono essere egregiamente gestiti da altre organizzazioni umanitarie, come Croce Rossa Svizzera e Soccorso Operaio Svizzero, presenti in Ticino con imponenti strutture nel campo dell'accoglienza dei profughi da molti anni, e che desiderano continuare questo lavoro. La seconda motivazione di questa scelta difficile è emersa quando ci si è resi conto che il lavoro sociale di questi servizi aveva assunto nel corso degli anni un carattere sempre più tecnico amministrativo, legato allo statuto particolare del candidato all'asilo: non è possibile impostare un lavoro di integrazione a lungo termine, come lo si può almeno immaginare per chi ha lo statuto di rifugiato e potrà rimanere con una prospettiva definitiva fra noi.
Se ciò che ha portato Caritas Ticino alla decisione di diminuire l'intervento nei confronti dei candidati all'asilo, mantenendo e, se in futuro fosse necessario, potenziando l'impegno con i rifugiati statutari, è una situazione contingente che ho citata qui perché esemplare di un processo di evoluzione di un servizio. Non va dimenticato un aspetto particolare sperimentato nei 15 anni di impegno sulla scena dell'asilo politico. Si tratta del rapporto con lo Stato, sia a livello cantonale che federale. Da precisare che per le questioni inerenti la politica d'asilo e solo quelle vi è un contratto con la Caritas Svizzera, che a sua volta stabilisce tutti gli accordi con la Confederazione; il nostro rapporto è invece diretto con l'autorità cantonale con la quale, nel corso degli anni, abbiamo stabilito accordi e contratti di varia natura, a seconda dei diversi momenti e compiti assunti. Ciò che mi sembra eccezionale è l'essere riusciti a lavorare in strettissima collaborazione con lo Stato, secondo un principio di sussidiarietà a noi caro, potendo mantenere in tutto e per tutto la nostra identità e autonomia. Forse le condizioni erano molto particolari, ma non conosco molti esempi di collaborazione fra pubblico e privato dove, pur avendo codificato la relazione, definendola anche nel dettaglio, il legame di tipo finanziario non abbia minimamente condizionato le forme di gestione delle diverse strutture; ma neppure abbia impedito la possibilità di opporsi al partner Stato su questioni di ordine politico con lotte importanti. Quasi paradossale è apparsa a diversi osservatori stranieri la situazione creatasi a livello di procedura d'asilo, che impegnava le organizzazioni assistenziali in un lavoro di tipo giuridico sussidiato dallo Stato, ma che spesso si risolveva in una contestazione delle posizioni e delle decisioni prese dall'autorità. D'altra parte, questa possibilità di contestare e opporsi vigorosamente a decisioni d'asilo, a ordini di espulsione, ma anche a modifiche delle strutture, proposte secondo criteri diversi dai nostri o a forme di sussidiamento dei casi seguiti o ad alcune revisioni della legge giudicate catastrofiche, non ha mai precluso la possibilità di essere considerati e rispettati quali partner a pieno titolo dalle autorità con le quali abbiamo realizzato strutture di accoglienza e servizi secondo criteri in perfetta sintonia con le nostre opzioni metodologiche. Al di là delle smarginature inevitabili e senza misconoscere momenti di forte attrito più con l'autorità federale che con quella cantonale , credo si sia sperimentato un modello quasi ideale di rapporto fra pubblico e privato, forse non riproducibile in altre situazioni, dove il settore privato diventa un partner molto critico, ma costruttivo, sulla base della sua competenza particolare, senza perdere quelle caratteristiche peculiari del privato sociale. Contrastante il paragone con altri settori, dove il privato sociale, sempre più dipendente economicamente dallo Stato, sembra aver perso la sua carica di interlocutore e partner critico per assumere una forma ibrida di semi pubblico, preoccupato più del sussidiamento delle proprie strutture che della politica sociale più in generale che rischia di diventare monocorde , come emerge anche dalla riflessione del capitolo precedente di Mimi Lepori. La situazione particolare descritta mette in evidenza comunque la preoccupazione di Caritas Ticino, espressa a più riprese negli ultimi dieci anni, di essere un interlocutore e attore della politica sociale attraverso forme proprie ad un ente diocesano che, staccato da forme partitiche, entra nel dibattito con prese di posizione o attraverso l'attività politica di collaboratori e amici su tutte quelle questioni che toccano la socialità, e in modo diretto o indiretto, i valori fondamentali proclamati e difesi dalla Chiesa.
5.1. Ristrutturazione del servizio sociale a cavallo del 50esimo Il 1992, anno del cinquantesimo, con il convegno ha segnato una tappa indubbia nella riflessione che ha portato alla ristrutturazione del servizio sociale. Sintetizzando le conclusioni operative della revisione del nostro servizio sociale, come si sono manifestate alla luce delle sollecitazioni e delle sfide che il momento attuale sta ponendo, si sono individuate tre piste principali da sviluppare nei prossimi anni verso un'immagine nuova di servizio. Un'immagine che forse troverà la sua configurazione stabile e definitiva ma che potrebbe anche mantenere per sempre questo carattere apparentemente provvisorio ma forse più dinamico in quanto è costantemente alla ricerca dell'immagine e della funzione adeguata al presente che è continuamente in evoluzione. Le tre piste individuate sono: 1) Sviluppare sempre più un servizio di prima consulenza su tutta l'area cantonale, che permetta di dare informazioni ed eventualmente un sostegno d'urgenza a chiunque, per districarsi nel dedalo delle forme di protezione sociale. Numerose forme istituzionalizzate di assistenza e di sussidiamento possono essere attivate conoscendone il funzionamento, limitando così lo spreco di risorse eccezionali, che vanno utilizzate invece solo in situazioni veramente particolari per le quali altrimenti si rischia di non avere i mezzi necessari per intervenire. Una buona consulenza limita inoltre la presa a carico di situazioni che potrebbero risolversi in modo quasi autonomo, senza diventare "casi regolari" del servizio sociale di Caritas o di altri servizi privati o cantonali. 2) Applicare sempre più rigorosamente criteri selettivi secondo una specificità che giustifichi l'intervento del servizio di Caritas, nella selezione della casistica di cui occuparsi con un intervento individualizzato quando non c'è proprio nessuna alternativa. 3) Dedicare un'attenzione particolare a tutte le forme possibili di accoglienza in "rete" che possano evitare di limitare all'intervento individualizzato, il sostegno di Caritas a chi ha bisogno. Vorrei sottolineare inoltre che sviluppare l'impegno sociale e i servizi di Caritas era decisamente più semplice qualche anno fa, quando credevamo ancora in una crescita direttamente proporzionale tra servizio sociale e risposte adeguate ai bisogni. L'unica grossa difficoltà sembrava essere quella di trovare i mezzi finanziari necessari: l'obiettivo da perseguire era quello di incrementare sempre più i mezzi per ampliare i servizi sociali, pensando così di rispondere a un numero sempre crescente di bisogni. Ma ormai è largamente dimostrato che sviluppando gli interventi e i servizi sociali che cercano di prendere a carico le persone e i loro bisogni, si ha un'efficacia che cresce solo fino ad un certo punto, poi comincia a decrescere e infine si arresta anche se i mezzi crescono a dismisura. Le nuove povertà in tutta l'Europa ne sono la prova su larga scala, ma vi sono anche dimostrazioni su piccoli scenari locali come la nostra realtà ticinese che deve accettare il suo 15% di popolazione al di sotto della soglia di povertà. Ad esempio raddoppiare in Ticino gli assistenti sociali che si occupano di casistica individuale non diminuirebbe neanche di un punto questo dato percentuale. Vi è una sorta di punto limite, oltre il quale è inutile investire in questo modo, perché la povertà non diminuisce, e aumenta solo la frustrazione di chi ha creduto di debellarla. Per Caritas, quindi, oltre alla difficoltà congenita a un organismo sociale privato di trovare sempre nuovi mezzi finanziari, si è aggiunta oggi quella di individuare le piste giuste dal profilo metodologico per rispettare il criterio della specificità dell'intervento della Chiesa, adattando i pochi mezzi disponibili a bisogni sempre più complessi. Ma tutto questo senza le "certezze" metodologiche che rassicuravano un tempo. 5.2. La persona non è un bisogno, è prima di tutto una persona Con Caritas per una comunità più accogliente" è uno slogan di Caritas Ticino che è diventato sempre più una sorta di manifesto programmatico. Ma qual è il fondamento emerso dalla nostra riflessione di questi anni che rende ragione del tentativo di reimpostare il nostro lavoro sociale come intervento articolato di una rete comunitaria capace di accogliere chi ha bisogno? Uno dei pericoli costanti nel lavoro sociale è quello di incontrare le persone che hanno bisogno di aiuto, definendole a partire dal bisogno che hanno. Si dimentica troppo spesso che un essere umano è prima di tutto una persona e che le sue difficoltà eventuali fanno parte di quelle caratteristiche particolari che costituiscono la diversità e in fondo l'unicità di ciascuno. La diversità determina le modalità di scambio e di comunicazione, può determinare un intervento di sostegno o terapeutico, ma può anche essere l'origine della scoperta di una novità nell'altra persona e di un arricchimento reciproco. Comunque, ciò che deve definire ogni essere umano in una società a misura d'uomo non può essere la diversità, lo scostarsi da una norma stabilita per convenzione o stabilita in base a un deficit verificabile, bensì la sua natura di persona che ha diritto sempre al riconoscimento della sua dignità. Voglio fare alcune considerazioni su certi meccanismi di esclusione, riferiti qui solo alla persona andicappata perché emblematica, ma valide più in generale per ogni forma di diversità, oggetto di discriminazione e di emarginazione. Quando si dice di una persona portatrice di handicap che"è un andicappato", quasi sempre, anche senza volerlo, si identifica quella persona a partire da quel deficit, da quella mancanza che sembra definirla. Quando le si dà del tu, anche se si tratta di un adulto, interpellandola con liguaggio "bambinesco", non le si sta riconoscendo la sua dignità di persona. La persona andicappata è vista come un essere a metà, asessuato e senza età. Irrilevante che si giustifichino questi atteggiamenti come tentativi di rispettare le difficoltà di comprensione o altro. Chi ha invece delle serie difficoltà siamo noi "sani" quando non sappiamo come muoverci per riconoscere fino in fondo la dignità dell'altro, qualunque difficoltà abbia. Giacomo Contri, psicoanalista, relatore al convegno del cinquantesimo di Caritas, dichiarò una volta a un auditorio di operatori socio sanitari: "anche gli andicappati vanno all'inferno". La provocazione, che inevitabilmente fece sussultare gli animi più sensibili presenti in sala, ridava a mio parere in modo magistrale, la dignità alla persona andicappata, privata da noi tutti, deliberatamente, persino del dono della libertà di sbagliare, di trasgredire, di opporsi al disegno d'amore di Dio. E su che base riteniamo di poter quantificare e magari percentualizzare la libertà di un essere umano? Forse con gli stessi criteri e parametri con i quali cerchiamo di valutare la sua possibilità di espressione e di comunicazione? Mi permetto una considerazione di ordine teologico. L'uomo può peccare contro il Padre perché voluto libero da Lui, ma un uomo da noi privato della libertà di trasgredire, è privato della sua dignità, è ridotto a un mezzo uomo: è da noi reso "orfano" di quella paternità divina che gli dà la libertà. Vale per la persona portatrice di handicap ma il meccanismo di misconoscimento della dignità altrui e i conseguenti processi di emarginazione valgono per qualunque forma di diversità, anche se si manifestano con modalità molto diverse. Quanti si rivolgono ad esempio con tono di superiorità, dando del tu, a una persona adulta se straniera, e ancor più facilmente se di un altro colore della pelle?
Le forme discriminanti possono essere molto sottili e raffinate e persino essere presenti in quelle espressioni di aiuto che caratterizzano certo assistenzialismo, con la sua pretesa di sostituirsi alla persona bisognosa, perché incapace di risolvere da sola i suoi problemi. L'obiettivo di ogni intervento professionale certo, ma vale anche per le forme non professionali di volontariato associativo che gestiscono servizi dovrebbe sempre essere quello dell'autonomia a corto, a medio o lungo termine. Teoricamente siamo sempre tutti d'accordo ma poi ognuno usa i propri parametri per definire l'autonomia degli altri, che quindi finiscono per non essere mai veramente autonomi. Da qui la cronicizzazione della casistica e quelle forme di presa a carico talvolta persino morbose "maternage" finalizzate alla gratificazione di chi ha bisogno di sentirsi "salvatore". Ma né operatori, né volontari di un servizio possono salvare veramente qualcuno: possono invece aiutare a mettere le basi per una presa a carico autonoma della persona l'utente del servizio all'interno del suo ambito sociale e comunitario, il luogo dove dovrà essere accolto per poter diventare "operatore" del proprio cambiamento, attore della propria presa a carico e del proprio salvataggio. Per questo motivo, il lavoro di sensibilizzazione, di animazione, di promozione della carità e della solidarietà nella comunità, la creazione della rete di accoglienza e di solidarietà, la formazione delle diverse espressioni di volontariato, dovrebbero diventare priorità. E non solo per Caritas. La rete di solidarietà è il complemento necessario per rendere efficace il lavoro tecnico dei diversi servizi sociali polivalenti o specialistici che siano che incontrano le urgenze e l'emergere dei bisogni nelle forme più estreme e patologiche, che richiedono l'apporto specialistico. Ed è l'unica strada.
6.1. Perché i volontari non siano più necessari “Il trionfo del volontariato scoppia quando il volontariato scompare perché non più necessario. Nel senso che la comunità è diventata una comunità responsabile". Così interviene in queste pagine mons. Giuseppe Pasini, direttore della Caritas italiana, rispondendo ad una domanda sul rapporto fra volontariato e comunità, durante la tavola rotonda del convegno di Caritas. E Pasini cita anche don Ciotti, figura carismatica, creatore del gruppo Abele di Torino, che si occupa di forme diverse di solidarietà in particolare nei confronti della realtà giovanile della tossicodipendenza: "Guai a noi se non ci considerassimo estremamente provvisori. Ecco noi dovremmo effettivamente considerarci indovinati nel momento in cui possiamo scomparire perché siamo riusciti a costruire una società solidale". In sintonia profonda con queste affermazioni, un nostro intervento di tre anni fa sul volontariato analogamente diceva "L'obiettivo di ogni forma di volontariato dovrebbe essere quello di costruire una comunità più accogliente, dove non siano più necessari i volontari ma dove tutti siano volontari". La verità di queste affermazioni, che sembrano forse troppo idealiste e sognanti, ha comunque una sua possibilità di realizzarsi anche se in modo limitato e parziale, quando microprogetti e micro-realizzazioni riescono a dimostrare che si possono porre gesti di carità che diventano indicatori e segni di speranza per tutta la comunità. È la forza dirompente della Chiesa, che è sempre attuale nella sua lettura socio politica, sia quando affronta gli squilibri mondiali, sia quando invita a far comunità coi vicini di casa, con la gente del quartiere. Non ci possono essere altri a cui delegare la carità in una comunità cristiana che può essere considerata tale solo se vive e realizza la dimensione della carità: carità come "annuncio" e non "filantropia", carità come strumento pastorale di primaria importanza.
Un volontariato che esprime questa coscienza della sua responsabilità, questa sua vocazione nella comunità, diventa il motore per realizzare quella rete di solidarietà che oggi più che mai è l'unico modo serio di rispondere alle sfide della povertà, con espressioni di carità evangelica che diventano gesti politici. Il tipo di promozione del volontariato, che in questi anni si è sviluppato in Caritas Ticino con corsi di formazione e iniziative di vario genere, ha sempre più focalizzato questo obiettivo esigente nei confronti di tutta la comunità e non solo per chi si mette a disposizione. Essenzialmente si è fatta una proposta di approfondimento delle motivazioni e delle modalità per costruire una società solidale, una proposta aperta a tutti, e non tanto la promozione di gruppi "targati" Caritas, che fanno cose particolari o eccezionali. Le esperienze concrete di impegno pratico che centinaia di volontari fanno comunque con Caritas sono offerte come occasione di verifica delle motivazioni personali e come sperimentazione pilota, sia per chi la vive in prima persona, sia per chiunque guardi con interesse a questi ambiti di solidarietà. L'obiettivo è la rete di solidarietà, che non nasce da sola, ma che bisogna tessere attraverso riflessioni, approfondimenti ed esperienze dirette di incontro e di accoglienza di chi ha bisogno. Per questo, accanto alla gamma di proposte di aiuto e di solidarietà concreta e visibile, il tema del volontariato è diventato anche lo spunto per realizzare uno spazio di dialogo con tutti, credenti e non, sulla base di un modello improntato all'incontro e all'accoglienza fra persone e non fondato esclusivamente sulle attività da svolgere, che possono anche essere del tutto secondarie in sé. Promuovere il volontariato diventa sempre più una pista di lavoro fondamentale per promuovere una società più solidale e non una forma di occupazione del tempo libero durante il quale assumere funzioni di supplenza di strutture e servizi sociali che non esistono o sono assenti. La differenza è sostanziale perché nel secondo caso si crea una categoria di operatori sociali di seconda classe che lavora gratis senza saper bene perché debba farlo, al di là di un generico filantropismo. Ciò che spiega del resto gli alti e bassi, e le fluttuazioni cicliche, tipiche di un certo tipo di volontariato, fondato esclusivamente sulle attività da svolgere. Allargare sempre di più la rete di solidarietà significa moltiplicare quelle microesperienze comunitarie di solidarietà che si realizzano quando alcune persone, sulla base della sollecitazione di un bisogno, si ritrovano senza la pretesa di risolvere dei problemi, ma per vivere assieme un'esperienza comunitaria capace di accogliere chi ha bisogno di sostegno.
Interessante l'esempio dei gruppi nati tre anni fa sul tema dell'"Accompagnamento dei malati e dei morenti". La proposta di Caritas Ticino era un ciclo di formazione di un anno, ma ancora oggi molte di queste persone partecipano agli incontri di formazione organizzati 3/4 volte l'anno, continuando a ritrovarsi mensilmente nei diversi gruppi, per mettere in comune l'esperienza della propria vita e non solo la particolare espressione di solidarietà che si sono assunti come compito. Questa impostazione permette loro di avere un distacco e una grande elasticità riguardo alle attività di volontariato: l'attività può cambiare completamente a seconda dei bisogni e della situazione personale di ciascuno, senza che questo comprometta l'esperienza del gruppo che si ritrova su una base diversa. Analoga, in questo senso, anche l'esperienza di alcuni gruppi di accoglienza per i vietnamiti, già citata. L'attività di molti volontari è cambiata completamente, ma l'esperienza comunitaria è rimasta come l'elemento catalizzatore importante che apre ed educa alla solidarietà. L'azione caritativa, l'attività di volontariato qualunque essa sia, può diventare in questi casi lo spunto pedagogico per costruire ambiti solidali, la rete di solidarietà. Più le persone desiderano ritrovarsi per vivere in comunità e non per fare delle attività filantropiche, e più diventano dinamiche ed efficaci quando fanno qualcosa per aiutare gli altri. È l'apparente paradosso della carità: l'efficacia di ogni intervento di carità aumenta quando chi lo fa scopre che il primo beneficiario di quel gesto è lui e non la persona che sta cercando di aiutare. La conseguenza è un cambiamento radicale di prospettiva del volontariato, degli interventi solidali, della loro funzione e della loro efficacia. In quest'ottica va compreso ciò che molti volontari esprimono dicendo "ho ricevuto molto più di quanto ho dato", oppure "credevo di fare qualcosa per gli altri e invece sono io che ho ricevuto molto", indipendentemente dall'aver anche "dato" molto e con risultati evidenti. Questo perché ogni gesto di carità autentica è la gratuità permette di allargare il proprio orizzonte, facendo un passo nella comprensione della verità della propria esistenza e di quella di chi abbiamo incontrato e ci ha chiesto aiuto. Se siamo fra quelli che credono che "il centro del cosmo e della storia è Gesù Cristo", anche se poi il nostro limite personale ci fa vivere come se ciascuno di noi fosse il centro dell'universo, allora le esperienze di solidarietà ci fanno spostare il "centro" sull'altra persona, ed è un primo passo per imparare a spostarlo definitivamente verso il Centro di tutto. Una società più capace di accogliere chi sta meno bene nasce da queste piccole grandi esperienze che sono segni di speranza per tutti, anche per coloro che non avranno mai la fortuna di vederli.
Don Giuseppe Bentivoglio, sacerdote e medico, che negli ultimi anni è responsabile della formazione degli operatori e dei volontari di Caritas Ticino, in un recente incontro descriveva questa immagine: "Un'aquila a furia di stare nel pollaio, finisce con il credere di essere una gallina, né osa pensarsi diversamente. Ma se vedesse un'altra aquila che volteggia, riscoprirebbe di essere un'aquila". La solidarietà non è morta, nonostante l'egoismo e la grettezza che spesso viviamo e incontriamo, nonostante gli squilibri mondiali, le guerre, la fame e la miseria. Il germe della carità è sempre presente, ma ha bisogno di sviluppar si a partire da esempi e sollecitazioni. Se il modesto contributo di questo libro servisse a convincere qualcuno che essere solidali vale la pena, allora il motto "Hai tempo per gli altri?" avrebbe fatto centro. Anche solo perché, come ripete da anni Caritas Svizzera col suo slogan, "Un mondo in cui un solo uomo soffre meno è un mondo migliore". Roby Noris, nato nel 1949, sposato e padre di cinque figli. Licenza in Arti plastiche e cinema all'università di Vincennes a Parigi. Realizzatore di diversi film video su temi sociali, dal 1980 opera in Caritas Ticino di cui è direttore dal 1991. APPENDICE
Cronistoria dell'attività di Caritas dal 1979 al 1993 (È esclusa l'attività relativa all'asilo politico, dettagliata nell'appendice successiva) 1979 - Animazione parrocchiale per l'Anno Internazionale del Bambino: produzione di un montaggio audiovisivo dal titolo "Bambino dove vai?" e di un quaderno relativo. 1980 - Apertura del Servizio lavoratori della Jugoslavia,
che interviene a tutto campo nell'aiuto di tipo sindacale e burocratico amministrativo
in genere. 1982 - Estensione delle adozioni internazionali, con corsi di formazione. 1983 - Coordinamento tra le forze cattoliche e sostegno all'iniziativa per un'efficace protezione della maternità. 1985 - Sostegno attivo all'iniziativa "Si alla vita". 1986 - Aiuti alla Valtellina nel dopo alluvione, in collaborazione con Caritas Svizzera. 1988 - Apertura del Mercatino di Bellinzona presso la casa
per anziani Paganini Re. 1989 - Apertura dell'Ambulatorio Caritas a Lugano, in continuità
con il servizio prestato dalle Suore Misericordine per 80 anni. 1990 - Pubblicazione di 2 Quaderni Caritas. Q.1) Atti della
scuola di cristianesimo 1989: "L'attualità della dottrina sociale
nella Chiesa"; atti del corso di volontariato 1989: "Impegno sociale
e comunità che accoglie". Q.2) "Per una responsabile regolazione
della fecondità coniugale. Aspetti dottrinali, pastorali, scientifici"
realizzato in Collaborazione con il Centro Metodi Naturali sorto a Lugano nel
1983. 1991 - Azione di aiuto alle Caritas di Zagabria e di Rijeka
(Croazia), in collaborazione con la Protezione Civile del Ticino. Invio di 37
camion con 415 tonnellate di materiale di soccorso. 1992 - Continua l'azione di aiuto alle Caritas in Croazia. 1993 - Azione "Vrapce: una casa per un bambino"
con l'apertura di due case nella zona di Zagabria, Vrapce e Samobor, per l'accoglienza
delle donne vittime della violenza sessuale in Bosnia e i padrinati a sostegno
dei bambini vittime della guerra. APPENDICE B Cronistoria dell'attività di Caritas relativa all'asilo politico dal 1976 al 1992 1976 - Caritas apre un Ufficio rifugiati nella sede centrale
di via Pasquale Lucchini a Lugano per svolgere attività di accompagna
mento dei rifugiati, soprattutto cileni e dell'Est Europa. 1979 -5 ottobre: viene approvata dall'Assemblea federale la
Legge sull'asilo. La legge entrerà in vigore il 1. gennaio 1981. 1980 - Inizio anno: un'altra sessantina di profughi vietnamiti si aggiunge al primo contingente di 50. Sono complessivamente 111. Dopo i primi mesi di insegnamento intensivo della lingua, al centro la Montarina, tutti vengono accolti in alcuni comuni del cantone da Gruppi di accoglienza, debitamente "formati" dai responsabili di Caritas: Chiasso, Vacallo, Riva San Vitale, Melide, Lugano, Viganello, Pregassona, Canobbio, Gravesano, Monte Carasso, Arbedo, Tenero, Minusio, Muralto, Losone, Avegno. Circa duecento persone che hanno cercato appartamenti e li hanno arredati, hanno trovato posti di lavoro, hanno contribuito all'inserimento nelle nostre scuole dei più giovani, hanno dato lezioni di italiano, hanno consigliato e accompagnato i rifugiati nel risolvere i piccoli e grandi problemi della vita quotidiana. 1981 - Pubblicazione del dizionario italiano vietnamita quale aiuto all'integrazione per i rifugiati vietnamiti in Ticino. Larga diffusione anche in Italia. 1982 - Azione rifugiati polacchi. Dei mille rifugiati polacchi
accolti in Svizzera e provenienti dall'Austria, sedici trovano sistemazione
in Ticino e Caritas si occupa del lavoro di inserimento nella realtà
ticinese. - Gennaio: nasce il centro culturale vietnamita a Sorengo
Caritas Ticino apre un centro culturale ricreativo per la comunità vietnamita
che conta ormai più di 160 persone nel Cantone. Lo scopo del centro è
duplice: salvaguardare e promuovere l'identità vietnamita e d'altra parte
aiutare i Vietnamiti ad inserirsi progressivamente nella nuova realtà
socio culturale ticinese. Si organizzano feste religiose, con partecipazione
di personalità della religione buddista, feste della tradizione vietnamita,
come il capodanno o la festa dei bambini. Si continuano i corsi di lingua italiana
per adulti e si inizia il corso di lingua vietnamita per bambini e ragazzi.
Varie sono le attività messe in piedi: corso teorico per patente di guida,
corso di chitarra, attività sportive, spettacoli. Il centro vietnamita
sarà luogo di incontro e di formazione per alcuni anni (1986). 1984 - Le richieste di asilo in Svizzera continuano ad aumentare.
22'000 casi in sospeso (per i quali non vi è ancora una decisione). 1985 - Richiedenti asilo assegnati al Ticino raggiungono il
migliaio. Cantone e Croce Rossa si occupano prevalentemente della prima fase
di accoglienza alloggi in alberghi o garni e centro di accoglimento , mentre
Caritas svolge il lavoro di assistenza individuale ai richiedenti di tutto il
Sottoceneri in particolare dopo questa prima fase: cercare lavoro, alloggio,
risolvere tutte le questione burocratico amministrative, permessi. 1986 - Sviluppo del Servizio sociale per i richiedenti l'asilo e riconoscimento da parte del Cantone, che comincia a finanziarlo. 1987 - Aprile: II. revisione della Legge sull'asilo. Creazione
dei centri di registrazione per richiedenti asilo nelle zone di frontiera (uno
a Chiasso); procedura accelerata ma con possibilità per le organizzazioni
assistenziali di essere presenti con i loro rappresentanti. Ripartizione dei
richiedenti fra i Cantoni secondo una predefinita chiave di ripartizione (Al
Ticino il 3.6%). Obbligo per i richiedenti di inoltrare domanda nei posti di
frontiera stabiliti dal legislatore (25 posti in Tutta la Svizzera). Cantonalizzazione
della procedura. Le organizzazioni, fra cui Caritas Ticino, sono contrari alla
revisione della Legge per i seguenti motivi: a) l'accelerazione della procedura
ne verrebbe danneggiata perché si realizzerebbe un sistema a tre audizioni
invece delle due finora in vigore. Conseguenza: ulteriore aumento dei dossiers
in sospeso. b) Il trattamento delle domande in prima istanza verrebbe a cadere
per una nuova formula su cui gravano molti interrogativi. c) In ambito assistenziale,
la responsabilità e l'autonomia del richiedente verrebbero limitate,
poiché anche un candidato all'asilo in grado di cavarsela da solo si
troverebbe obbligato a rimanere in un centro di accoglimento. d) Le formalità
in attesa di rinvio di un richiedente non giustificano l'eventualità
di una detenzione per una durata massima di trenta giorni. Secondo noi 72 ore
sarebbero sufficienti. Complessivamente, la revisione viene contestata perché
tende a favorire una politica di restrizione e di dissuasione e non apre alcuna
nuova prospettiva. Attraverso questa scappatoia della revisione della Legge
non si possono, secondo noi, eliminare i problemi della politica di asilo. 1988 - Domande di asilo sempre in aumento. In Svizzera oltre
2'500 richiedenti attendono risposta alla domanda inoltrata da ormai quattro
anni. 17'000 domande in sospeso in fase di prima istanza, altre 10'000 attendono
risposta dall'Ufficio ricorsi. 1989 - Apertura da parte dell'Ufficio federale per i rifugiati
di un centro di transito per richiedenti asilo ad Arbedo Castione, per far fronte
all'aumento dei richiedenti asilo e alla possibilità di accoglierli durante
i primi giorni, in attesa di essere registrati. 1990 - 35'000 domande di asilo in Svizzera durante quest'anno. 1991 - Con l'introduzione del Decreto federale urgente del
1990che limita ulteriormente l'accesso alla Svizzera per i richiedenti asilo,
si verifica una diminuzione consistente delle richieste e si comincia ad intravedere
la soluzione dell'annoso problema dei casi in sospeso trascinati per lungo tempo.
Questo si rende possibile anche per l'aumento del personale dell'Ufficio federale
per i rifugiati. 1992 - Ulteriore diminuzione delle domande di asilo in Svizzera,
con conseguente diminuzione dei richiedenti asilo assegnati al Ticino. Guillermo Ader, Marco Bischof, Ugo Bonguglielmi, Carlo Doveri, Carmen Fioriti Costantini, Danilo Gnocchi, Roberto Guscetti, Lorenzo Hess, Giovanni Mascetti, Dani Noris, Ignazio Noris, Assumpta Ravano, Antonimo Ruggia, Patrizia Solari, Marina Biscotto, Rosi Zanin, e tutti coloro che involontariamente sono stati dimenticati. Caritas Ticino 1993 Edizione curata da Mimi Lepori Bonetti e Roby Noris Coordinazione della ricerca storica: Alberto Gandolla |